La fase di recrudescenza illiberale che si è manifestata nell’Ungheria di Viktor Orbán e nella Polonia di Jarosław Kaczyński merita una disamina più puntuale sul nazionalpopulismo che stringe oggi in una morsa quei due Paesi.
In Polonia vi è stata un’ulteriore restrizione della legge 1993 sull’interruzione di gravidanza, con l’estensione del divieto d’aborto anche in caso di anomalie fetali, dando luogo a proteste e arresti, tra cui quello di Marta Lempart – leader insieme a Klementyna Suchanow del movimento delle donne polacche Ogólnopolski Strajk Kobiet (Sciopero nazionale delle donne) –, che rischia adesso otto anni di prigione. Un radicale cambiamento è avvenuto nell’universo dei media polacchi: la PKN Orlen, azienda polacca operante nel settore degli idrocarburi, ha acquistato dal gruppo editoriale tedesco Verlagsgruppe Passau il complesso Polska Press. In tal modo, Orlen ha acquisito il controllo di parecchie testate giornalistiche, inclusi centinaia di website, andando incontro alla richiesta espressa dal partito di governo (PiS) e dal suo leader, Kaczyński, di “polonizzare” quanti più media possibile, estromettendo dal mercato editoriale quelli stranieri, soprattutto se tedeschi.
È il modello dell’Ungheria di Orbán dove, su pressione del premier, gli oligarchi fedeli al partito di governo (Fidesz) hanno creato una fondazione, la Kesma, con la quale hanno acquistato gran parte dei media privati (indipendenti), che sono stati poi allineati su posizioni filogovernative o sono stati chiusi. Sempre in Polonia è stata introdotta una tassa liberticida sulle entrate pubblicitarie dei media, con lo scopo d’indebolire o liquidare le uniche voci d’informazione rimaste indipendenti, la cui sola fonte di finanziamento è la pubblicità. Infine, era stato di recente nominato alla direzione dell’Istituto della memoria nazionale (Imn di Breslavia), Tomasz Greniuch, un ex militante del movimento di estrema destra Onr, che ha però rassegnato le dimissioni dall’incarico appena ricevuto, dopo le proteste del governo d’Israele, degli storici dell’Università di Breslavia e del vicesindaco della città, Sebastian Lorenc.
In Ungheria è stata modificata la legge elettorale, prevedendo meccanismi che escludono la formazione di piccoli partiti (con lo scopo di favorire il partito Fidesz). Lo scorso anno, il parlamento magiaro ha respinto la ratifica della Convenzione di Istanbul considerata una carta che promuove l’“ideologia distruttiva di genere” e la “migrazione illegale”, e ha approvato una serie di emendamenti alla Costituzione, tra cui quello che riconosce legalità solo alla famiglia eterosessuale (“i bambini dovranno ricevere un’educazione “basata sull’identità nazionale e sui valori cristiani”), penalizzando ulteriormente le comunità Lgbtq. Nel pacchetto delle riforme costituzionali è, inoltre, incluso un allentamento del controllo sulla spesa statale, consentendo al governo di disporre con maggiore autonomia di denaro pubblico (comprese le risorse europee), nonché l’abbassamento della soglia richiesta per dichiarare lo stato d’emergenza, con la scusa della pandemia da Covid-19, autorizzando il premier, in caso di necessità, ad assumere i “pieni poteri”, bypassando il parlamento. Infine, l’ultima radio indipendente dell’Ungheria, Klubrádió, è stata spenta su decisione del Consiglio dei media, un organo composto da persone vicine al premier Orbán. Prosegue, dunque, indisturbata la linea del governo di censura dei mass-media inaugurata nel 2011 con la famosa legge-bavaglio sulla stampa.
Fa eco alla deriva polacca e ungherese, che suggella il graduale smantellamento dello stato di diritto, già vulnerato dalla progressiva erosione del sistema di pesi e contrappesi (in entrambi i Paesi il potere giudiziario è pressoché sotto il pieno controllo del governo), la polemica in corso in sede europea sul vincolo di erogazione dei fondi comunitari (Recovery Fund) al rispetto dello stato di diritto. Una condizione non gradita dalle rispettive maggioranze “sovraniste” di destra al potere, che respingono l’indebita ingerenza UE nei loro affari interni. È recente la notizia della fuoriuscita del Fidesz di Viktor Orbán dal Ppe, dopo due anni di tensioni interne al gruppo europeo. Un epilogo scontato, dato che – come ha sostenuto Manfred Weber (presidente del gruppo Ppe al Parlamento europeo) – “Fidezs non condivide più da tempo i valori di De Gasperi, Schuman, Adenauer e Kohl che sono alla base del Ppe”.
