Valle del Ceno, Pellegrino Parmense (PR), una squadra partigiana cuoce il pane (archivio fotografico Anpi nazionale)

IL CONTESTO

L’estate del 1944 fu una stagione di libertà, di felicità, di illusioni e di delusioni, di anticipazione del futuro pur nel dramma della sconfitta. Anche nelle valli parmensi del Taro e del Ceno l’entusiasmo cresceva a poco a poco. Il parroco di Borgotaro, monsignor Carlo Boiardi, lo annotò nel suo diario il 12 giugno, con una preoccupazione connaturata a una posizione politica estremamente prudente: «C’è nell’aria un senso diffuso di attesa e di novità, acuito anche da qualche manifestino scritto a macchina e affisso alle contrade dai partigiani, in barba a tutte le Autorità del Paese» [1].

Roma era stata liberata il 4 giugno, gli Alleati sembravano vicini. Antonio Roasio “Paolo”, ispettore generale delle Brigate Garibaldi per il Veneto e l’Emilia, così descriveva la situazione emiliana il 15 giugno: «Qui si vive un’atmosfera di guerra. (…) Si vede che la guerra si avvicina. I compagni se ne rendono conto e si preparano» [2]. Ilio Barontini “Dario”, ispettore generale anche per l’Emilia, condivideva: «… le voci più disparate corrono di bocca in bocca, la gioventù non si presenta alle ultime chiamate alle armi, le diserzioni di soldati e di carabinieri sono di tutti i giorni, c’è l’elettricità nell’aria, noi stiamo attrezzandoci per fronteggiare la situazione che sta maturandosi» [3].

Il generale britannico Harold Alexander

Le fonti fasciste e tedesche – i Notiziari della Gnr e i rapporti della Militarkommandantur 1008 – confermavano questo quadro: la Gnr si andava disgregando, i repubblichini si sentivano sopraffatti e impotenti, mentre le bande controllavano indisturbate il territorio. Il generale Alexander, comandante in capo delle truppe alleate in Italia, il 6 giugno aveva proclamato: «Il giorno da voi tanto atteso è finalmente giunto. Faccio appello a tutti i patrioti d’Italia d’insorgere compatti» [4].

Analogo appello aveva lanciato, a giugno, il Partito comunista: «… il nostro popolo si prepara all’imminente battaglia finale, all’insurrezione nazionale, alla vittoria liberatrice» [5]. Nel giugno si creò il Cvl, Corpo volontari per la libertà. Tra giugno e luglio si formerà il Cumer, il Comando unico militare dell’Emilia Romagna, espressione del Cln (Comitato di liberazione nazionale) regionale. All’avanzata degli Alleati doveva corrispondere, insisteva il Pci, la «guerra patriottica», di cui le «zone liberate» – venivano citate anche quelle delle province di Parma e della Spezia – erano l’espressione più alta: «Ma la coscienza e l’orgoglio nazionale comandano che l’Italia sia presente ed attiva nella guerra: che la sua liberazione sia anche opera degli italiani, perché a questa partecipazione degli italiani alla guerra antinazista è affidato il riscatto dall’onta di venti anni di dominazione fascista e dai crimini commessi dal fascismo in nome dell’Italia; perché da questa partecipazione dipende il posto che l’Italia occuperà domani nel mondo» [6].

(archivio Sezione ANPI Borgotaro, che ringraziamo)

Al patriottismo si accompagnava, nelle valli del Taro e del Ceno, il “localismo buono”, secondo cui “la patria è anche la mia terra, la mia montagna”. I partigiani della montagna «non smisero di immaginare un’azione corale per liberare le ‘loro’ terre» [7]. Un sentimento che ben esprimeva il Diario poetico del partigiano Jàfet: «Se gli alleati pensano di averci comprato coi loro aiuti, sbagliano: noi stiamo combattendo per la nostra libertà, e se sarà necessario andremo anche contro gli alleati» [8].

In Val di Taro (archivio fotografico Anpi nazionale)

Le zone libere furono, in questo contesto, una conseguenza “fisiologica”. Il loro presupposto fu l’offensiva alleata, ma anche il cambiamento in atto nella società italiana, di cui la crescita della guerriglia era l’aspetto più eclatante. L’entusiasmo si fece ubriacante: «… s’innalzano e dilagano per le valli i canti di vittoria che le pareti delle montagne rimandano in un’eco che sembra non voglia mai spegnersi: la valle del Ceno è liberata. E così rispondono i partigiani della valle del Taro […] Non più i boschi sono animati da così esuberante giovinezza in armi, ma tutte le strade e le vie di quei centri montani riecheggiano di canti e di evviva» [9].

Quei canti erano poemi popolari, che avevano come autore il popolo. La vita ferveva: «Al caffè dei centri maggiori, affollatissimi di ebrei, partigiani, antifascisti, di tutti i colori e di tutte le provenienze, si discutono con calore i problemi della guerra che non finisce e quelli della pace che non può tardare. La gente passa tranquilla per le strade e legge sui muri le ordinanze del nuovo governo sugli ammassi dei cereali e del bestiame e gli avvisi funebri per le onoranze ai patrioti caduti. Alla sera, nei cinematografi, girano pellicole americane, documentari del mondo libero, della guerra tedesca e scene di guerriglia sui monti dell’Italia già liberata» [10].

I FATTI

Il comandante garibaldino della Val Ceno, Luigi Marchini “Dario”, MdAVM

Il 5 giugno si tenne, a Caffaraccia di Borgotaro, un incontro tra la formazione garibaldina operante in Val Ceno – la 12a Garibaldi comandata dal medico Luigi Marchini “Dario”, comunista – e le formazioni autonome attive in Val Taro, ancora divise tra loro. La proposta della 12a Garibaldi alle formazioni autonome fu il coordinamento per la liberazione simultanea delle due valli. La riunione si concluse con un nulla di fatto. Non tutti i comandanti delle formazioni autonome erano convinti: sia per motivi militari, perché la Val Taro era troppo importante per i trasporti tedeschi e quindi meno difendibile della più isolata Val Ceno; sia per motivi politici, legati alla divisione dei piccoli gruppi autonomi tra loro ma anche alla loro comune difficoltà a collaborare con le formazioni comuniste.

Dell’incontro furono poi date versioni diverse, ma questa è la sostanza. “Dario” e i garibaldini decisero di procedere. Bardi venne liberata il 10 giugno, poi toccò a Varano Melegari, a Varsi, a Pellegrino Parmense. Fu il primo territorio libero del Nord.

La Brigata Centocroci (archivio Istituto spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea, che ringraziamo)

Su questa spinta, ineluttabilmente, si mosse la Val Taro. Il 15 giugno il Gruppo Centocroci, il più impaziente, occupò Bedonia. Poi il Gruppo Molinatico, che diverrà Brigata Julia, occupò Borgotaro. Tornarono subito i tedeschi e rastrellarono, ma Borgotaro venne riconquistata dai partigiani il 25 giugno. Albareto, Compiano, Tornolo, fino a Varese Ligure in provincia della Spezia divennero zone liberate: «È la stagione partigiana più piena, la stagione della maturità, la più ricca di azioni e di speranze con il suo ritmo incalzante degli avvenimenti, le azioni militari, ma anche i propositi per l’avvenire, l’inizio del superamento di reciproche diffidenze, lo sciogliersi di antichi sospetti» [11].

