«La cultura, non dimentichiamo questo settore. Abbiamo un occhio di attenzione per i nostri artisti che ci fanno tanto divertire e appassionare» ha detto il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, durante la conferenza stampa del 13 maggio presentando le misure del Decreto Rilancio. Una manovra che metterà in campo 155 miliardi per far ripartire l’economia italiana, di cui 5 miliardi saranno destinati a turismo e cultura.
Parole rivolte principalmente ai lavoratori dello spettacolo, per i quali è prevista un’indennità anche per i mesi di aprile e maggio. Il blocco da Coronavirus di spettacoli, cantieri di scavo archeologico e di musei ha avuto pesanti ripercussioni sui lavoratori del settore, che lavorano in maniera discontinua a partita Iva o in nero. E che spesso degenera in precariato. Dall’archeologo all’attore, dal tecnico delle luci al social media manager, in molti si sono ritrovati improvvisamente senza reddito. Ci sono poi i contratti a chiamata, secondo cui i lavoratori che li sottoscrivono restano assunti anche quando non prestano ore di servizio e che non danno accesso ad alcuna indennità, pur pagando regolarmente tasse e contributi. Sono i cosiddetti lavoratori intermittenti, oltre 200mila in Italia, che rappresentano due occupati su tre nel settore spettacolo.
Parole proferite dinanzi all’Incontro di Leone Magno con Attila dipinto da Raffaello, che hanno acceso ancora una volta il dibattito tra arte e intrattenimento. Una questione che riguarda le modalità con cui l’arte viene percepita dal pubblico e considerata dalle istituzioni, in un Paese in cui ci sono file chilometriche per vedere una mostra alle Scuderie del Quirinale, alla Biennale di Venezia o a un concerto in uno stadio, ma che non concepisce l’idea che produrre arte sia un lavoro.
Durante il lockdown, ad esempio, Dimitri Reali della band romagnola dei Ponzio Pilates è stato multato durante un controllo delle forze di polizia mentre andava a recuperare in magazzino gli strumenti musicali necessari per le dirette live, che in questi mesi hanno animato molte case italiane. «Questa non è una vera necessità di lavoro, il musicista lo si può fare per hobby» ha riportato Reali sulla sua pagina social, allegando il verbale. Non sono bastate foto dei live, video sul cellulare e articoli che parlassero del gruppo musicale per convincere gli esponenti dell’Arma dei carabinieri che la musica fosse proprio la sua professione.
Eppure un tempo la politica indagava questo ambito. Era il 23 febbraio 1971 e Pier Luigi Romita (Psdi) e Guido Bernardi (Dc) dibattevano in modo appassionato sul valore, il senso e i limiti dell’arte contemporanea durante un’interrogazione parlamentare il cui tema fu la Merda d’Artista di Piero Manzoni. Oggi invece il dibattito tra le pratiche artistiche-curatoriali e le istituzioni si sta affievolendo inesorabilmente.
Il “sistema produttivo culturale e creativo” – come lo definisce in un rapporto del 2017 Unioncamere, l’ente pubblico che rappresenta il sistema camerale italiano – rappresenta il 16% del prodotto interno lordo e dà lavoro a un milione e mezzo di persone, il 6,1% del totale degli occupati in Italia. Basti pensare agli impatti economici e culturali che ha avuto la città di Matera dopo esser stata designata capitale europea della cultura: al primo posto per percentuale di crescita del turismo nella storia della manifestazione, +30% di turisti stranieri, +34% delle presenze in Basilicata e un milione di presenze solo nel 2019. Secondo il ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo, i 358 musei statali presenti sul territorio nazionale rappresentano l’1,6% del Pil con un numero di occupati poco inferiore a 120mila. Dimostrando il contrario di quanto affermò Giulio Tremonti, ministro dell’Economia e Finanze nei diversi governi guidati da Silvio Berlusconi, che “con la cultura non si mangia”.
