Alla radice del problema
Gli ebrei s’insediarono nel Regno di Polonia nel XII sec, a causa delle persecuzioni del Sacro Romano Impero. Trovarono qui rifugio soprattutto gli ebrei orientali (ashkenaziti), che furono accolti di buon grado.
Assente dalla cartina europea per oltre cento anni, a seguito dello smembramento del territorio da parte dei tre grandi Imperi prussiano, russo e austroungarico, la Polonia torna ad essere stato sovrano alla fine del primo dopoguerra con il nome di “Seconda Repubblica Polacca”. Dal XIII secolo sino alla terza spartizione (1795), il Paese si caratterizza per essere multietnico e multinazionale. Comprende minoranze di ucraini, bielorussi, russi, lituani, tedeschi ed ebrei, ed ha, inoltre, la fama di essere lo Stato più tollerante d’Europa nei confronti degli ebrei già altrove perseguitati (Francia, Germania, Spagna, Portogallo, Ungheria, Austria).
Ma proprio negli anni tra le due guerre mondiali si formano in Polonia, come in tutta l’Europa centro-orientale, governi nazionalisti, agrario-conservatori, imbevuti di clericalismo e antisemitismo. Sono la reazione sia alla paura che la rivoluzione russa, di cui sono responsabili un manipolo di “rivoluzionari ebrei”, possa espandersi in altre parti del continente europeo (confiscando ai latifondisti le proprietà terriere), sia alla Grande depressione della fine degli anni Venti e anni Trenta. Le violente tensioni sociali che la crisi economica e finanziaria innesca, rimettono al centro del discorso politico l’identità e lo spirito nazionale polacco, riconquistato dopo un lungo periodo di vessazione. Nel 1935 nasce la Falange nazional-radicale (ONR), un gruppo politico nazionalista centrato sull’integralismo cattolico, critico nei confronti del capitalismo “giudaico-massonico”, colpevole di aver gettato milioni d’individui nel baratro e, quindi, ferocemente antisemita.
In quel momento, la Polonia è il Paese europeo con la più alta concentrazione di ebrei, e la comunità ebraica è la più cospicua di tutte le comunità di minoranza presenti sul suo territorio: tra il 1919 e il 1939, gli ebrei costituiscono circa il 10% della popolazione. Nel 1935 sono circa 3.500.000 su 35 milioni di abitanti. La giudeofobia – alla base del moderno antisemitismo politico – si diffonde nel Paese prima ancora dell’inizio della Seconda guerra mondiale. Numerosi settori del lavoro (impieghi statali e municipali) sono preclusi agli ebrei, che sono soprattutto occupati nel commercio, banche, assicurazioni e professioni private. Dal canto suo, la Chiesa cattolica locale, che è stata nei secoli l’unico baluardo di difesa dell’identità nazionale (soprattutto nei periodi in cui la Polonia fu cancellata dalla carta geografica) contribuisce al processo di discriminazione ebrea, attraverso l’opera del cardinale August Hlond, che incoraggia il boicottaggio sistematico delle attività commerciali degli ebrei, e pubblica una Pastorale, in cui si afferma che i giudei sono l’avanguardia dell’ateismo e del comunismo. Dopo la morte del maresciallo Józef Piłsudski, in diverse parti del Paese (Łódź, Grodno, Suwałki, voivodato di Varsavia, Kielce, Lwów) prende avvio una violenta campagna antisemita, sostenuta dalla stampa cattolica, che si riversa soprattutto negli ambienti universitari. Ad essere colpiti sono gli studenti ebrei che vengono espulsi dagli anfiteatri e dai laboratori. Nei politecnici si creano i “banchi del ghetto”: i giovani ebrei sono costretti a sedersi nelle ultime file delle aule. Una pratica introdotta nel 1935 e che si estende l’anno dopo anche a Varsavia e Vilna. Tra il 1936-1937, la discriminazione si trasforma in persecuzione: si moltiplicano pogrom, saccheggi, omicidi. La linea di governo si fa più aggressiva, arrivando ad auspicare l’emigrazione forzata degli ebrei. Una strategia formulata dal colonnello Józef Beck che non trova attuazione poiché nel 1939, con il patto Molotov-Ribbentrop, che sancisce la divisione dell’Europa centro-orientale in sfere d’influenza, la Germania nazista occupa la Polonia occidentale mentre l’Urss quella orientale.
Nel corso della Seconda guerra mondiale, la Germania nazista annienta quasi tutti gli ebrei che vivono in Polonia. Il 90% di loro perde la vita nei campi di sterminio nazisti. Dei 350 mila sopravvissuti, gran parte emigrano al termine del conflitto. La “questione ebraica” è temporaneamente archiviata, sino a riaprirsi, in anni recenti, con la pubblicazione, nel maggio 2000, del libro Neighbors di Jan Gross, in cui l’autore sostiene che il massacro della comunità ebraica di Jedwabne fu per mano dei polacchi. Il libro sfata il mito di una Polonia sempre ospitale e tollerante verso le proprie minoranze, e riesamina il passato polacco attraverso l’intersezione di due storie: quella eroica e vera della resistenza polacca e l’altrettanto vera storia dei polacchi che si misero al fianco degli invasori tedeschi, collaborando al massacro degli ebrei.