Monumento al Passo del Rastrello (foto Giorgio Pagano)

La reazione tedesca non tardò. Epica fu la vittoria partigiana nei pressi del torrente Manubiola, il 30 giugno, a cui parteciparono reparti della Julia e della Centocroci. Così pure la battaglia della Grifola (8 luglio), combattuta dalla Julia e dalla Centocroci, e quella di Pelosa di Varese Ligure (11 luglio), in cui operarono il Gruppo Bill e la Centocroci. Questi combattimenti non evitarono però la sconfitta dei partigiani, a cui seguirono i rastrellamenti massicci e gli eccidi dell’operazione Wallenstein II: una feroce “strage diffusa”, che fece molte vittime e comportò la deportazione di moltissimi rastrellati nei campi di lavoro, in condizioni per nulla dissimili da quelle che regnavano nei campi di concentramento [12].

Anche la 12a Garibaldi fu attaccata violentemente e sostenne combattimenti a Vianino e a Luneto, prima di cedere. A Vianino emerse il valore di Giacomo di Crollalanza “Pablo”, che mosse risolutamente contro i tedeschi a capo di un pugno di volontari. Le sue qualità lo avrebbero portato alla nomina a comandante del Comando Unico parmense [13]. I rastrellamenti colpirono anche la Val Ceno. In entrambi i territori l’impossibilità dei partigiani a fronteggiare i tedeschi e a proteggere la popolazione incrinò per tutta una fase il consenso alla Resistenza. Gli stessi fenomeni di “memoria antipartigiana” nel dopoguerra hanno innanzitutto qui le loro radici. In Val Ceno e in Val Taro la memoria si divise. Fu più critica verso i partigiani in Val Ceno, per motivi che esamineremo. Qui basti dire che ci fu una notevole “concorrenzialità”, della quale sono emblematici i due testi del ventennale delle celebrazioni, nel 1964. Quello per la liberazione della Val Ceno rivendicava il “primato”: tutto era nato a Caffaraccia, la Val Taro “seguirà”. Quello per la liberazione della Val Taro non faceva alcun cenno a Caffaraccia e alla Val Ceno.

I partigiani della Val Ceno

Incontro fra il comandante della Val di Ceno Ettore Cosenza “Trasibulo” e una formazione garibaldina (Archivio fotografico Anpi nazionale)

La 12a Garibaldi era composta da molti giovani provenienti dalla città e dalla pianura. Forestieri che furono accolti con entusiasmo ma che suscitarono anche diffidenza, per abitudini, mentalità, idee politiche diverse da quelle dei contadini. L’ispettore Enzo Costa “Ferrarini” diede questo giudizio: «I sacrifici di lunghi mesi in montagna e la mancanza di una buona preparazione politica, l’eterogeneità delle forze, hanno reso un po’ acri i rapporti tra i garibaldini e la popolazione civile. La povertà dei mezzi dei nostri patrioti, la scarsa sensibilità politica dei montanari della zona, la loro paura per un eventuale rastrellamento, non hanno permesso una cordiale convivenza e quindi la liberazione si è trasformata in vera occupazione» [14].

Alcuni partigiani della Muccini

La Brigata era composta da tre Battaglioni: Copelli, Betti e Ralli. Del Ralli faceva parte il distaccamento Muccini, formato dai sarzanesi e dagli spezzini che erano rimasti nel Parmense dopo l’azione a Valmozzola [15]. I partigiani del Muccini furono protagonisti dell’attacco che portò alla liberazione di Bardi. Il comandante era Flavio Bertone “Walter”. Al suo fianco era Paolino Ranieri “Andrea”, «il miglior commissario politico della zona»: così lo definì “Dario” in una relazione del 22 maggio 1944 [16]. Eppure, all’inizio, il rapporto politico di “Andrea” con “Dario” non fu facile, come raccontò “Andrea” molti anni dopo: «A Parma ero diventato commissario di battaglione, ma te tieni conto che di me, all’inizio, non si fidavano mica.

Laura Seghettini e Paolino Ranieri (Archivi della Resistenza)

E allora comandante di brigata era un dottore, il dottor Marchini, un medico bravo, però non si fidava. Allora ha cominciato a farmi delle domande, sai di politica, marxismo – ‘ste robe qui – io figurati a quell’epoca – adesso un po’ meno – ma a quell’epoca avevo ancora in mente tutto quello che avevo appreso in carcere e gli rispondo. Va beh! e allora s’è fidato. E allora son diventato un po’ un uomo di fiducia della Brigata Parma. Allora un giorno viene e mi dice: ‘Guarda, non lo dire ai partigiani perché è pericoloso, ma noi abbiam deciso di liberare tutta la valle del Ceno’» [17].

A Bardi nel dopoguerra davanti il Municipio. Fra i presenti: Giacomo Ferrari “Arta”, Ettore Cosenza “Trasibulo”, Luigi Marchini “Dario”

Per Ranieri la liberazione di Bardi era il ricordo più bello: «… quando io ho visto quei 32 tra fascisti e tedeschi venir fuori con le mani alzate e arrendersi ai partigiani, mi sembrava che la guerra fosse finita. Abbiam detto: Abbiam vinto! Abbiamo vinto la guerra! Sembrava che tutto fosse finito. Abbiam vinto! E si sono arresi ai partigiani, che erano questi 32 che occupavano questa scuola. Quando mi parlano dell’episodio più importante anche a scuola, io cito questo perché per me, aver visto quelli lì che si arrendevano, abbiam detto ‘E’ finita, abbiam vinto!’ insomma» [18]. Parole che danno il senso della felicità di quella fase.

Ai primi di luglio gli uomini del Muccini, che avevano ripreso le posizioni occupate prima del 10 giugno, al Lago Bon, furono richiamati alla Spezia dal Pci e dal Cln e rientrarono nella loro base di origine prima dei grandi rastrellamenti. Ciò non mancò in seguito di sollevare polemiche. Che la situazione fosse diventata complicata nel Bardigiano lo confermano, oltre alla relazione di “Ferrarini”, le lettere di semplici partigiani, conservate nell’archivio delle Brigate Garibaldi e nel Fondo Aldo Cucchi, che comprende tutti i documenti del Comando militare unico dell’Emilia Romagna.

Un paese della zona di Bardi incendiato dalle truppe tedesche (archivio fotografico Anpi nazionale)

Cincill, Rusky e Joan, poi ancora Silvio, infine Lampo condivisero le medesime critiche ai comandanti: per la mancata presenza nelle posizioni più avanzate, per l’incompetenza militare, per la totale mancanza di disciplina [19]. Molto sferzanti furono anche le testimonianze dell’operaio Iapo’ Bisto, del partigiano Graziello Guareschi “Bue” e della partigiana Livia. Quest’ultima “salvò” “Pablo” ma accusò tutti gli altri, a partire dal «comandante Dario, che doveva attaccare per il primo [ma] abbandonava dopo quattro moschettate lasciando tutti senza collegamento e senza nulla far sapere» [20].