Benché questo ambito costituisca quindi una grande fetta di mercato, la disparità di reddito della classe lavoratrice si è intensificata con l’emergenza Covid-19. Perché se settori come design, architettura, editoria e stampa, videogiochi e software fruttano quasi 26 miliardi di euro all’economia italiana (Unioncamere 2017), ce ne sono altri che restano marginali. La loro condizione è stata enfatizzata dall’emergenza sanitaria degli ultimi mesi, durante la quale è nato Awi (Art Workers Italia), un gruppo di lavoratori dell’arte contemporanea autonomo e apartitico, che include tutte le figure che operano all’interno di enti e istituzioni pubbliche e private. «Siamo Art Workers: artiste, performer, curatrici – scegliendo di sostituire al maschile inclusivo un’alternanza della forma femminile e maschile di professionalità e pronomi – assistenti curatori, ricercatrici, educatori museali e mediatrici culturali d’arte, allestitori, producer, tecnici dell’illuminotecnica e del suono, registrar, videomaker, critiche d’arte, art writer, storici dell’arte, guardasala, trasportatrici, assistenti di galleria, project manager, consulenti, coordinatrici, restauratori, grafici, illustratrici, fotografe, animatori, assistenti di studio, comunicatrici, social media manager e addetti ufficio stampa» scrive il collettivo sul proprio manifesto, presentato in occasione del corteo virtuale del Primo Maggio città di Torino e che propone soluzioni concrete per il contesto emergenziale e per il futuro.
Il cantautore Fabrizio De Andrè sosteneva che chi narra i difetti della società ne è l’anticorpo. Lo sapevano bene i regimi totalitari che sfruttarono le capacità di indottrinamento delle masse popolari attraverso la propaganda e la censura di arte, stampa, radio, cinema e teatro, in una costante ricerca di consenso da parte delle popolazioni e di controllo dell’opinione pubblica, divenute priorità assolute nella politica culturale. L’obiettivo fu quello di annullare il libero pensiero e conformare tutti secondo quanto sostenuto dalla propaganda. Lo fece anche il regime fascista. Vietato imitare il duce, se non per la sua fasulla epopea gloriosa, inneggiare allo sciopero, parlare di borsa nera, di questioni di politica, religione, sessualità, immigrazione, ebraismo e prostituzione. Vietato portare in scena Giuseppe Garibaldi, ritenuto un sovversivo, figura che riceve il giusto riconoscimento solo ai nostri giorni e definito “rosso” con sprezzo negli anni della prima Repubblica da diversi esponenti Dc. Vietato ogni riferimento alla razza, tanto che il moro Otello di William Shakespeare venne eliminato dai teatri italiani. Censurate persino le Operette morali di Giacomo Leopardi, dove il pronome di cortesia Lei utilizzato nel dialogo tra il sole e la luna, venne sostituito dal Voi imposto dal regime, in segno di rispetto per l’autorità.
Nel 1929, in pieno regime fascista, nasce l’Ufficio preposto alla censura teatrale che catalogherà 13mila copioni teatrali e radiofonici, conservati nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Il 9% dei testi venne censurato e accompagnato da lettere manoscritte, correzioni e suggerimenti del direttore generale della censura e prefetto del Regno Leopoldo Zurlo – che si firmava con la zeta di Zorro. «Il timbro “respinto” opposto sul dorso del copione. Una lunga linea rossa su una battuta dattiloscritta di un personaggio. Questo bastava per annullare uno spettacolo. Decideva, fino al 1962, l’Ufficio della Censura Teatrale. Per ciò più di 700 copioni, in un secolo di storia italiana, sono rimasti chiusi nel cassetto dei produttori e degli autori e non hanno raggiunto il pubblico in sala. È ora che se ne parli» scrive la storica del teatro Federica Festa, autrice di Teatro proibito, libro e spettacolo teatrale.
