Povertà e rabbia spinsero circa 9 milioni di italiani ad attraversare l’oceano tra il 1876 e il 1920. Emigravano e affrontavano l’incognita di un viaggio lungo e straziante per cercare migliori condizioni di vita. Ebbe inizio la Speranza, il grande sogno di una terra lontana, dipinta come una sorta di paradiso terrestre: l’America. Si dirigevano principalmente verso Stati Uniti, Argentina e Brasile. Per molti contadini e artigiani, l’emigrazione fu l’ultima possibilità per sconfiggere la fame e non morire di stenti. Lo storico e politico italiano Gaetano Salvemini a pagina 508 dei suoi Scritti sulla questione meridionale: 1896-1955 dichiarava: “Nel Sud sui prodotti della terra i contadini guadagnano appena il sufficiente per mangiare e pagare le tasse. Alle prime difficoltà muoiono”. Dopo l’unificazione italiana, l’esodo non veniva ostacolato dalla classe dirigente che, al contrario, veniva visto con sollievo. La libertà di emigrare fu riconosciuta dalla classe dirigente italiana con la legge del 1888 che costituì l’anno del primo intervento ufficiale. Perciò nel 1892 in Italia c’erano ben 30 agenzie di emigrazione e 5.172 subagenti che si aggiravano convincendo la povera gente a partire. Per il ministro Sidney Sonnino, economista liberale e uno dei principali promotori della libertà di emigrazione (alle Finanze e al Tesoro dal 1893 al 1896), l’esodo costituiva una “valvola di sicurezza per la pace sociale”. Nel 1895 le filiali divennero 33 e gli agenti 7.169. Gli agenti erano assunti dalle società di emigrazione e molti di loro erano noti per la mancanza di onestà. Passavano nei villaggi durante le fiere parlando dell’America come fosse una terra mitica. La compagnia di emigrazione “La Veloce” pagava tra 5 e 25 dollari a un agente che riusciva a convincere una famiglia ad emigrare. Non possiamo dimenticare che la stampa dell’epoca paragonava gli agenti ai commercianti di schiavi. I villaggi erano inondati da opuscoli e lettere contraffatte di emigranti che erano già partiti.
Nel 1901 fu emanata un’altra legge per mettere ordine alla questione degli agenti di emigrazione. Venne creato il Commissariato dell’Emigrazione e un fondo con le tasse sulle tariffe delle compagnie di navigazione. La costruzione e la crescita economica portò al decollo industriale durante il secondo e il terzo governo di Giovanni Giolitti (novembre 1903-marzo 1905 e maggio 1096-dicembre 1909), ma, d’altro canto, diede luogo ad una crescita dell’opposizione sociale e anarchica.
Quando il conflitto politico e sociale in Italia divenne più violento, con persecuzioni, azioni penali, anni di esilio e arresto, alcuni furono costretti a lasciare il Paese come esiliati politici. “Nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà”, cantavano gli anarchici. E si imbarcavano per andare oltre l’oceano, incluso il Brasile, con i loro sogni e le loro utopie. Questo era stato già il caso del toscano Giovanni Rossi, creatore della Colonia Cecilia, una colonia sperimentale socialista-anarchica (1890-1895).
Gli emigranti affrontavano incredibili difficoltà e sacrifici per imbarcarsi e raggiungere la “terra promessa”. Quasi sempre, dopo essere stati persuasi da agenti e subagenti dell’immigrazione, la prima sfida era arrivare al porto di imbarco. Vendevano i pochi averi per pagare i reclutatori avidi, che a volte sparivano con i soldi, e iniziavano il viaggio. Il cammino per raggiungere il porto di Genova o Napoli, ove si sarebbero imbarcati, coinvolgeva interi poveri villaggi che camminavano, a volte, come in processione, al suono delle campane che, non di rado, portavano con sé sulle navi, come accadde in un villaggio vicino a Treviso. Spesso arrivavano diversi giorni prima dell’imbarco. Si imbarcavano taglialegna, operai edili, minatori, infermieri, ma anche professionisti come maestri muratori di Carrara o di Pistoia, che si occupavano delle famose sculture e marmi; proprietari di librerie e panificatori di Lucca, imprenditori.
Leggendo le testimonianze, le lettere, le parole delle canzoni dell’epoca, si comprende quanta rabbia, amarezza essi avessero, e, allo stesso tempo, forza e speranza: “Anderemo in Merica/[…]/ E qua i nostri siori/Lavorerà la terra col badil. (Andremo in America/e qui i nostri padroni lavoreranno la terra con il badile)”. Nel suo libro di memorie Città di Roma, la memorialista italo-brasiliana Zélia Gattai ricorda le storie che ascoltava da bambina sulla traversata dei nonni, zii e genitori nel 1890: “La traversata da Genova al porto di Santos è stata lunga e dolorosa. Non posso dimenticare, diceva zio Guerrando” (Gattai, 2000, p.13).