In una relazione del 15 luglio 1944 firmata “Francesco”, membro della gioventù comunista, era scritto: «Militarmente l’errore capitale commesso, e non solo dalla Brigata Garibaldi (…) è stato quello di voler stabilmente occupare una zona che non era possibile, dato il carattere dell’armamento e dei distaccamenti, mantenere. (…)

Nel periodo dell’occupazione di Bardi vi è stato in tutti i responsabili troppo poca serietà. Troppi balli, troppi schiamazzi notturni. […] Riassumendo si è avuta l’impressione che i responsabili della brigata fossero più ragazzi che giocavano alla guerra, che non soldati che facessero la guerra oggi e preparassero l’avvenire d’Italia domani» [21]. Le relazioni dei dirigenti comunisti erano quasi sempre spietate nella critica, spesso – ma non sempre – anche nell’autocritica. Ha ragione Gabriele Ranzato: «Ma in ogni caso, se così era, di chi era la responsabilità di aver affidato un così arduo compito a quei ragazzi?» [22].

La partigiana Rosetta Solari e Rosetta Solari con il partigiano Salvatore Senese “Napoli” (archivio Sezione ANPI Borgotaro)

Le testimonianze dei parroci del Bardigiano non furono così spietate, ci offrono un quadro più mosso. Don Vincenzo Calda, parroco di Pessola di Varsi, scrisse che la canonica aveva ospitato la prima adunanza partigiana, con “Dario”, e raccontò una storia di ospitalità e di collaborazione, anche se i garibaldini rifiutavano la sua «assistenza spirituale» [23]. L’arciprete di Varsi don Giuseppe Rolleri usò toni più critici, ma descrisse i partigiani come «un manipolo di p5rodi e di coraggiosi» [24]. Molto più severo fu monsignor Giuseppe Squeri, parroco di Vianino, che comunque definì “Pablo” «persona molto seria» [25]. “Dario” e i suoi compagni reagirono con fermezza, in particolare sul punto dell’azione di difesa dal rastrellamento: «… abbandonai Bardi per ultimo […]. Tutta la vera brigata e cioè quelli che sono rimasti al pericolo si sentono offesi dalle voci sul loro conto e guardano con disprezzo a quelli che sono fuggiti» [26].

Ma la questione di fondo era quella posta da Francesco, e che fu più autorevolmente ripresa dal commissario politico della 12a Garibaldi Luigi Leris “Gracco”: (Le cause della) «crisi che ha colpito la brigata (…) si possono riassumere: a) nell’occupazione stabile di una vasta zona; b) nella conseguente necessità di difendere la zona stessa; c) nella impossibilità materiale di una simile difesa» [27].

Dal libro In ricordo di Luigi Marchini
“Dario” dell’Associazione politico-culturale Il Cammino Val Ceno

Il “passaggio dalla guerriglia alla guerra” fu certamente, con il senno di poi, un errore militare, che comportò tragedie. Ma la domanda se l’errore si potesse evitare è insensata, «perché – come ha notato Santo Peli – se le zone libere sono il portato dello sviluppo di una lotta armata nella guerra in corso, in qualche modo non potevi non farle» [28]. Fu una scommessa molto onerosa, che i partigiani coraggiosamente accettarono: «l’ora tanto attesa (…) è suonata», scriveva La Riscossa, organo della Federazione comunista parmense, il 28 giugno 1944 [29]. Non era possibile sottrarsi alla chiamata. Anche se non c’erano le condizioni per realizzare ciò che il Pci indicò il successivo 5 luglio: costituire unità di manovra per attaccare e non solo per difendere, creare i comandi unici, estendere i territori occupati e collegarli tra loro [30].

Partigiani in Val di Taro (Archivio fotografico Sezione Anpi Borgotaro)

I partigiani della Val Taro

In Val Taro operavano formazioni autonome, più “militari”, meno “politiche”. I combattenti erano in gran parte nativi. Il loro rapporto con i contadini fu dunque più facile, più armonioso. Anche per il ruolo di mediazione di molti parroci. Il parroco di Borgotaro, mons. Boiardi, non fu mai tenero con i partigiani: giudicò negativamente l’occupazione del paese, con considerazioni di carattere militare sostanzialmente analoghe a quelle di “Gracco” e con una continua critica all’«impazienza» e alle «ambizioni di squadre, avide di figurare meglio l’una sull’altra» [31]. Per non parlare di Bardi, «dove hanno fatto “la piccola Russia d’Italia”, un esperimento comunista» [32]. Si adoperò costantemente per tregue e accordi tra i partigiani e i tedeschi e i fascisti, ma colse il «problema morale» che scuoteva i giovani montanari, analogamente ai giovani di città:

Giuseppe Del Nevo “Dragotte”, Capitelli e Solari “Gek” (archivio Sezione ANPI Borgotaro)

«I giovani salgono sui monti. Per molti è un problema morale che si presenta davanti alla loro coscienza: e cioè, in un momento come questo, in cui è in gioco la possibilità di ridonare alla Patria la libertà, è lecito a noi giovani di restare ospiti? Il nostro dovere non è quello di contribuire, sia pure con la guerriglia, alla liberazione?» [33]. Il gruppo Molinatico, che già si era unito al gruppo Pelpi, diede vita alla I Brigata Julia, al comando di Giuseppe Del Nevo “Dragotte”.

Altri piccoli gruppi – Vampa, Poppy, Birra, Fra Diavolo – rimasero autonomi per poi unirsi, nell’agosto 1944, nella II Brigata Julia [34]. Un’altra formazione consistente attiva nella zona e nella confinante Val di Vara, nello Spezzino, era la Brigata Centocroci, nata a marzo dalla fusione delle bande dei fratelli “Beretta”, Guglielmo e Gino Cacchioli, e di Federico Salvestri “Richetto” [35]. Il comandante era Gino Cacchioli, il più giovane dei fratelli. Nei testi si fece spesso confusione, per gran parte degli anni Sessanta e Settanta. Una confusione che a volte dura tutt’ora: si scrive ancora che, in quella fase, operò la Brigata Beretta. In realtà la Brigata Beretta nacque a fine luglio 1944; prima, durante tutta la lotta per il territorio libero del Taro, esisteva la Centocroci, collegata al Cln della Spezia. Gli stessi Cacchioli favorirono nei loro scritti questa confusione, in polemica-competizione con “Richetto”, che dopo la rottura di fine luglio 1944 divenne il comandante della Centocroci.

Richetto, Benedetto e il dottor Spartaco Colombati “Barabba”(archivio Istituto spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea)

La Centocroci era una “brigata mista”, nel senso che, accanto agli autonomi e ai militari, combattevano i garibaldini, giovani inviati dal Pci spezzino. Commissario politico era il comunista Terzo Ballani “Benedetto”, prima di lui lo era stato l’antifascista Aldo Costi “lo Zio”, che fu poi vice commissario e intendente: il primo era stato condannato dal Tribunale Speciale al confino, il secondo costretto all’emigrazione in Francia e in Belgio. La Centocroci tra giugno e luglio 1944 entrò a far parte prima del Battaglione o Brigata Liguria poi della IV Brigata Garibaldi Liguria, nati per volontà del Cln e del Pci spezzini. La loro azione tesa a costituire un’unica formazione garibaldina dipendente dalla Spezia fece perno, in quei due mesi, sulla Brigata Centocroci, che garibaldina non era. I Beretta, certamente apolitici e comunque non comunisti, assecondarono il disegno. Sempre distanti dai garibaldini parmensi – sia nella fase iniziale sia quando il gruppo, diventato Brigata Beretta, si spostò definitivamente nel Parmense – i Cacchioli ebbero per alcuni mesi rapporti privilegiati con i garibaldini spezzini.