Anche i testi di Eduardo De Filippo vennero censurati dal regime a causa del suo noto antifascismo. «Negli anni Trenta le commedie dei fratelli De Filippo (è del 1931 il grande successo di Natale in casa Cupiello) sottoposte alla censura subirono ritardi nell’autorizzazione che costringevano la compagnia a sollecitare con lettere e telegrammi il nulla osta per le rappresentazioni» scrive la ricercatrice storica Carla Casaburi in Teatro e fascismo pubblicato dalla rivista Ariel. Dilatare i tempi di approvazione significava comportare ostacoli e aumentare i costi di produzione, scoraggiandone la messa in scena. «In quel periodo si verificò lo scontro più significativo di Eduardo con la censura – continua Casaburi –. Avvenne nel 1932 allorché il prefetto Leopoldo Zurlo fece cambiare il titolo dell’atto unico “Le bische” in “Quei figuri di trent’anni fa”: il regime aveva infatti abolito le bische e l’azione della commedia dovette perciò essere retrocessa all’inizio del secolo».
Ma ci fu anche chi si oppose apertamente. Arturo Toscanini era all’apice della sua popolarità come direttore d’orchestra quando Mussolini desiderò farne un ambasciatore musicale del regime. Desiderio che il maestro non assecondò mai, rifiutandosi di dirigere, in apertura o in chiusura dei suoi concerti, l’inno del Partito nazionale fascista Giovinezza o della Marcia Reale (al tempo, inno italiano) alla presenza del duce o dei suoi fedelissimi. Per questo, Toscanini venne aggredito da squadracce fasciste e di seguito rinuncerà a dirigere nell’Italia mussoliniana, spostandosi in tutto il mondo. Non solo. Fu il primo firmatario di un documento rivolto alle istituzioni contro l’allontanamento di musicisti ebrei dai loro incarichi dopo l’emanazione delle leggi razziali, difendendo i valori antifascisti, «la Resistenza della persona umana che si rifiutava di diventare cosa e voleva restare persona e voleva che tutti gli uomini restassero persone. E sentiva che bastava offendere in un uomo questa dignità della persona, perché nello stesso tempo in tutti gli altri uomini questa stessa dignità rimanesse umiliata e ferita» disse Piero Calamandrei, membro dell’Assemblea Costituente, il 28 febbraio 1954 al Teatro Lirico di Milano per il decennale della Resistenza.
Ha fatto molto discutere, inoltre, il protocollo d’intesa siglato dal governo con la Conferenza episcopale italiana per la riapertura delle chiese dal 18 maggio, chiuse per l’emergenza sanitaria, rimandando quella dei teatri e dei cinema. Un dibattito che ha posto la libertà di culto sullo stesso piano della libertà di cultura, garantite entrambe dalla Costituzione ed entrambe necessarie alla cura dell’anima. Come necessario è il distanziamento fisico da tenere in entrambi i luoghi, principalmente al chiuso, dove la possibilità di assembramenti e di contagio da Covid-19 è lo stesso. “Forse i lavoratori dello spettacolo non hanno gli stessi santi in Paradiso” è stato più volte commentato.
«In Italia il patrimonio culturale ha un ruolo che non ha in nessun altro Paese, per la banale ragione che fra i principi fondamentali della Costituzione c’è un articolo, l’articolo 9, che dice che la nostra Repubblica è basata anche sullo sviluppo della cultura e della sua tutela – ha spiegato il critico d’arte e accademico Tomaso Montanari in un’intervista alla Fgic –. Queste due cose sono collegate in maniera intima: il patrimonio culturale lo tuteliamo per produrre cultura e redistribuirla. Negli atti dell’Assemblea Costituente, l’idea è espressa in modo chiaro e lo scrivono persone di orientamento diversissimo, i due relatori delle materie culturali, Concetto Marchesi, un vecchio comunista, e Aldo Moro, un giovane democristiano, perfettamente concordi nel dire che lo scopo della cultura è una diffusione di un senso critico individuale e collettivo, una specie di umanesimo di massa che possa costituire, inoculare alla Repubblica nascente degli anticorpi antifascisti, degli anticorpi contro un ritorno di un regime. Si ha molto chiara l’idea che la cultura non è evasione, divertimento, non è un’industria economica, ma uno strumento fondamentale di garanzia della democrazia».
Mariangela Di Marco
Pubblicato mercoledì 3 Giugno 2020
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