Provenendo da Sulmona, la patria di Ovidio (“Sulmo mihi patria est”), del quale proprio quest’anno ricorre il bimillenario della morte, percorrendo tornanti molto addomesticati nella loro impervia percorribilità da un’opera di rifacimento abbastanza recente, si arriva al Piano delle Cinque Miglia. Il paesaggio è ben diverso da quello che il passeggero si è lasciato alle spalle: dal dominio quasi incontrastato di rocce e alberi si passa a un altopiano lussureggiante di splendente grano e appezzamenti di terreno coltivati. Si tratta di quei miracoli che la natura propone quando si impegna fino in fondo a essere se stessa. Questo altopiano è noto – credo ovunque in Italia ma anche fuori dal nostro Paese – in quanto vi si trovano, a poca distanza l’uno dall’altro, tre importanti centri turistici, invernali ma anche estivi, dell’Abruzzo e dell’Appennino centrale: Roccaraso, Rivisondoli, Pescocostanzo. Gente nelle strade, via vai continuo, grande traffico. Ma il passeggero, anzi, i due passeggeri che entrano in Roccaraso non sono alla ricerca di un “ubi consistam” dove riposare le membra stanche del viaggio; non chiedono informazioni su alberghi o ristoranti; chiedono, invece, dove si trovi Pietransieri. Ricevuta una risposta, tornano in macchina e si dirigono verso la piccola frazione di Roccaraso che prende, appunto, il nome di Pietransieri. Di nuovo il paesaggio lascia spazio alle sue rudezze rocciose ma lascia anche intendere la nuova pianura che si stende verso Sud, verso Napoli che sembra quasi intuirsi al di là dei monti.
Si arriva a destinazione: poche case, poca gente nelle strade, diventa quasi difficile chiedere un’informazione. Finalmente i passeggeri trovano il modo di avvicinare un anziano signore intento in un’attività che, in queste zone di grande freddo e grande neve, si esplica proprio in agosto: la raccolta della legna per il fuoco invernale. Chiedono dove è ubicato il posto da loro cercato. L’anziano signore, con aria quasi compiaciuta dal fatto di poter fornire proprio quell’informazione, indica loro la strada e aggiunge: «Lì furono trucidati!». Un sacrario dove sono raccolte le spoglie di 128 fra uomini, donne e bambini trucidati dai nazisti: il massacro dei Limmari di Pietransieri, 21 novembre 1943.
Quest’anno ricorre il 50° anniversario (15 luglio 1967) del conferimento della Medaglia d’Oro al Valor Militare a Pietransieri da parte dell’allora Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.
Questo crimine perpetrato dalle truppe naziste in ritirata, però, non ha mai avuto il giusto spazio nella memoria del biennio 1943-45. Sotto certi aspetti, ha seguito la sorte delle Quattro giornate di Napoli, spesso messe nel dimenticatoio senza ricordare che la città partenopea fu la prima, fra le grandi città europee, a insorgere contro i tedeschi e a cacciarli ancor prima dell’arrivo delle truppe angloamericane. E, ancora sotto certi aspetti, il massacro di Pietransieri può essere collegato alla Liberazione di Napoli; infatti i tedeschi in ritirata si attestarono sulla linea Gustav che attraversava proprio il territorio del piccolo comune abruzzese davanti al quale si stendeva la “terra di nessuno”. Lì arrivano, il 17 ottobre 1943, i genieri tedeschi per iniziare i lavori di fortificazione della zona. Iniziano i rastrellamenti dei civili da impiegare nei lavori mentre, il 7 novembre, viene intimato lo sgombero del paese. Si tratta di andare verso Sulmona; alcuni abitanti obbediscono e molti troveranno la morte per assideramento o sfinimento durante il viaggio; altri, quasi duecento, si rifugiano in località Limmari, nella terra di nessuno, davanti alle linee difensive germaniche. I tedeschi sembra non si oppongano a tale decisione e nel frattempo distruggono il villaggio compresa chiesa e cimitero, bruciando viva nella sua casa una donna settantenne impossibilitata a muoversi.