I porti di Genova, Livorno e Napoli hanno svolto un ruolo molto importante per le partenze. La traversata dell’Atlantico sulle navi a vapore durava da 21 a 30 giorni, a seconda della destinazione. A volte le condizioni organizzative e igieniche erano terribili. Gli emigranti italiani viaggiavano su navi sovraffollate, autorizzate a trasportare un numero di persone tre volte inferiore di quello che trasportava. Molte volte si trattava di navi per il trasporto di carbone. I viaggiatori venivano nutriti quasi sempre con cibo avariato, la maggior parte di essi dormiva direttamente sul pavimento, erano soggetti a epidemie (principalmente il vaiolo), e c’era un’alta mortalità infantile. Guardando le onde del mare che non finivano più, nasceva una profonda nostalgia della terra natia. I versi della vecchia canzone popolare napoletana Santa Lucia lontana ricordano la tristezza nel vedere le luci della città amata allontanarsi sempre di più: “Partono ‘e bastimente/pe’ terre assai luntane/cántano a buordo:/so’ napulitane!/cantano pe’ tramente/‘o golfo già scumpare,/e ‘a luna, ‘a miezz’o mare,/nu poco ‘e Napule/lle fa vede”.
Dietro all’emigrazione si nascondevano gli interessi degli armatori e delle compagnie italiane di navigazione responsabili delle tante morti che accadevano durante la traversata. Tra i tanti casi, possiamo citare i 52 morti per fame a bordo delle navi “Matteo Bruzzo” e “Carlo Raggio”, che partirono da Genova nel 1888 per il Brasile, i 24 morti per asfissia che si erano imbarcati sulla nave “Frisca”. Si ricordano poi coloro che, nel 1889, dopo essersi imbarcati sulla nave “Remo” capirono che il proprietario aveva venduto il doppio dei biglietti rispetto ai posti disponibili, tanto che a bordo esplose il colera. I morti furono buttati in mare. Il numero dei passeggeri scendeva di 4 o 5 al giorno. E alla fine la nave non fu neppure accettata nei porti brasiliani. O ancora la tragedia della nave “Sirio” durante la quale morirono ben 500 emigranti.
Nel 1895, su 660mila abitanti di Buenos Aires, 225mila erano italiani. In provincia di Cordoba nel 1869 c’erano 4.600 italiani. Nel 1914 divennero 240mila. Muratori, fabbri, falegnami, calzolai, sarti, fornai, meccanici, vetrai, imbianchini, cuochi, gelatai e parrucchieri: non avevano concorrenza. Fra il 1880 e il 1915 approdarono negli Stati Uniti 4 milioni di italiani.
Fra il 1880 e il 1924, in Brasile entrarono più di 3,6 milioni di immigranti, di cui il 38% erano italiani. I primi ad arrivare furono i veneti, seguiti da campani, calabresi e lombardi. Ricordiamo, ad esempio di tutti i luoghi di arrivo, che alla fine del secolo XIX in Argentina, a Buenos Aires, gli emigranti appena sbarcati, dopo essere stati disinfettati, venivano alloggiati nell’Hotel degli Immigrati. Si trattava, in realtà, di un enorme baraccone di legno, dove stavano stipati uno sull’altro e potevano rimanere al massimo cinque giorni, il tempo di trovare un lavoro in città o nei campi.
Il 13 gennaio 1902 il redattore Luigi Barzini, che seguiva da vicino le vicende degli emigranti italiani in Argentina, nell’articolo “Gli allucinati”, così scriveva sul Corriere della Sera: “In questi ultimi tre giorni sono arrivati tremila e ottocento emigrati, in gran parte nostri connazionali. L’Hotel degli Immigrati é gremito. […]. Esso (e lo chiamano Hotel!) sorge su quella landa indefinibile, irregolare, fangosa, che sta fra il torbido e tempestoso Rio della Plata e la città. […]. Tutto intorno dei pantani putridi coperti da una superba vegetazione acquatica mettono un po’ di verde sul piano squallido e un po’ di miasmi per l’aria. Ha una forma strana, sembra un gasometro munito di finestre (…). L’acre odore dell’acido fenico non riesce a vincere il tanfo nauseante che viene dal pavimento viscido e sporco, che esala dalle vecchie pareti di legno, che è alitato dalle porte aperte; un odore d’umanità accatastata, di miseria”.
Antonella Rita Roscilli, giornalista brasilianista, scrittrice e traduttrice
Pubblicato venerdì 7 Dicembre 2018
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