Una storia scomoda
A seguito della pubblicazione del libro di Gross, l’Istituto della Memoria Nazionale (IMN) di Varsavia apre un’indagine per appurare la tesi dell’autore, secondo cui i polacchi non furono solo vittime ma anche esecutori di “omicidi di massa” nei confronti degli ebrei. Una tesi che l’IMN non smentisce, anche se considera il numero di ebrei uccisi dai polacchi inferiore rispetto a quello riferito dall’autore. Tuttavia, il “dado è tratto”: i polacchi sono costretti a fare i conti con la propria storia, a riaprire quel capitolo doloroso che riguarda il rapporto controverso del Paese con i “suoi” ebrei.
Se è vero che molti cittadini polacchi rischiarono la vita per salvare gli ebrei dalla deportazione, non mancano i documenti che testimoniano la complicità di altri con le autorità naziste nel piano di sterminio degli ebrei. Esistono prove fotografiche sull’amicizia tra nazionalisti polacchi e nazisti. Esiste, inoltre, una grande quantità di materiale che prova che polacchi e ucraini (noti come trawniki) servirono volontariamente nei plotoni di esecuzione e come guardie del campo ad Auschwitz. Informazioni ricavate dagli archivi ufficiali del Museo di Stato Auschwitz-Birkenau dimostrano che la Polizia Blu (Granatowa Policja) fosse composta, in alcuni momenti, da collaborazionisti polacchi che aiutarono a inviare ebrei (ed altre persone) direttamente dalle stazioni ferroviarie ad Auschwitz. Nel libro di Ota Kraus ed Erich Kulka, Továrna na smrt (La fabbrica della morte), pubblicato nel 1946, si può leggere come molti nomi polacchi si trovassero nella lista dei membri delle SS colpevoli di particolare brutalità nei confronti dei prigionieri ad Auschwitz. In un altro libro scritto da Tadeusz Piotrowski, Poland’s Holocaust: Ethnic Strife, Collaboration with Occupying Forces and Genocide in the Second Republic, 1918-1947, vi è un’ampia selezione di fonti sul collaborazionismo polacco ad Auschwitz. Tra le altre testimonianze, il libro racconta dei ricattatori polacchi (szmalcowniki), che chiedevano denaro a zingari, ebrei e comunisti, minacciando questi “nemici del Reich” di essere altrimenti spediti ad Auschwitz, e dei polacchi che venivano denunciati perché nascondevano nelle loro case i giudei. E menziona anche i Volksdeutsche, persone che avevano rinnegato la nazionalità polacca per assumere quella tedesca.
Nel 2012 è uscito il film Poklosie (o Aftermath) del regista Władysław Pasikowski, che affronta il tema dei polacchi ebrei trucidati dai propri concittadini. La trama s’ispira al pogrom di Jedwabne (Polonia nord-orientale, occupata durante l’operazione Barbarossa, l’invasione dell’URSS da parte della Germania), che ebbe luogo il 10 luglio 1941: 340 ebrei polacchi del villaggio furono rinchiusi da altri polacchi (su ordine della Ordnungspolizei) in un granaio, cui fu appiccato il fuoco. Gli ebrei morirono tutti bruciati.
Il 4 luglio del 1946, a Kielce, città della Polonia centro-meridionale, si consuma il peggiore massacro del dopoguerra (con i tedeschi ormai fuggiti): 42 ebrei, dei 200 tornati dai lager nazisti, perdono la vita (80 i feriti) nel pogrom scatenato dai loro vicini di casa, mentre le forze dell’ordine restano a guardare. Al loro rientro i sopravvissuti non sono, infatti, bene accolti: non amati perché ebrei, e ora considerati anche traditori filosovietici. Complici della tragedia consumata, la miseria e delinquenza diffuse in una popolazione abbrutita dalla guerra: gli ebrei ritornati reclamano le loro proprietà (terreni e beni immobili) che i nazisti non hanno depredato, ma nel frattempo sono state spartite tra i polacchi non ebrei. Le richieste degli scampati allo sterminio suscitano odio, anziché solidarietà. I fatti di Kielce dimostrano quanto l’antisemitismo fosse radicato in gran parte della popolazione polacca, anche dopo e nonostante la Shoah.