Intanto continuano le razzie delle persone idonee al lavoro ma, non trovandone a sufficienza, i tedeschi cominciano a sfogare la loro rabbia sulla popolazione civile: il 15 novembre viene uccisa, senza alcun motivo, una donna nella sua casa. Il giorno seguente un reparto d’assalto rastrella 6 uomini che vengono trovati uccisi a colpi d’arma da fuoco. Il 17 novembre una settantenne e un ottantenne accorso in suo aiuto vengono uccisi dai soldati. Il 18 novembre viene uccisa una giovane donna e il giorno dopo un uomo di settant’anni, il figlio e una ragazza che era con loro. Lo stesso giorno un gruppo di paracadutisti aveva fatto nuovamente irruzione in paese devastando tutto quello che ancora era rimasto in piedi e uccidendo alcuni uomini i cui corpi furono rinvenuti nelle vicinanze.
Nell’ultima domenica di Avvento i protestanti tedeschi commemorano i defunti: per loro è la domenica dei morti e nel 1943 cadeva il 21 novembre. Quella domenica un gruppo di paracadutisti penetra in Limmari distruggendo ogni cosa e uccidendo gran parte degli abitanti; i sopravvissuti vengono riuniti nei pressi di una quercia, intorno a loro viene raccolto dell’esplosivo che viene fatto brillare. Chi non muore viene finito sul posto. Sopravvive una bambina di sette anni, Virginia Macerelli, che si nasconde sotto le gonne della madre e viene rinvenuta dalla nonna, Laura Calabrese, sfuggita al massacro.
Il capitano inglese Stayer, incaricato di indagare sul massacro, raccolse le testimonianze delle due donne il 3 novembre del 1947. Laura Calabrese: «Verso le 9,00 del 21 novembre 1943 un gruppo di 5 tedeschi arrivò al casolare e ci ordinarono di raccoglierci insieme nel cortile della trebbiatura. Immediatamente dopo 4 tedeschi aprirono il fuoco su di noi con i fucili automatici mentre il quinto metteva una mina sotto i cadaveri e la faceva esplodere facendoli saltare in aria. Riuscii a scappare gettandomi in un canale, proprio prima che esplodesse la mina. Io e la mia nipotina di sette anni siamo i soli superstiti di questo massacro. Dichiaro con assoluta certezza che i 5 tedeschi che compirono il massacro vivevano nelle case di Pietransieri e che in precedenza li avevo visti in parecchie occasioni. In quest’eccidio hanno trovato la morte mia figlia, 6 nipoti e altri 7 parenti, per lo più donne e bambini». Virginia Macerelli: «Una mattina i tedeschi vennero alla fattoria e ci fecero raggruppare; oltre a me c’era mia madre, 4 fratelli e mia sorella. I tedeschi cominciarono subito a sparare e io mi nascosi sotto la gonna di mia madre. Sentii tantissime grida, io rimasi ferita al braccio sinistro e ad ambedue le gambe. Mia nonna mi venne a prendere il giorno dopo, io ero ancora sotto le gonne di mia madre, che era morta. Oltre a mia madre i tedeschi uccisero i miei 4 fratelli e mia sorella di 16 anni».
Terribile è la testimonianza resa da Italino Oddis, all’epoca guardia municipale, che descrive nel modo seguente il rinvenimento dei corpi della moglie e dei due figli: «… riconobbi mia moglie e mio figlio Evaldo rimasto in ginocchio e con gli occhi aperti e lo sguardo in su. Gli presi la testa tra le mani, pareva volesse dirmi qualcosa ma una pallottola gli aveva forato la tempia; l’abbracciai, lo baciai e ribaciai e lo stesi poco lontano (…), poi presi mia moglie e la misi accanto a lui. L’altro mio piccolo bambino, Orlando, era sotto la madre in una pozza di sangue; presi anche lui e lo stesi vicino alla madre e al fratello».
