All’inizio degli anni Sessanta, il frate trappista Thomas Merton, criticando l’immoralità della guerra in generale (e la guerra nucleare in particolare), scriveva parole che oggi rischiano di risuonare drammaticamente profetiche: “Dobbiamo affrontare il fatto che la guerra non è solo il prodotto di cieche forze politiche, ma di scelte umane e se ci stiamo avvicinando sempre di più alla guerra è perché è quello che gli uomini stanno liberamente scegliendo di fare. La brutale realtà è che sembriamo preferire le misure distruttive: non che amiamo la guerra in sé e per sé, ma perché siamo ciecamente e disperatamente coinvolti in bisogni e atteggiamenti che rendono la guerra inevitabile” [1].
Andando oltre l’analisi sulle cause che spingono l’umanità alla guerra (Merton non coglie il nesso tra capitalismo e guerra), nella citazione viene descritto un fattore, un atteggiamento sociale, per così dire, che emerge con prepotenza nell’attuale contesto internazionale: l’immoralità della guerra presuppone una passiva, quasi rassegnata, accettazione da parte della società civile.
Dinanzi alla tragedia della guerra in Ucraina, ci troviamo oggi di fronte alla complessità di promuovere forme concrete di mobilitazione per la pace. Non si tratta di negare un dato di fatto reale, ossia il sentimento, maggioritario nel Paese, di contrarietà a un coinvolgimento diretto dell’Italia nel conflitto in corso; coinvolgimento che avrebbe conseguenze catastrofiche in primis per l’umanità intera. La fatica di costruire una mobilitazione efficace deriva anche dall’atteggiamento di accettazione della guerra ben espresso dalla classe politica e dalle sue scelte di politica estera, così come propugnato, in modo ossessivo e martellante, dalla quasi totalità dell’apparato mass-mediatico.
Osservando l’evoluzione del conflitto in Ucraina e la postura, sempre più aggressiva, dei due blocchi militari avversari (la Russia, direttamente coinvolta nella guerra, e la Nato) pare proprio che non vi sia l’intenzione di allontanarsi dalla strada di uno scontro che, come è stato più volte ripetuto nei mesi scorsi, si tradurrebbe in una guerra nucleare. Tali atteggiamenti, per tornare a Merton, si riflettono, nel campo dell’ideologia, nella progressiva, assurda, razionalizzazione dell’irrazionale: da mesi infatti su diverse riviste di settore gli analisti stanno, tranquillamente, discutendo della possibilità di un conflitto nucleare “controllato”, limitato cioè alle sole armi tattiche.
Questa operazione di razionalizzazione dell’irrazionale (una guerra nucleare sfugge di per sé a qualsiasi forma di controllo), descrive molto bene le difficoltà riscontrate quotidianamente dal movimento per la pace. Manca, oggi, completamente, una cultura della pace che, sul terreno dello scontro politico, si traduca in cultura della mediazione e del negoziato. Questa cultura manca perché a mancare sono sia una filosofia politica della coesistenza tra blocchi e sistemi politici differenti sia una filosofia morale dell’accettazione dell’altro connessa al riconoscimento delle sue legittime necessità.
Le cause di questa mancanza sono molteplici: la passivizzazione sociale e l’individualismo, come portati del consumismo, ne rappresentano gli aspetti superficiali, contro cui è comunque imperativo combattere. Scavando più in profondità ci si accorge che l’accettazione dell’inevitabilità della guerra è una conseguenza indiretta dei limiti e delle storture del liberalismo, a loro volta riflesso dei limiti e delle storture del capitalismo.
Il mondo Occidentale si è dimostrato incapace e inadeguato nel trovare soluzioni al problema, centrale, dell’esplosione delle disuguaglianze sociali. Concependo la disuguaglianza come un male necessario, da circoscrivere, senza tuttavia riuscirci, anziché sconfiggere, il liberalismo, tendenza politica oggi egemone nelle democrazie occidentali, non riesce a concepire un mondo che non sia, di per sé, diseguale.