Componenti della Brigata Julia

Massimiliano Lodi, nella sua Storia della I Julia, scrive: «Il 3 luglio la I Brigata Julia e la Brigata Centocroci (che ha provvisoriamente mutato la propria denominazione in Brigata Liguria, essendo in procinto di fondersi con formazioni liguri, cosa che poi non avverrà) procedono alla nomina di una giunta comunale provvisoria per il Comune di Borgotaro» [36].

Lodi riporta di seguito il testo di un comunicato con data 3 luglio 1944, firmato dal comandante della Brigata Julia e dal comandante della Brigata Liguria. Nel libro non compaiono i loro nomi. Non abbiamo potuto rintracciare il testo originario: l’unico, tra tutti i documenti citati da Lodi nel libro, non rintracciato nell’archivio dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Parma, dove l’autore di Storia della Ia Julia attinse senza però dare indicazioni archivistiche precise, è proprio il comunicato del 3 luglio. Né il documento è stato rintracciato in altri archivi. Senza entrare più di tanto nel merito della questione, basti dire in questa sede che più documenti certificano che tra la metà di giugno e i primi di luglio esisteva la Brigata Liguria, il cui comandante era Guglielmo Cacchioli. Altro tema è se il 5 luglio sia nata o meno la IV Brigata Garibaldi Liguria, al comando del colonnello Mario Fontana “Turchi”, con Guglielmo Cacchioli vice e Antonio Cabrelli “Salvatore” commissario politico: gli stessi uomini avrebbero poi ricoperto i medesimi incarichi nelIa I Divisione Liguria, che sorgerà a fine luglio e di cui farà parte la Colonna Giustizia e Libertà [37]. In ogni caso protagonista della costituzione e della difesa della zona libera del Taro fu, insieme alla I Brigata Julia, la Brigata Centocroci, in quella fase parte organica e preponderante della Brigata Liguria [38]. Il tentativo di dar vita alla Brigata Liguria coinvolse anche il gruppo Bill (Alfredo Moglia), emanazione della banda del Monte Penna, dalla quale era originato anche il gruppo Molinatico di “Dragotte” [39]. Il gruppo Bill fu, come abbiamo accennato, tra le formazioni più attive nella battaglia per la zona libera.

Il Battaglione Picelli con “Facio” (archivio Istituto spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea)

Un altro gruppo operante nell’area era il Battaglione Picelli, dipendente dal Pci di Parma, che si muoveva tra Ponteremolese e Borgotarese. Anch’esso coinvolto nella costituzione della Brigata Liguria – con una spaccatura interna tra il comandante Dante Castellucci “Facio” e il commissario politico del Gramsci, uno dei suoi distaccamenti, Antonio Cabrelli “Salvatore” – il Picelli contribuì pure esso alla battaglia: in particolare il Gramsci, che Cabrelli stava rendendo sempre più autonomo da “Facio”. Nella nota Dislocamento e organico delle forze partigiane in provincia di Parma, del primo giugno 1944, era scritto: «Ostia di Borgotaro. Distaccamento Picelli» [40].

Il 15 luglio il Gramsci – ormai ammutinato – combattè sul Passo del Bratello. Ci furono azioni anche di altri distaccamenti del Picelli. Ma non era buono il rapporto di “Facio“ e del commissario “Musiari“ con “Beretta”, che giocava su due tavoli. Il rapporto di “Beretta” fu buono con i garibaldini spezzini, come abbiamo spiegato, ma non sempre. Con la maggioranza dei garibaldini spezzini sì, ma non con tutti.

Gino Cacchioli “Beretta”

Ranieri, quando era in difficoltà, dopo Valmozzola, incontrò “Beretta” ma poi si negò: «Presi contatto con il gruppo Beretta. È mia impressione che i dirigenti di questo gruppo sono degli schietti reazionari. Parlano molto male dei commissari politici e nella discussione, alla presenza del comandante del gruppo Beretta, mi si propose se volevo portare il mio gruppo a far parte di una cellula militare alla quale partecipavano gli altri gruppi, fra i quali il gruppo Beretta. Il compito di questa cellula, secondo loro, sarebbe quello di ordinare le azioni militari al di fuori di qualsiasi Comitato. Dissero che questa cellula fa capo al Comando Alleato. Parlarono male dei Comitati in generale e dissero che le Brigate Garibaldi non sono altro che un pugno di mosche. Io naturalmente non accettai di partecipare a quella cellula» [41].

Poi “Beretta” si avvicinò molto ai garibaldini: spezzini, non parmensi. Il Picelli non si fidava. “Musiari” lo scrisse fin da subito, dopo avere incontrato Guglielmo Cacchioli: «Il Berretta si compone di 200 uomini armati. (…) Il Berretta si è formato sei mesi fa (…) e ha chiesto più e più volte della Garibaldi (…) ma non ebbe mai risposta. Fu aiutato dai democristiani (…) Venti giorni fa avvenne il collegamento con Spezia (…). Il Berretta vuole rimanere indifferente (…) Non ne vuole sapere di dipendere dal comando centrale della Garibaldi (…) ed espresse somma sfiducia in Parma. (…) Ci sono tracce visibili di filocomunismo e di filodemocristiano» [42].

Poi “Facio” e “Musiari” discussero la proposta di entrare nella Brigata Liguria ma alla fine non la accettarono: la proposta veniva dai comunisti spezzini e da Guglielmo “Beretta”. Che, dopo la morte di “Facio” e dopo la rottura con “Richetto”, diventò vicecomandante della I Divisione Liguria. Il rapporto buono con “Beretta” lo ebbe invece Cabrelli, fin dall’inizio: ricevette qualche lancio, e aveva un obiettivo comune alla Spezia, rispetto al quale “Facio” era di disturbo. Non a caso il rapporto buono con “Beretta” lo ebbero i sostenitori di Cabrelli. Resta da dire che alcune fonti citano la partecipazione alla difesa della zona libera del Taro della banda di Franco Coni, uno dei comandanti più coraggiosi operanti nello Spezzino. Ufficiale sardo, amico dell’altro sardo Piero Borrotzu, che fu ucciso il 5 aprile 1944, Coni alla sua morte si spostò dalla Val di Vara nel Borgotarese e poi nello Zerasco, Ma a giugno lo ritroviamo «nella zona di Borgotaro, preso Streppeto e Setterone, nel corso di un attacco tedesco contro la Brigata Berretta (in realtà Centocroci, nda)» [43].

Partigiani in Val di Taro (Archivio fotografico Sezione Anpi Borgotaro)

Il problema del Comando unico e quello delle tregue

Il problema dell’assenza del comando unico pesò ovunque, in quella fase. Alla Spezia il rastrellamento del 2-3 agosto 1944 fu un “disastro” anche perché il comando unico era stato appena costituito (il che non significa che non si possano fare “disastri” anche realizzando i comandi unici…) [44].