Nella zona, come attestato dai documenti dello stesso esercito tedesco, non c’era attività partigiana, almeno in quel periodo. È vero che il 13 novembre furono rinvenuti i cadaveri di due soldati tedeschi, ma furono ritenuti vittime degli Alleati. D’altronde, fra il rinvenimento dei due cadaveri e il massacro era passato troppo tempo e i tedeschi, invece, erano sempre molto immediati nelle rappresaglie. Inoltre, solitamente, rendevano pubbliche le loro azioni per dar maggior valore di monito. Si aggiunga che, dalla testimonianza di Laura Calabrese, risulta che i massacratori erano soldati di Pietransieri: è noto che le rappresaglie, in linea di massima, erano affidate dai tedeschi a truppe non di stanza nei luoghi degli eccidi. Quindi, quale il movente? Ne resta uno solo che, nella sua disarmante e inumana insensatezza, suscita quesiti tremendi circa la natura umana applicata alla guerra e al terrore usato nei confronti dei civili: la popolazione di Pietransieri non aveva obbedito ai proclami con cui i tedeschi chiedevano lo sfollamento verso Sulmona e si era andata a sistemare nella terra di nessuno fungendo da intralcio alle operazioni belliche dell’esercito germanico. Non ci fu da parte nazista nessun tentativo di dissuadere i pietransieresi dal recarsi verso la terra di nessuno (anzi, per molti versi, furono proprio i tedeschi a indurre la popolazione a spostarsi lì dove non avrebbe dovuto essere); da ciò il massacro che, oltre tutto, nella sua dinamica e nella sua realizzazione, entrava in rotta di collisione con le stesse leggi di guerra tedesche in quanto non c’era stata attività partigiana.
Ha scritto Roberto Battaglia: «È (…) l’Abruzzo a pagare il prezzo della sua precoce resistenza e della prossimità della linea del fronte con un ingente e tuttora pressoché ignorato contributo di sacrifici e di sangue. Il 21 novembre 1943 nel villaggio di Pietransieri – che aveva tardato ad eseguire l’ordine di evacuazione impartito dalle autorità germaniche – irrompono le truppe tedesche e fanno strage di 130 civili, in gran parte donne e bambini (così efferato e anche inesplicabile il massacro, che nasce una candida leggenda popolare, secondo la quale, il generale tedesco che ordinò la strage sarebbe tornato nell’immediato dopoguerra sul posto, in veste di ignoto pellegrino, per invocare perdono dall’unica superstite, tale Virginia Macerelli)» [1].
Nel modo seguente il senatore a vita Paolo Emilio Taviani si esprimeva sul massacro nella Prefazione al volume di Paolo Paoletti a esso dedicato: «L’indagine accurata (…) ha accertato che la causa dell’orribile mattanza non fu una rappresaglia, bensì l’intenzione di liberare la “fascia di sicurezza” dalla presenza di estranei, potenziali collaboratori del nemico. (…) Anche per il codice militare di guerra tedesco e per il diritto internazionale (…) la strage di Pietransieri è un crimine di guerra. Il capitano Georg Schulze, supposto mandante della strage, è uno dei tanti criminali di guerra morti nel proprio letto» [2].
Nell’agosto 2016 l’Anpi di Pescara ha lanciato un grido di allarme intorno allo stato di abbandono in cui versano i luoghi del massacro. Resta il fatto che i due passeggeri che si sono recati sul posto hanno avuto qualche difficoltà a trovare lo stesso sacrario perché la segnaletica è assolutamente insufficiente. Nei loro occhi rimane, però, bene impressa l’immagine del volto dell’anziano che ha fornito l’indicazione sull’ubicazione del luogo: il suo sguardo diceva il dolore ma non la rassegnazione all’abbandono e alla dimenticanza; il suo sguardo diceva il sollievo per la rinascita di una memoria che non può e non deve essere cancellata; il suo sguardo era un invito per quante e quanti volessero recarsi lì dove la montagna degrada verso il fiume Sangro e dove la storia parla ancora la lingua della violenza ma anche, e soprattutto, quella di una rinnovata e sempre più necessaria resistenza.
Lelio La Porta, docente nei licei, membro della International Gramsci Society, collaboratore di Critica marxista, saggista
[1] R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1964, p. 145.
[2] P. Paoletti, L’eccidio dei Limmari di Pietransieri (Roccaraso): un’operazione di terrorismo. Analisi comparata delle fonti scritte italiane e straniere, Comune di Roccaraso, 1996; nel presente articolo si cita dalla stampa anastatica del 2003, p. 7.
Pubblicato venerdì 8 Settembre 2017
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