Se sul piano economico ciò si è tradotto nel perdurare della crisi finanziaria scoppiata nel 2008 (e aggravata dalla crisi pandemica), su quello morale e politico il non riconoscimento dell’uguaglianza alimenta una cultura dell’egemonia (della prepotenza) che esclude, a prescindere, la diversità (antropologica; culturale; di interessi economici; di prerogative di sicurezza nazionale). Se non riconosco nell’altro delle ragioni che siano uguali alle mie (in materia, per esempio, di sicurezza: il dibattito sull’ingresso dell’Ucraina nella Nato a fronte dell’opposizione russa), non riconosco l’altro come uguale a me e quindi sono portato, per natura delle cose, a isolarlo e, in prospettiva, a scontrarmi con lui. Sarebbe interessante far notare, ai campioni del liberalismo, quanto sia illiberale escludere dalla ragion democratica chiunque non condivida le nostre stesse idee. Questa breve riflessione, però, intende focalizzarsi sul tema, oggi letteralmente esistenziale, della necessità di una lotta per la pace e dei compiti che, come Anpi, siamo tenuti a svolgere nella difficile situazione attuale.
La lotta per la pace
Battersi per la pace oggi è più che mai necessario. La guerra è insista nel capitalismo, la cui accumulazione implica il consolidarsi delle tendenze monopolistiche che lo alimentano e il conseguente dispiegarsi delle disuguaglianze su scala globale. La lotta per le risorse, sempre più scarse; l’allargamento della Nato verso i confini russi; il contenimento della Cina sono elementi diversi dello stesso meccanismo mediante il quale l’imperialismo, niente affatto scomparso, intende mantenere, anche ricorrendo alla forza, il sistema unipolare in un mondo che diviene, lentamente ma progressivamente, multipolare.
Accanto a questo tema di fondo, se ne aggiunge un altro per il quale si rende necessaria una lotta per la pace. L’eventualità dello scontro tra blocchi militari dotati di armamenti nucleari suggerisce la possibilità, concreta, di uno scenario apocalittico: la guerra nucleare, che viene sempre più accettata come razionale a causa della diffusione di una filosofia politica tossica che nega la mediazione, coinciderebbe solo con la fine di ogni cosa. La possibilità di rendere invivibile un pianeta, già agonizzante per le conseguenze del cambiamento climatico, sul quale la vita ha potuto svilupparsi deve far suonare più di un campanello d’allarme in ciascuno di noi.
Esiste solo un modo per sconfiggere la passivizzazione, la fuga nell’intimismo e la rassegnata accettazione della catastrofe che infestano le nostre coscienze e che sono il riflesso soggettivo di quell’atteggiamento di accettazione della guerra di cui scriveva Merton. Soltanto collegando il tema della lotta per la pace a quello della lotta per la vita si potrà dar corpo, gambe e cuore a un movimento che possa realmente incidere nella società. Del resto se le persone trovano simbolico riparo nei loro interessi particolari perché la politica ha scelto di non ascoltarle, ciò non significa che siano disinteressate alla pace in quanto diretta preservazione della vita.
Nella società italiana il sentimento contro la guerra è ampiamente diffuso, nonostante la propaganda e le politiche adottate dalla stragrande maggioranza dei partiti. Certo, l’opposizione alla guerra spesso esula, nel sentimento popolare, dalla questione della sua immoralità: sarà più facile incontrare una persona che non vuole la guerra contro la Russia perché non vuole pagare bollette da 800 euro; o, peggio, perché in fondo ha in simpatia Putin e la sua regressiva concezione del mondo. Le motivazioni che spingono le persone a dirsi contrarie alla guerra sono le più varie, e spesso le più egoistiche: nonostante ciò, e forse proprio per questo, è necessario insistere sull’importanza della pace come tutela della vita di ciascuno di noi.