La sconfitta in Val Ceno e in Val Taro fu dovuta non solo alla temerarietà troppo audace della conquista della zona libera ma anche all’assenza del comando unico; da questa, si può dire, la temerarietà fu aggravata. L’assenza pesò anche «nelle relazioni con i tedeschi»: «divergenze e perfino fratture emersero ancora di più in seguito ad accordi che alcune formazioni strinsero in luglio con i comandi nazisti» [45]. Protagonista degli accordi furono “Beretta” e la I Brigata Julia, contro il parere dei garibaldini ma anche di “Benedetto” e di “Richetto”, in evidente difficoltà [46].

Passo della Cappelletta, tra Varese Ligure (SP) e Albareto (PR), Monumento ai partigiani della Centocroci (foto Giorgio Pagano)

Il tema non è affatto semplice, anzi. Come salvare la popolazione dalle rappresaglie? Come garantirle la sopravvivenza alimentare? Le formazioni partigiane in questione erano particolari, vivevano in simbiosi con le loro famiglie. Gli episodi di trattative con il nemico scaturivano da queste contraddizioni oggettive – è soprattutto nella montagna che la Resistenza rivela in modo emblematico tutta la sua complessità – e si inseriscono in una situazione di debolezza nella direzione politica della resistenza valtarese. Certo è che le tregue sono utili in una strategia di sopravvivenza, non per reclutare forze al partigianato in una strategia offensiva, in cui le zone libere sono concepite come punti di attacco e come sperimentazione della democrazia. Ma questa prospettiva si era ormai allontanata. La vicenda segnò il futuro della Resistenza valtarese. Le tregue furono sostanzialmente confermate, infatti, nell’autunno e nell’inverno del 1944, anche se frequentemente interrotte innanzitutto dalle azioni della Centocroci di “Richetto” [47]. In Val Ceno le problematiche che emersero furono di segno tutto diverso. I partigiani non erano abituati a mettersi dal punto di vista del mondo contadino. Un mondo dove vigevano per lo più costumi e relazioni sociali di stampo patriarcale, dove la vita democratica era largamente ignota, dove si lottava per la sopravvivenza.

Simbolo del rapporto non facile tra contadini e partigiani “foresti” è la vicenda della morte del “Diavolo Nero” per mano di altri partigiani, il 22 aprile 1944, nel Fivizzanese, in alta Lunigiana. Lo spezzino Francesco Ferrari “Renzo”, detto “Diavolo Nero”, era il comandante di una banda di Sassalbo. Sulla sua morte non è mai stata fatta chiarezza. Forse la tesi più convincente è quella secondo cui i partigiani locali furono mossi dallo spavento per l’attivismo guerrigliero del “Diavolo Nero”, che avrebbe potuto provocare rappresaglie [48].

Che cosa fu la Resistenza nel mondo della montagna ce lo spiega anche un altro episodio, accaduto a Torpiana di Zignago, in alta Val di Vara, sede del primo gruppo azionista spezzino-genovese. La sua prima azione “offensiva” avvenne per caso, nel febbraio 1944, a opera di due giovani del luogo che attaccarono i carabinieri nell’intento di liberare altri giovani locali sospetti renitenti, arrestati mentre partecipavano a un ballo per il carnevale. I carabinieri erano stati chiamati dal parroco, contrario a comportamenti lascivi. Il primo atto del nucleo ribelle di Torpiana, su cui tanto puntò inizialmente Ferruccio Parri, nacque a causa di un ballo che aveva dato fastidio [49].

D’accordo, era meglio fare meno balli, almeno in Val Ceno, dove la questione emerse in tutte le lettere critiche. Ma la tregua con i nazisti fatta in Val Taro era giusta? È difficile dare una risposta affermativa. Perché, se non vogliamo dare un giudizio astratto fuori del tempo, dobbiamo capire che “la ragione prima della Resistenza era fare quella guerra, non salire sui monti per proteggersi e proteggere i loro abitanti” [50]. La priorità alla lotta armata emerge come risposta ineluttabile di fronte alla domanda ineluttabile: che cosa sarebbe successo all’umanità se avesse vinto Hitler?

Il colonnello Lucidi

Torniamo alla questione del comando unico in Val Taro. Il colonnello Pietro Laviani “Lucidi” fu inviato in Val Taro all’inizio di giugno dal Comando Generale del Cvl con compiti ispettivi e di direzione tecnica. Ma poi svolse una intensa attività politica. Costituì la Divisione Nuova Italia: badogliana all’origine forse, poi democristiana. Tale per le forze in campo nella Val Taro. Era la scoperta della politica da parte delle bande.

Pelosa di Varese Ligure (SP), il monumento in memoria di alcuni Caduti della battaglia dell’11 luglio 1944 (foto Giorgio Pagano)

Bisognava avere un riferimento per il mondo non garibaldino. Alla Spezia, per esempio, fu il PdA a esercitare questo ruolo. Nel parmense c’era la Dc, tanto più dopo l’arrivo in zona di Achille Pellizzari, personalità rilevante, che diede un’impronta particolare alla zona libera del Taro. “La Nuova Italia”, da lui voluto, non era un giornale partigiano, ma nemmeno un giornale di partito. La sua straordinarietà è dovuta allo spirito sociale e civile che animava Pellizzari. La scoperta della politica non significa che tutti i partigiani delle brigate fossero comunisti o democristiani o azionisti. Significa che bisogna tener conto che dopo una prima fase molto esistenziale e morale subentrò a poco a poco la nuova fase dell’unificazione e della politicizzazione. Il figlio di Pellizzari, Piero, lo spiegò nel suo libro:

«Noi della Val Taro fummo sorpresi, perché fino a quel momento c’era, tra di noi, un’intesa soltanto in parte tacita, a non discutere di politica e a non caratterizzarci. Si combatteva tutti uniti contro tedeschi e fascisti, e una qualunque caratterizzazione ci sembrava pericolosa e intempestiva. Ma avevamo torto. tant’è vero che il giorno dopo, rientrati nella nostra sede, sotto l’influenza dell’incontro con i partigiani della Val Ceno, discutemmo tra noi e poi decidemmo a maggioranza di adottare la figura del commissario politico, anche se a qualcuno dava fastidio scimmiottare l’esempio altrui. […] Caffaraccia segnava dunque un salto qualitativo delle formazioni partigiane. Ne allargavano gli orizzonti, ne nobilitavano maggiormente scopi e funzioni» [51].

Partigiani in Val di Taro (archivio Sezione ANPI Borgotaro)

L’appoggio pieno dei Pellizzari e di “Dragotte” a “Lucidi” si spiega così. “Dario” lo colse immediatamente. Già il 7 giugno 1944, dopo avere evidenziato l’aspra critica delle formazioni autonome al Cln di Parma, scrisse: «È mia opinione che a giungere a posizioni di così netto distacco e contrasto queste formazioni siano state spinte specialmente da alcuni dei costituenti i loro Comandi e cioè Giorgio Mazzadi ed anche Dragotte stesso. Un altro lato forse della loro opposizione al Comitato di liberazione è dato dalla loro non palese ma esistente paura che questo Comitato sia dominato dai comunisti. Staccatesi dunque dai Comitati di liberazione e rimaste isolate, queste formazioni per un logico bisogno di appoggio sono finite praticamente in mano ad un organismo militare di cui ci sfugge la reale natura. Parlando con i rappresentanti di questo organismo, essi affermano di essere direttamente alle dipendenze del comando interalleato di Bari e di essere stati lanciati apposta per questo nell’Italia occupata. Però da posizioni politiche è lecito pensare che siano dei veri badogliani» [52].