La riscrittura della storia
Il Parlamento polacco ha di recente approvato una legge (si tratta, in realtà, di un emendamento alla legge sull’Istituto della Memoria Nazionale), che prevede la possibilità di punire con una sanzione, che da una multa può arrivare anche al carcere fino a tre anni, chiunque (anche cittadino straniero) pubblicamente, e contro i fatti, attribuisca allo stato polacco la responsabilità o la corresponsabilità di crimini compiuti dal Terzo Reich tedesco. La legge prevede, inoltre, la possibilità di portare di fronte al tribunale chi usi la formulazione “campi polacchi della morte” (riferendosi, ad esempio, ad Auschwitz), e mira a criminalizzare ogni posizione negazionista nei confronti delle “azioni commesse dai nazionalisti ucraini dal 1925 al 1950, caratterizzate dall’uso della forza, del terrore o di altre forme di violazione dei diritti umani contro la popolazione polacca”. Il provvedimento, vidimato dal Capo dello Stato, ha suscitato l’ira d’Israele, che considera tale atto un tentativo di negare la partecipazione dei polacchi allo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti.
Effettivamente, ci troviamo di fronte ad una strategia politica dei nazional-conservatori di Jarosław Kaczyński, che hanno sempre fatto del passato un terreno di auto-affermazione e resa dei conti. Un approccio revanscista mai del tutto superato in quella parte di Polonia che si erge ancora oggi a “Cristo delle nazioni”, votato al sacrificio per espiare i peccati. Poiché i polacchi hanno subito nei secoli la crocifissione politica, sono destinati come Cristo a risorgere per indicare a tutte le nazioni d’Europa la via della salvezza eterna. Si riproduce quel messianismo romantico, sacro, intriso di sofferenza, martirio e redenzione, che non si piega alle ragioni della verità storica. I polacchi sono solo eroi e vittime. Ma la Shoah non è un racconto “metafisico” che si possa fare in bianco e nero, tralasciando i molti toni di grigio. È vero che la Polonia fu attaccata e occupata dalla Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale, e che fu quest’ultima ad organizzare i campi di sterminio in territorio occupato. Ed è altrettanto fuori discussione che nonostante fosse vietato aiutare gli ebrei (chi lo faceva era punito con la morte), una parte rilevante della società polacca si sia mobilitata contro la macchina di sterminio, mettendo a rischio la propria vita per difendere gli ebrei. Tra le persone riconosciute come “giusti tra le nazioni” dallo “Yad Vashem” (Museo dell’Olocausto di Gerusalemme) ci sono anche molti cittadini polacchi. Nessuno nega, infine, che durante la Seconda guerra mondiale la Polonia abbia subito ingenti danni e le più gravi perdite umane tra tutti gli stati occupati. Tuttavia, è altrettanto indubbio che la possibilità dello sterminio, la sua efficacia, così come il suo successo, dipesero dalla rete d’indifferenza di una porzione di società polacca (la cosiddetta “zona grigia”), e dal sentimento antisemita che ha connotato a lungo la storia, la politica, la cultura, e anche la mentalità diffusa in Polonia.
L’atteggiamento censorio della legge della Shoah verso chiunque voglia ricordare o indagare eventuali complicità di cittadini polacchi nell’Olocausto, a fronte di massacri storicamente provati, ha le caratteristiche del negazionismo. Non è che un altro mezzo, teso a limitare la libertà d’espressione e a eliminare qualsiasi forma di contradditorio, utilizzato dal partito conservatore “Diritto e Giustizia”, che governa il Paese. E conferma, a sua volta, il dilagare di una cultura ideologica di destra pervasa da vittimismo, nazionalismo e rancore. Questi tre elementi, congiunti a una nostalgia suprematista, con cui si torna a invocare una Polonia bianca e pura (priva, di conseguenza, di qualunque responsabilità nei crimini compiuti nel XX secolo), condizionano la politica del Paese. Un’allerta era già arrivata con l’esclusione dal progetto di costruzione del museo della Seconda guerra mondiale di Danzica della sezione dell’Olocausto, che voleva mostrare anche il lato oscuro dei polacchi, quello di carnefici oltre che di vittime. Il senso era di concentrarsi sull’esperienza polacca, senza collocarla nel campo più vasto del conflitto mondiale e della complessità delle relazioni ebraico-polacche dell’epoca. La riscrittura della storia rientra, dunque, in quella deriva illiberale praticata in questi ultimi anni nel Paese, che vede accanto alla limitazione della libertà di stampa e di associazione, e al soffocamento dell’indipendenza della giustizia, il controllo del passato e della memoria. Dice bene il prof. Marci Shore (Università di Yale) quando – in un articolo apparso su The New York Times (Poland Digs Itself a Memory Hole – 4 febbraio 2018) – sostiene che “l’insistenza sul carattere eccezionale della Polonia è al cuore della sua ‘storia politica’, il cui scopo è controllare la versione del XX secolo, tale da glorificare ed esonerare i polacchi da qualunque colpa”.
La legge dell’Olocausto dovrà ora superare un ultimo passaggio prima di entrare in vigore. Sarà esaminata dalla Corte costituzionale, un organo che negli ultimi tre anni è stato molto indebolito dal partito di Kaczyński, “Diritto e Giustizia”. Ad oggi, comunque, lo scenario più probabile è che la legge entri in vigore.
Cristina Carpinelli, membro Comitato Scientifico del CeSPI (Centro Studi Problemi Internazionali) di Milano per i paesi CEE
Pubblicato giovedì 22 Febbraio 2018
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