In effetti è questo il tasto su cui battere, politicamente, nel senso più alto del termine. Oggi è in discussione la vita di ciascuno di noi. Nel momento in cui scompare la cultura della deterrenza atomica, scompare l’ultimo freno morale che ancora rendeva possibile immaginare di non utilizzare la bomba in un conflitto armato. Cadendo questo freno e venendo razionalizzato ciò che non può essere razionalizzato (l’uso dell’arma atomica; la certezza, rivestita di presunta scientificità grazie alla peer review, che un conflitto nucleare limitato sia controllabile), viene a cadere il limite che la ragione impone all’uomo affinché quest’ultimo non distrugga sé stesso.
Lotta per la pace significa lotta per la vita. Su queste parole d’ordine, unite alla diffusione nella società della necessità di un disarmo nucleare multilaterale, andrebbe impostata una corretta, ed efficace, campagna di mobilitazione contro la guerra.
L’Anpi e la Pace
L’Anpi ha manifestato, con coraggio e determinazione, la forte condanna della guerra, in piena coerenza con i valori antifascisti alla base della nostra Costituzione. Per questa sua posizione, l’organizzazione è stata oggetto di attacchi strumentali, violenti, tipici di una vera e propria cultura della guerra, atti solo a screditarne, in maniera spesso volgare e grottesca, l’attivismo nella società.
Non ci siamo fatti intimorire. Siamo anzi andati avanti nella costruzione di legami, collaborazioni, iniziative con mondi spesso lontani dai nostri. L’Anpi può e deve diventare il perno attorno cui rivitalizzare un movimento per la pace che fatica a uscire dall’angolo, in Italia, da molti anni. Questo ruolo ci è implicitamente riconosciuto dall’affetto che sempre più persone, molte delle quali in giovane età, manifestano per la nostra associazione, la quale è impegnata nello sforzo di imprimere alla società una complessiva svolta progressiva.
Come Anpi abbiamo dovuto, talvolta, reinventarci e ripensare noi stessi, a cominciare dalle modalità di partecipazione e inclusione. Non siamo più, come invece qualcuno vuole far credere, una semplice organizzazione di ex combattenti: oggi l’Anpi raccoglie, dinanzi alla povertà, quando non alla miseria, dello scenario politico italiano, le migliori energie; oggi veniamo visti e percepiti come un’associazione aperta e in grado di essere parte del rinnovamento politico-sociale di cui il Paese ha bisogno.
Non deve sorprendere, quindi, l’impegno assunto nel costituire, lanciare e rilanciare, in tutta la penisola, le reti e i comitati per la pace. In queste realtà ci siamo spesso confrontati e incontrati con mondi un tempo lontani, coi quali però si sta realizzando un percorso comune. Riconosciamo nell’altro quel presupposto di uguaglianza, nonostante le diversità, che invece il liberalismo ha espulso dalla politica internazionale con le conseguenze cui assistiamo quotidianamente.
Il nostro impegno per la pace deve proseguire in questa direzione unitaria, soprattutto verso il variegato, complesso e dinamico mondo cattolico. Le dichiarazioni e gli appelli di Papa Francesco; la coraggiosa, e purtroppo isolata, linea editoriale di “Avvenire”; l’attivismo di associazioni e organizzazioni cattoliche contro la guerra e per il disarmo nucleare sono tutti elementi che testimoniano quanto quel mondo si mantenga oggi su posizioni avanzate, e sostanzialmente giuste, sul tema della guerra perché forse quel mondo, più del nostro, ha colto la dimensione esistenziale, drammaticamente esistenziale, dello scontro in atto: che lotta per la pace significhi lotta per la vita i cattolici lo hanno capito bene. Anche per questo va costruita e praticata l’unità affinché si arrivi alla costruzione, nella società, di un movimento per la pace che riesca ad esprimere il sentimento, reale e maggioritario nel Paese, di totale contrarietà alla guerra.
Cristiano Poluzzi, Segreteria Anpi provinciale Bergamo
[1] T. Merton, La Pace nell’era postcristiana, Edizioni Qiqajon Comunità di Bose, Magnano 2005, p. 75. Il corsivo è nel testo.
Pubblicato venerdì 2 Settembre 2022
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