Su “Lucidi” ci furono resistenze e riserve non solo tra i garibaldini, ma anche tra gli autonomi. Nelle sue memorie, per esempio, don Canessa non fu certo tenero con lui [53]. Il progetto di “Lucidi” dovette fare i conti anche con il Comando del Cvl, che censurò il colonnello per aver travalicato i compiti assegnatigli e aprì un’inchiesta sul suo operato [54]. Ma “Lucidi” aveva già trovato la morte nel rastrellamento d’agosto nello Zerasco. Si era recato nella zona con Achille Pellizzari, dopo la sconfitta in Val Taro: «Pellizzari (…) prese l’iniziativa di organizzare una più stretta collaborazione con le formazioni partigiane della Liguria orientale e, attraverso l’unico varco, benché assai pericoloso, rimasto possibile verso tale zona, si portò ad Adelano e Coloretta di Zeri. Ivi stava trattando una intesa, quando venne effettuato il grande rastrellamento dell’agosto ‘44» [55]. Nei giorni dell’uccisione di “Facio” e della costituzione del Comando unico spezzino lo Zerasco fu il crocevia di molte storie.

La democrazia. Uno sguardo antiretorico utile per il futuro

In entrambe le zone libere gestire l’amministrazione civile risultò assai complicato. Già nella sua ricerca del 1967, ancora oggi un punto di riferimento essenziale per gli studi, Massimo Legnani aveva evidenziato che in Val Taro e in Val Ceno «i tentativi di subentrare alle precedenti autorità o mancano o si manifestano in forme fortemente contraddittorie»[56]. Prevalse, come abbiamo visto nel caso della nomina a Borgotaro, il ruolo dall’alto dei comandi partigiani e non delle masse organizzate nei Cln. I sindaci furono nominati con il metodo della convocazione dei capifamiglia, senza il voto delle donne. Il che rappresenta un modello di società, una forma di democrazia maschile, arcaica, prefascista. Si scelgono i notabili di paese – a volte per acclamazione, come a Bardi – e si fanno cose buone, ma nella “normalità”.

Leggiamo La nostra lotta: «Partecipazione attiva (…) un ardente soffio di vita democratica si faccia immediatamente sentire in tutta la zona. (…) Cln di villaggio (come) una emanazione delle masse in lotta, l’espressione diretta ed immediata della volontà popolare. (…) una profonda trasformazione, facendo veramente del municipio l’organizzazione della vita del popolo. (…) Bisogna perciò che nei municipi si insedi una giunta popolare municipale» [57].

Laura Seghettini e Paolino Ranieri (Archivi della Resistenza)

Il Pci è il partito che aveva le maggiori aspettative. Ma il tempo era poco, le risorse pure, i quadri adeguati mancavano, i Cln e i nuclei di partito non c’erano, la cultura contadina della montagna parmense non era quella della pianura reggiana… E i problemi erano tanti. Anche la “normalità” a volte è difficile come la “rivoluzione”: garantire l’alimentazione, la riscossione delle imposte, la giustizia. Nella delibera del 5 luglio 1944 la nuova Giunta comunale provvisoria di Borgotaro decide i prezzi e le razioni [58]: c’era forse qualcosa di più “rivoluzionario” da fare? Anche se a Bardi il sindaco Giuseppe Lumia cercò di andare oltre: lavorò a un piano di recupero di risorse economiche per finanziare progetti in favore della popolazione, attraverso un prestito da parte dei più abbienti.

Rosetta Solari al centro della foto (Archivio fotografico Sezione Anpi Borgotaro)

Certamente in tutto questo non c’è l’autogoverno delle masse, che rimane utopia. Ma c’è pur sempre una prima “presa di parola”, «un desiderio di riprendere in mano le sorti e i destini popolari» [59], là dove la democrazia non c’era mai stata. Del resto a volte anche nella banda non c’è la democrazia, vince chi sa parlare e complottare meglio, come “Salvatore” nel Picelli.

Questo sguardo antiretorico ci fa ancor più apprezzare, quando si manifesta, ogni forma di consapevolezza maggiore, di rottura di una ventennale passività popolare. Perché nella Resistenza ci sono gli operai che sono spesso “più avanti” del partito quando bisogna scioperare, perché c’è la fratellanza del Picelli degli inizi, perché c’è la scelta morale di tante donne e uomini semplici… Perché c’è Laura Seghettini che dopo l’assassinio di “Facio” è ridotta a fare la cameriera ma poi diventa vice commissaria… e in Val Taro c’è Rosetta Solari, straordinario esempio di “Resistenza al femminile“… Perché in altre zone libere non mancarono esperienze di autoorganizzazione, e anche di partecipazione delle donne, sia pure come capifamiglia. Fino alla “repubblica” dell’Ossola che, «pur con i suoi inevitabili limiti di rappresentatività […] era stata la migliore anticipazione allora possibile di quello che sarebbe stato il sistema liberaldemocratico dell’Italia del dopoguerra». [60]

Lo storico studia avendo in testa anche le domande del tempo presente. In tempi di grande difficoltà dell’antifascismo, di scricchioli dell’ordinamento costituzionale postbellico e di scivolamento verso forme di “autoritarismo democratico”, non dobbiamo reagire con una “monumentalizzazione” della Resistenza, ma vedendone tutta la complessità, difficoltà comprese. Anche per comprendere gli «esiti problematici» [61] della sua storia. Per sperare in altri esiti la Resistenza va amata tutta per come è stata, perché ci stimoli al nuovo antifascismo e alla nuova lotta democratica che dobbiamo pensare e praticare per il futuro.

Giorgio Pagano, storico, copresidente del Comitato Unitario della Resistenza della Spezia in rappresentanza dell’Anpi, sindaco della città di La Spezia dal 1997 al 2007, ultimo suo libro
“Tra utopia e realismo. Appunti sul Sessantotto”, Edizioni ETS, 2024

