La chiamarono “la rivolta di Genova”: divenne la rivolta di tutto il Paese, che si ritrovò unito e compatto nella saldezza della coscienza antifascista e democratica. E fu un momento di estrema importanza per il significato politico che assunse e per le conseguenze che ebbe: una vera e propria svolta che, contrastando e annullando il tentativo di involuzione e di spostamento a destra dell’asse politico, aprì la strada non soltanto a nuovi schieramenti, ma a più avanzate possibilità di confronto, talché non è esagerato affermare – come, del resto, hanno fatto in questi giorni su diversi organi, di stampa attenti commentatori – (ndr: questo articolo è uscito su Patria Indipendente n° 12 del 1980) che al 30 giugno genovese risalgono molti degli sviluppi positivi che la democrazia ha conosciuto in Italia nell’ultimo ventennio.
A Genova – e, nei giorni successivi, a Reggio Emilia, Torino, Roma, Napoli, Palermo, città che si sollevarono appassionatamente e in talune delle quali alcuni giovani caddero colpiti a morte – si sbarrò il passo al fascismo, che pretendeva di reinserirsi a pieno titolo nel gioco politico nazionale, ma anche a quanti tale disegno perseguivano, pronti a mortificare le conquiste e le speranze che il 25 aprile di quindici anni prima aveva offerto al Paese. II disegno era stato lucido e deciso. Un governo, quello di Tambroni, dapprima definito di transizione, era stato a lungo sorretto in Parlamento dai voti dei deputati neofascisti; e Tambroni, decidendo di assicurarsi perennemente tale appoggio, si accinse a pagare la cambiale concordata, che consisteva nel legittimare a pieno titolo la presenza del MSI consentendogli di riconquistare spazi che la coscienza del popolo italiano gli aveva preclusi.
Raccogliendo la totale disponibilità del Presidente del Consiglio, i neofascisti si accinsero alla loro révanche nel modo più arrogante e tracotante e annunciarono il congresso nazionale del loro partito a Genova, proclamando che “tornavano al Nord”; e sottolinearono tale arroganza con una serie di scelte calcolate e deliberatamente provocatorie: sede del congresso il Teatro Margherita, nel cuore della città, a poche decine di metri dal Sacrario ai Caduti per la Libertà, al Ponte Monumentale di via XX settembre; presidente del congresso, Emanuele Basile, prefetto repubblichino di Genova, responsabile diretto di mesi d’angoscia, di torture, di eccidi, di deportazioni. Un gioco portato avanti con la mano pesante e certamente, da parte governativa, con il convincimento che l’operazione non sarebbe stata indolore. Non si poteva pensare, infatti, che Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, la prima ad essersi liberata dai nazifascisti costringendo alla resa nelle mani del CLN le forze armate tedesche comandate dal generale Meinhold, avrebbe accettato la provocazione senza ribellarsi. Ma Tambroni, di fronte alle perplessità manifestategli dagli stessi dirigenti nazionali del MSI, affermò che «sarebbero accadute cose terribili» ma che il congresso neofascista a Genova si sarebbe celebrato regolarmente.
È storia di vent’anni fa, ma il suo ricordo è lucido e chiaro.
Attorno al Consiglio Federativo della Resistenza, stimolato dall’ANPI, che in quei giorni svolse, com’è sempre stato dalla Liberazione ad oggi, il compito di guida e di traino che costituisce il suo ruolo essenziale, la città intera si mobilitò.
Al raduno partigiano dell’ANPI a Pannesi, Terracini affermò chiaramente che Genova non avrebbe tollerato la provocazione; a Chiavari e a Sestri Ponente, in altre manifestazioni della Resistenza, l’avvertimento fu altrettanto chiaro.
I partiti politici, la CGIL, le organizzazioni giovanili e democratiche, si apprestarono ad affrontare la prova: costi quel che costi – si disse a Genova – il fascismo non passerà.
La città e la provincia risposero senza un attimo di esitazione all’appello delle forze della Resistenza, politiche e sindacali. Non fu più neppure questione di «etichette»: la popolazione, senza distinzione di categorie o di inquadramenti politici, scelse la via della ribellione.
E venne la grande giornata del 28 giugno, con il comizio di Sandro Pertini ai centomila genovesi assiepati in piazza della Vittoria, e la immensa sfilata in via XX Settembre, e i garofani rossi a migliaia alle lapidi dei Caduti partigiani; la mobilitazione in tutto il centro cittadino, il corteo degli studenti universitari guidati dai loro docenti; la crescita possente del movimento, la partecipazione massiccia – e inattesa – dei giovani e dei giovanissimi (i ragazzi dalle magliette a strisce, come vennero chiamati, perché allora tale indumento andava per la maggiore tra i giovani) che risposero con slancio e sensibilità imprevedibili; e i giorni successivi, gli scontri pesanti con le forze dell’ordine, chiamate in massa da fuori Genova a difendere un ordine falso e inaccettabile che pretendeva di dare spazio a figuri che la storia aveva messo per sempre fuori della coscienza democratica. Certo, si verificarono, inevitabili, anche episodi di violenza, e nessuno se ne rallegrò; ma la tensione, la passione, li portarono con sé, come accade ogni qualvolta una grande ondata si solleva spazzando ostacoli e barriere.
Vi fu, in extremis, un tentativo di compromesso: ma, se la decisione iniziale era stata provocatoria, questo fu insultante. Attraverso il Prefetto, il Governo propose che il congresso neofascista trovasse sede non più al Teatro Margherita, ma a Nervi, e che gli antifascisti manifestassero a ponente della citta; nel mezzo, il “cuscinetto” delle forze di polizia. L’ANPI disse no, il Consiglio Federativo della Resistenza disse no. I partiti politici democratici, la CGIL, la grande massa dei lavoratori e dei cittadini dissero no. E i delegati al congresso missino, protetti massicciamente dalle forze di polizia, alla spicciolata dovettero abbandonare la città, battuti, mortificati; ma battuta e mortificata, soprattutto, la scelta politica reazionarla che aveva dato origine all’episodio, tutt’altro che occasionale, ma inserito, bensì, in un preciso disegno politico. Tant’è che alla rivolta e alla vittoria genovese e ai grandi movimenti che la seguirono in altre citta di tutta Italia corrispose, a breve scadenza, la caduta del governo Tambroni e una svolta politica di ben diverso segno.
Per il significato politico che ebbe, per le conseguenze dirette che determinò, per il grande respiro unitario che lo caratterizzò, per la tensione ideale che lo sorresse, il 30 giugno di Genova è rimasto a costituire un importante punto di riferimento, valido ancor oggi.
Da Patria Indipendente n° 12 del 6 luglio 1980
Pubblicato giovedì 8 Settembre 2016
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