La polarizzazione dello scontro
In Polonia e in Ungheria è presente un nazionalpopulismo intransigente, che non tende ad arrestarsi. L’ingresso nella compagine governativa di Kaczyński, cha ha assunto l’incarico di vicepremier, con lo scopo di rinsaldare la coalizione di governo (segnata da dissapori interni), ha esacerbato quel conflitto culturale profondo che da tempo pervade la Polonia, segnata da un limes che vede sempre più contrapposte due forze nel Paese: una progressista, laica e liberale (concentrata nelle città) e un’altra clericale, illiberale e passatista (radicata nelle campagne). Le misure prese di recente dal governo, involutive sul piano della difesa dei diritti e delle libertà, hanno provocato il sorgere di una moltitudine di proteste spontanee, di buon impatto, da parte di una cospicua fetta della società civile, che per quanto ancora debole mostra la presenza di un “contropotere” che si fa piano piano avanti e che rivendica una diversa Polonia. La sfida è grande: liberare la Polonia dal “clientelismo autoritario” del PiS e dalla morsa della premodernità.
Anche in Ungheria è presente una società civile in fermento, rappresentata soprattutto da giovani attivi sui social e impegnati, sul modello dei samizdat, in una controinformazione volta a diffondere contenuti alternativi alla propaganda di regime. È, inoltre, attivo il partito Momentum, sorto nel 2017, costituito dai giovani della classe media borghese di Budapest di orientamento liberale, e che ha già due rappresentanti al Parlamento europeo. Infine, a dispetto della modifica della legge elettorale che esclude dalla competizione i piccoli partiti, sei forze politiche dell’opposizione hanno raggiunto un’intesa per la formazione di un’unica lista nazionale (con un solo candidato anti-Orbán e un solo sfidante in ognuno dei 106 collegi uninominali), che concorrerà alle elezioni politiche del 2022, il cui scopo è liquidare il sistema corrotto (che esclude dai fondi UE la città di Budapest amministrata da un sindaco green ed europeista) e “feudale”, instaurato dal partito Fidesz, dove un signorotto (Viktor Orbán) premia i suoi sottoposti con i latifondi in cambio di assoluta devozione (è la classe oligarchica creata dal regime).
Entrambi i Paesi si trovano, quindi, di fronte ad ardue imprese: riuscire, innanzitutto, a superare la frammentazione dell’opposizione di sistema, ma anche ad incanalare i movimenti di protesta in forze politiche organizzate con programmi chiari (compito non facile nella galassia eterogenea dei movimenti); reggere l’urto della stretta repressiva e delle leggi liberticide che ha indebolito negli anni le opposizioni.
Alle radici del nazionalpopulismo
C’è un filo conduttore che unisce i due Paesi mitteleuropei. Entrambi hanno condiviso un’esperienza comunista di lungo periodo e hanno poi sperimentato una difficile fase post-comunista di transizione al libero mercato. Le politiche economiche adottate seguono i diktat del Washington consensus formulate nel 1989, causando la pauperizzazione di larghe fasce della popolazione. Polonia e Ungheria sposano, insieme al liberalismo economico, i principi della democrazia liberale: in Polonia con il sindacato cattolico di Solidarność, in Ungheria con il partito Fidesz (inizialmente su posizioni democratico-liberali), in cui milita il giovane Orbán. Sono le premesse del loro ingresso prima nella Nato e poi nell’UE. Tuttavia, negli anni, si consolida un liberalismo antidemocratico, che preserva i diritti civili e le libertà politiche, ma che si disinteressa dei diritti sociali della gente comune, favorendo la marea montante dei nazionalpopulismi già emersi dalle macerie del comunismo, e con essi il ripiegarsi su valori e comportamenti arcaici come forma di resistenza.
Sul banco degli imputati ci sono il partito Piattaforma Civica di Donald Tusk, passato alla storia per i suoi contratti di lavoro “spazzatura”, e il Partito socialista ungherese (di orientamento socialdemocratico) piegato ai prestiti (e alle condizioni) del Fmi, in un Paese già provato da una recessione economica accesa dalla crisi finanziaria del 2008. Il passaggio verso un regime di democrazia illiberale è conseguente: nel 2001 nasce il partito PiS dei gemelli Kaczyński (Polonia), che eredita l’anima confessionale e integralista del sindacato Solidarność, e che dopo una breve parentesi di governo nel 2006-2007 prenderà stabilmente le redini del potere dal 2015, scalzando l’anima laica e liberale di Solidarność (in cui militava D. Tusk).
In Ungheria, il partito Fidesz già intorno al 2000 mostra segnali di revirement, anche se la svolta paradigmatica verso l’illiberalismo avrà luogo nel 2010. In questi due Paesi si fa strada il nazionalpopulismo, dove il fattore nazionale ha radici lontane e non è solo il frutto di decenni di “sovranità limitata”, ovvero di sudditanza da Mosca, quando l’odio verso l’occupante aveva generato pulsioni represse di nazionalismo bellicoso. Se l’Europa occidentale si emancipa dal nazionalismo alla fine delle due guerre mondiali, per Polonia e Ungheria la caduta del muro di Berlino non significa solo l’affrancamento dal comunismo ma anche la riconquista della sovranità nazionale. Un tema “caldo” per la Polonia che nell’Ottocento era stata cancellata dalla carta geografica, e per l’Ungheria dimezzata nel 1920 dal Trattato di Trianon.