NOTE

[1] Nella bufera della Resistenza. Testimonianze del clero piacentino durante la guerra partigiana, a cura di A. Porro, Tipografia Columba, Bobbio (PC) 1985, p.484.
[2] L’ispettore generale Paolo a Cari compagni, 15 giugno 1944, in Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, vol. II, a cura di G. Nisticò, Feltrinelli, Milano 1979, p. 34.
[3] Relazione dell’ispettore Dario sulla situazione nelle Marche, nella Toscana e nell’Emilia, giugno 1944, in Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, vol. II, cit., pp. 59-60.
[4] Primo messaggio del generale H. Alexander ai patrioti dell’Italia occupata, in P. Secchia e A. Frassati, La Resistenza e gli Alleati, Feltrinelli, Milano 1962, p. 112.
[5] Appello del Partito comunista italiano, «La Nostra Lotta», giugno 1944, n. 10, in L. Longo, Sulla via dell’insurrezione nazionale, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 193.
[6] Le zone liberate, «La Nostra Lotta», agosto 1944, n. 10, in L. Longo, Sulla via dell’insurrezione nazionale, cit., pp. 193-194.
[7] M. Minardi, «Terranostra». I territori liberi delle alte valli del Taro e del Ceno. Estate 1944, in «Il paradosso dello Stato nello Stato». Realtà e rappresentazione delle zone libere partigiane in Emilia Romagna, «E-Review Dossier 3-2015», a cura di R. Mira e T. Rovatti, p. 101.[8] C. Del Maestro, Diario poetico del partigiano Jàfet 1944-45, Associazione Ricerche Valtaresi “A. Emmanueli”, Borgotaro (PR) 1979, p. 32.
[9] Fornovo Taro nel movimento partigiano, a cura di Mario (L. Sbodio), Step, Parma 1964 [I ed. 1947], pp. 60-61.
[10] G. Vietti, L’alta Val Taro nella Resistenza, Anpi, Parma 1980, p. 203.
[11] L. Canessa, La strada era tortuosa, A.V.A, Genova 1946, p. 54.
[12] Si veda C. Gentile, Truppe tedesche e repressione antipartigiana nell’Emilia Occidentale, «Storia e documenti», 2001, n. 6.
[13] Su Giacomo di Crollalanza si veda G. Pagano, Ottobre 1944. L’eccidio di Bosco di Corniglio e quella resistenza eroica dei partigiani del Comando Unico parmense, «Patria Indipendente», 25 ottobre 2024.
[14] Relazione dell’ispettore Ferrarini “sulla situazione delle forze operanti (garibaldine) nell’Appennino parmense”, … luglio 1944, in Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, vol. II, cit., p. 121. La relazione è in AISRPR, OC D2 e in Fondo Aldo Cucchi, REG. 16, IRSIFAR.
[15] Sul gruppo spezzino di Valmozzola si veda G. Pagano, L’assalto al treno in Valmozzola, pietra miliare della Resistenza, «Patria Indipendente», 14 marzo 2024. Sulle vicende successive del gruppo si veda G. Ricci, Storia della brigata garibaldina “Ugo Muccini”, Istituto Storico della Resistenza, La Spezia 1978, pp. 125-150. Chi scrive sta lavorando a una ricerca, di prossima pubblicazione, che si soffermerà, sulla base di documenti inediti, anche sull’azione di Valmozzola e sulle vicende successive dei diversi gruppi che vi parteciparono.
[16] Dario a Cari compagni, in Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, vol. I, a cura di G. Carocci e G. Grassi, Feltrinelli, Milano 1979, p. 427.
[17] Intervista a Paolino Ranieri, 16 dicembre 2006, «Voci della memoria», ASSP.
[18] Ivi.
[19] Le lettere sono in Fondazione Gramsci, Brigate Garibaldi Emilia Romagna, Parma e Piacenza: miscellanea, 29 maggio-9 settembre 1944. Quelle di Silvio e di Lampo sono anche in Fondo Aldo Cucchi, REG. 16, IRSIFAR.
[20] Livia da Parma, 18 luglio 1944, in Fondo Aldo Cucchi, REG. 16, IRSIFAR. Anche le lettere di Iapo’ Bisto e di Guareschi sono nel Fondo Cucchi.
[21] Relazione di Francesco,… luglio 1944, in Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, vol. II, cit., p. 165 e p. 167. La relazione è anche in Fondo Aldo Cucchi, REG. 16, IRSIFAR. Francesco era «un impiegato, membro della gioventù comunista, da un mese nelle formazioni», come risulta da un documento del 14 luglio, inviato al Comitato di liberazione nazionale di Parma, anch’esso critico verso il comando della 12a Garibaldi, conservato in Fondazione Gramsci, Brigate Garibaldi Emilia Romagna, Parma e Piacenza: miscellanea, 29 maggio-9 settembre 1944.
[22] G. Ranzato, Eroi pericolosi, Laterza, Bari-Roma 2024, p. 178.
[23] Nella bufera della Resistenza. Testimonianze del clero piacentino durante la guerra partigiana, cit., p. 416.
[24] Ivi, p. 420.
[25] Ivi, p. 430.
[26] Il comandante della 12a brigata, Dario, alla Delegazione per il Nord Emilia del CUMER sul “rastrellamento subito dalla brigata d’assalto Garibaldi Parma”, 5 agosto 1944, in Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, vol. II, cit., pp. 208-213. Si veda anche Relazione di Franchi al Comando Delegazione brigate d’assalto Garibaldi Nord Emilia, 5 agosto 1944, in Fondo Aldo Cucchi, REG. 16, IRSIFAR
[27] Il commissario politico della 12a brigata, Gracco, “al delegato ispettore delle brigate Garibaldi Nord Emilia”, 2 agosto 1944, in Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, vol. II, cit., p. 187.[28] Un crocevia di problemi, videointervista di R. Mira e T. Rovatti a S. Peli, in «Il paradosso dello Stato nello Stato». Realtà e rappresentazione delle zone libere partigiane in Emilia Romagna, cit.
[29] La Riscossa, 28 giugno 1944, in Fondo Aldo Cucchi, REG. 28, IRSIFAR.
[30] Direttive per lo sviluppo della lotta insurrezionale, 5 luglio 1944, in Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, vol. II, cit., pp. 93-97. Con ogni probabilità l’autore è la Direzione del Pci per l’Italia occupata; i destinatari sono i Triumvirati insurrezionali. Secondo il Pci un’unica zona occupata avrebbe potuto essere «quella compresa tra Genova, Spezia, Parma e Piacenza» (ivi, p. 95).
[31] Nella bufera della Resistenza. Testimonianze del clero piacentino durante la guerra partigiana, cit., p. 509.
[32] Ivi, p. 484.
[33] Ivi, p. 483.
[34] Non mancarono, sia nella I che nella II Brigata Julia, i partigiani provenienti dallo Spezzino: numerosi vezzanesi, per esempio, entrarono a far parte del gruppo Tarolli, al comando di Alberto Zanrè, confluito nella I Julia (si veda A. Valle, Una storia nostra. Enrico Bucchioni e i partigiani di Vezzano, Edizioni Giacchè, la Spezia 1994, pp. 27-28), mentre Luigi Fiori “Fra Diavolo”, sarzanese, fu comandante di distaccamento nella II Brigata Julia.
[35] Secondo Salvestri la fusione avvenne la sera del 4 marzo 1944 all’Albergo Alpino: comandante Gino Cacchioli, fratello di Guglielmo, vice comandante Salvestri (C. Del Maestro, Centocroci per la Resistenza, Associazione Partigiani «Centocroci», Varese Ligure (SP) 1982, p. 45; Del Maestro fa sua questa versione a p. 119). La data del 4 marzo è anche in L. Canessa, La strada era tortuosa, cit., p. 20 e in G. Vietti, L’alta Val Taro nella Resistenza, cit., p. 140. Secondo Gino Cacchioli la Centocroci nacque nell’aprile 1944 (C. Del Maestro, Centocroci per la Resistenza, cit., p. 20). Nel Compendio storico della Brigata Beretta è scritto: «Il 27 aprile la Banda Beretta assume la denominazione di Gruppo Cento Croci» (Compendio storico dell’attività della Divisione Cisa Brigate Beretta dalla costituzione alla smobilitazione, in AILSREC, AM IV 26 39 e in AISRPR, Lotta di Liberazione, b. DI fasc. CI). Giulivo Ricci cita la riunione del 4 marzo ma poi scrive che «tra l’aprile e il maggio 1944 […] le varie “bande” […] si erano riconosciute come Gruppo “Cento Croci”» (La Brigata Garibaldina Cento Croci Storia e testimonianze, a cura di G. Ricci, V. Antoni e dei protagonisti, Edizioni Giacché, La Spezia 1997, p. 55 e p. 60).
[36] M. Lodi, Obiettivo libertà, Alpi, Parma 1985, p. 47.
[37] L’accennata ricerca di chi scrive si soffermerà – sulla base di documenti inediti – sull’insieme di queste vicende, la cui ricostruzione è essenziale per la piena comprensione del contesto in cui fu ucciso, da partigiani garibaldini, il comandante del Battaglione Picelli Dante Castellucci “Facio”.
[38] Si veda ad esempio quanto contenuto in questo rapporto per i dirigenti garibaldini liguri: [Nella provincia della Spezia] vi è una “Banda” discretamente organizzata (la Banda Berretta), bene armata ed equipaggiata, che da tempo chiedeva contatto con noi. Il Comandante è disposto ad accettare un Commissario politico comunista e ad unire le sue forze in azioni concomitanti, coordinate con le nostre. La Banda, non omogenea, si dedica anche al saccheggio quando mancano mezzi di sussistenza, in essa vi sono elementi di ogni tendenza politica, vi sono anche dei compagni e dei simpatizzanti. Si è stabilito stretto contatto col Comandante, in Brevi note. Situazione generale delle brigate garibaldine, 30 giugno 1944, in Fondazione Gramsci, Brigate Garibaldi Liguria, Miscellanea 30 maggio 1944-30 giugno 1944.
[39] Si veda Raggruppamento Distaccamenti Monte Penna, Cronistoria dell’attività del 31 maggio 1944, in Fondazione Gramsci, Brigate Garibaldi Emilia Romagna, Parma e Piacenza: miscellanea, 29 maggio-9 settembre 1944. Il rapporto è firmato dai comandanti Golico, Messina e Bill e dal commissario politico Franci. Sulla storia della banda del Monte Penna si veda C. Squeri, Quelli del Penna, Istituto storico della Resistenza di Parma, Parma 1975.
[40] Dislocamento e organico delle forze partigiane in provincia di Parma, in Fondazione Gramsci, Brigate Garibaldi Emilia Romagna, Parma e Piacenza: miscellanea, 29 maggio-9 settembre 1944. Nella nota, firmata dal comandante di zona Prospero, “Facio” è il comandante, “Salvatore” il commissario politico. In realtà Enrico Gatti “Musiari” o ”El Gato” era stato nominato commissario politico del Picelli il 24 maggio 1944.
[41] Informazioni, 30 maggio 1944, in Fondazione Gramsci, Brigate Garibaldi Liguria, Miscellanea 30 maggio 1944-30 giugno 1944. Il rapporto è firmato Andrea.
[42] Testo senza titolo e senza data firmato Musiari, in Fondazione Gramsci, Brigate Garibaldi Emilia Romagna, Parma e Piacenza: miscellanea, 14 marzo-22 maggio 1944.
[43] A. Celle, Franco Coni. Operazioni dell’aprile-maggio 1944, AISRSP, Misc. V. 1. 37. Il testo di Celle si riferisce anche alle operazioni del giugno-luglio 1944. Don Canessa ricorda il ruolo di Coni nella battaglia di Pelosa del 15 luglio 1944 (La strada era tortuosa, cit., p. 65).
[44] Sul rastrellamento del 3-4 agosto 1944 nello Spezzino rimando a questo mio intervento: La brigata garibaldina Ugo Muccini Racconto sui partigiani e le partigiane della Val di Magra – Santo Stefano Magra, Biennale sulla Resistenza – 21 ottobre 2022
[45] Una stagione di fuoco. Fascismo guerra Resistenza nel Parmense, a cura del Centro Studi Movimenti, Fedelo’s, Parma 2015, p. 181.
[46] Chi scrive si soffermerà su questa vicenda in una prossima pubblicazione, dedicata alla figura di Aldo Costi “lo Zio“ e alla Brigata Centocroci.
[47] Si veda, per le fonti tedesche, C. Gentile, I crimini di guerra tedesca in Italia 1943-1945, Einaudi, Torino 2022 [I ed. 2015], pp. 177-178. Per le fonti partigiane si vedano C. Del Maestro, Centocroci per la Resistenza, cit., pp. 125-128 e p. 137, e lo scambio di lettere tra l’ispettore della Delegazione Nord Emilia Bertini e il comandante della I Brigata Julia “Dragotte” del 19 e del 25 dicembre 1944, in AISRPR, BR 1 J b, riportati in M. Lodi, Obiettivo libertà, cit., pp. 73-75. Per le fonti fasciste si vedano i Notiziari della Gnr del periodo. Circa “Richetto”, vale quel che scrisse Vietti: «è contrario ad ogni prospettiva di tregua col nemico e per tutto l’autunno de ‘44 sarà protagonista delle più belle battaglie della resistenza valtarese» ( L’alta Val Taro nella Resistenza, cit., p. 238).
[48] Si vedano R. Battaglia, Un uomo, un partigiano, Il Mulino, Bologna 2004, p. 123, e G. Contini, Toscana 1944, in La politica del massacro, a cura di G. Fulvetti e F. Pelini, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2006, pp. 330-331.
[49] M. Fiorillo, Uomini alla macchia. Partigiani, sbandati, renitenti, banditi e popolazione nella Lunigiana Storica, tesi di dottorato, Università di Pisa, a. a. 2005, vol. I, pp. 130-131.
[50] G. Ranzato, Eroi pericolosi, cit., p. 126.
[51] P. Pellizzari, Storia della più piccola capitale del mondo, Compiano arte storia, Parma 1978, pp. 38-40.
[52] Dario “al compagno federale ed al compagno commissario politico di brigata”, 7 giugno 1944, in Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, vol. II, cit., p. 21. Giorgio Mazzadi, democristiano bedoniese, fu commissario politico del gruppo Molinatico e della I Julia, sempre accanto a “Dragotte”. Si vedano C. Squeri, Quelli del Penna, cit., e, per le critiche dei garibaldini a Mazzadi: Relazione del commissario politico, Annibale, sul distaccamento Penna, 29 aprile 1944, in Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, vol. I, cit., pp. 368-371; Raggruppamento Distaccamenti Monte Penna, Cronistoria dell’attività del 31 maggio 1944, cit.
[53] L. Canessa, La strada era tortuosa, cit., p. 66.
[54] Clnai, Cvl, Comando Gen. per l’Italia occupata ai Comandi regionali sul caso Lucidi, 16 agosto 1944, in AISRPR, OC D2.
[55] F. Franchini, Achille Pellizzari, AISRSP, Misc. B. 1. 7
[56] M. Legnani, Politica e amministrazione nelle repubbliche partigiane, INSMLI, Milano 1967, p. 14.
[57] Le zone liberate, «La Nostra Lotta», agosto 1944, n. 10, in L. Longo, Sulla via dell’insurrezione nazionale, cit., pp. 213-215.
[58] Delibera del 5 luglio 1944, Archivio del Comune di Borgotaro.
[59] C. Smuraglia, Dalle repubbliche alla Repubblica, in Semi di Costituzione. La bella storia delle repubbliche partigiane, Patria Indipendente, n. speciale 2014.
[60] G. Ranzato, Eroi pericolosi, cit., p. 244.
[61] S. Peli, La necessità, il caso, l’utopia, BFS Edizioni, Pisa 2022, p. 30.