La riconquista tardiva della sovranità in Polonia, nell’intermezzo delle due guerre mondiali, è allo stesso tempo il risveglio del nazionalismo conservatore d’impronta antisemita di fine Ottocento, che ha origine da un risentimento nazionale e di classe (nella Polonia spartita, gli ebrei borghesi commerciavano con gli occupanti – i prussiani e i russi), e che poi assume un significato etnico razziale. Un nazionalismo che sarà pienamente appoggiato dalla Chiesa cattolica (elemento centrale nella storia polacca, dato che è la Chiesa a rappresentare la Polonia nel periodo della sua spartizione tra i tre grandi Imperi prussiano, russo, austriaco, e a fare poi da contropotere al regime comunista). Il nazionalismo polacco odierno, pur muovendosi in un contesto molto diverso, è in qualche modo l’erede di quella storia. Certamente, nel corso del tempo i toni si sono stemperati, soprattutto dopo lo sterminio degli ebrei polacchi durante l’occupazione della Germania nazista, ma è indubbio che nel sentimento popolare polacco l’antisemisitismo sia ancora presente.
Ecco, dunque, il ritorno sulla scena politica della Falange nazional-radicale (centrata sull’integralismo cattolico ferocemente antisemita come quello formatosi originariamente nel 1935), l’introduzione della “legge sulla Shoah”, censoria verso chiunque voglia ricordare eventuali complicità di cittadini polacchi nello sterminio, e il tentativo (non riuscito) di mettere alla guida dell’Imn un ex militante di Onr. Ecco, infine, il ritocco alla legge sull’aborto, che accontenta larghe fette del clero integralista polacco.
In Ungheria, la riconquista della sovranità al termine della Prima guerra mondiale (anche in questo caso tardiva), dopo decenni di sudditanza asburgica (nonostante l’Ausgleich del 1867), viene subito lesa dal Trattato di Trianon, con cui ampi territori magiari sono persi e annessi ai Paesi confinanti. Nel periodo interbellico, dopo la breve parentesi della Repubblica dei Consigli guidata dal comunista Béla Kun, seguono il governo reazionario di Miklós Horthy e quello del partito delle Croci Frecciate (leader Ferenc Szálasi – fautore dell’ungarismo (hungarizmus), che promuove una forma di nazionalismo improntato alla xenofobia, all’antisemitismo e all’esaltazione dei caratteri magiari) alleato dei tedeschi in tempo di guerra.
Il nazionalismo ungherese odierno rivendica la promozione dei valori storici magiari. Ecco, dunque, la nascita della Guardia ungherese (Magyar Gárda) negli anni duemila (ora sciolta), la cui divisa richiama quella dei militanti delle Croci Frecciate, e l’arrivo sulla scena politica di Jobbik, portatore di un nazionalismo panungherese. Nel 2010, il parlamento ungherese (a maggioranza Fidesz) approva una legge, in cui definisce i trattati di pace firmati a Versailles alla fine della prima guerra mondiale “la più grande tragedia mai capitata agli ungheresi”, con la chiara volontà di riscrivere la storia utile al discorso egemonico costruito dal regime teso ad alimentare una narrazione vittimista della storia ungherese e uno spirito di rivalsa nazionale. Lo slogan nazionalista “Abbasso il Trianon” diventa il simbolo del tradimento dell’Occidente e sinonimo del revanscismo magiaro mai sopito.
Il partito di Orbán riaccende l’irredentismo ungherese e costruisce muri per fermare il cammino dei migranti considerati una minaccia diretta alla sicurezza e integrità nazionale. E, a dispetto di chi sottolinea l’egoismo intrinseco ai nazionalismi, Orbán rispolvera la teoria politica del conazionalismo (un’idea comunitaria che sostiene la cooperazione tra nazionalismi), a suo tempo propugnata dal nazista delle Croci Frecciate Szálasi, anche se rimodulata sul momento presente: ognuno deve conservare in Europa la propria particolarità nazionale e, contemporaneamente, condividere uno stesso codice di civiltà, i cui parametri sono la lotta al secolarismo, al globalismo, al multiculturalismo, ad ogni forma di variante dello stilema eterosessuale, e i cui ideologemi di base sono Dio, Patria, Famiglia.
Cristina Carpinelli, membro Comitato scientifico del CeSPI (Centro Studi Problemi Internazionali) di Milano per i Paesi CEE
Pubblicato martedì 16 Marzo 2021
Stampato il 22/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/primo-piano/allest-europa-niente-di-nuovo/