Il testo dell’articolo, pubblicato il 28 settembre 2018, è stato rivisto dall’autore Eno Santecchia e dallo storico intervistato, Ruggero Giacomini, potendosi avvalere delle motivazioni di una sentenza della Corte di Appello di Ancona del 7 giugno 1949, di cui tuttavia erano già note le conclusioni, inviata a Patria con “richiesta di rettifica” dall’avvocato di un familiare di uno dei protagonisti della vicenda raccontata, il nipote dell’allora capo della Provincia di Macerata durante la Rsi, Ubaldo Rottoli. Una mail molto cortese, va detto, che riguarda la morte per mano nazista del Maggiore dei Carabinieri Pasquale Infelisi, Medaglia di Bronzo al Valor Militare alla Memoria.
In realtà, rispetto al testo precedentemente pubblicato si è trattato di correggere appena due parole — o meglio, aggiungere un verbo e cambiare un sostantivo.
Andiamo per ordine: ci viene segnalato che sul nostro giornale il ruolo di Rottoli “nella tragica vicenda viene inquadrato in due distinte azioni” di cui la prima, cioè “l’aver posto agli arresti, presso l’ospedale psichiatrico di Macerata, il Comandante Infelisi non è in discussione”. Da correggere invece, come Patria ha fatto, la seconda perché “non si è svolta come esposto e nemmeno per le motivazioni esposte”. Nell’articolo tuttavia non c’è traccia alcuna del perché del comportamento di Rottoli, dunque ci limitiamo ad accogliere la richiesta, avanzata con cortesia ribadiamo, di riportare nel testo pubblicato nel 2018 “l’esatta dinamica dell’evento che ha portato il Comandante Infelisi in mani tedesche” con quelle due parole. Però per completezza riferiamo qui, come scrive il legale del familiare di Rottoli, che “a seguito di regolare procedimento penale, il Sig. Rottoli è stato ritenuto estraneo, anche indirettamente, alla morte del Comandante Infelisi”, tant’è che “l’istruttoria, infatti e come ripercorso dalla sentenza, ha chiarito che il Sig. Rottoli non voleva la morte del Comandante né aveva modo di prevedere che i tedeschi lo avrebbero ucciso, non aveva, quindi, né l’intenzione di causarne la morte né la possibilità di prefigurarsi che questo fatto sarebbe stato l’esito ultimo della sua segnalazione. E, infatti, la Corte di Appello di Ancona ha disposto la assoluzione del Sig. Rottoli dal capo di accusa di concorso in omicidio per non sussistenza del fatto”.
L’avvocato precisa che “la motivazione che mosse il Sig. Rottoli a segnalare ai tedeschi la presenza agli arresti del Comandante Infelisi presso l’ospedale psichiatrico di Macerata, lo stesso giorno in cui aveva disposto la liberazione della sua famiglia e di altri detenuti politici, fu il fondato timore che se i tedeschi (che probabilmente avevano già nozione della presenza presso l’ospedale psichiatrico del Comandante) avessero ricevuto l’informazione da qualcun altro o fossero venuto a scoprirlo, formalmente, da soli, il Sig. Rottoli sarebbe stato duramente punito per esser venuto meno ai suoi obblighi di collaborazione, in quanto capo della Provincia”.
Santecchia e Giacomini tuttavia tengono a sottolineare che “se questa fu la conclusione sotto il profilo giuridico di un tribunale della Repubblica Italiana, resta intera a nostro giudizio la responsabilità morale e storica di aver arrestato prima e non aver poi liberato Infelisi, trattenendolo prigioniero”.
L’avvocato, sempre gentilmente, ci chiede inoltre di integrare la parte dell’articolo dove si riporta che il Sig. Rottoli, il 14 giugno 1944, scappava da Macerata con cinque milioni di lire prelevate dalla locale Banca d’Italia, perché pur riconoscendo che “l’articolo, correttamente, non trae conclusioni né esprime giudizi sulla natura di questo prelievo il Sig. Rottoli è stato in più pubblicazioni ‘accusato’ di aver prelevato questa somma allo scopo di trattenerla per sé. Di conseguenza, l’assenza di precisazioni può far ritenere al lettore che, anche se in maniera implicita, l’articolo si accodi a questa interpretazione dei fatti”.
Ovviamente nessuno può rispondere di errori o illazioni altrui, ma Patria non ha alcuna difficoltà a riportare, come attesta la sentenza allegata, che il capo della provincia Rottoli “provvide a versare la somma alle competenti autorità della Repubblica Sociale di Salò rendendo così evidente che lo scopo del prelievo era stato evitare che la già menzionata somma, nella disponibilità della RSI, cadesse nella disponibilità dei liberatori. Infatti, dal relativo capo di imputazione, peculato, il Sig. Rottoli venne assolto per assenza di reato”. Qui per chi volesse prendere visione della ricevuta di consegna dei 5 milioni di lire.
20 marzo 2024
Ruggero Giacomini, storico della Resistenza e della guerra di Liberazione, mi ha concesso un supplemento d’intervista (vedi http://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/interviste/come-si-riconquisto-la-liberta/).
Vista l’importanza dell’argomento ho deciso di dargli vita propria.
L’Arma dei carabinieri, corpo di polizia militare facente parte del Regio Esercito (“Benemerita” dal 1864), nel 1944 aveva già 130 anni, durante i quali si era guadagnata la stima e gli apprezzamenti degli italiani e non solo.
Com’è potuto succedere che il maggiore dei carabinieri Pasquale Infelisi, (medaglia di Bronzo al Valor Militare alla memoria), il 14 giugno 1944, sia caduto così facilmente, quasi ingenuamente, vittima degli intrighi repubblichini e sotto i colpi della Gestapo?
Dopo l’8 settembre ’43 con l’Italia spezzata in due, si pose anche per i carabinieri, come singoli e come corpo militare, il problema della scelta. Ci furono così quelli che collaborarono con l’occupante tedesco e seguirono fino in fondo le sorti della Rsi, e altri, la maggioranza, che simpatizzarono con la Resistenza e anche vi parteciparono in varie forme. Il quadro iniziale fu dettato dal Comando generale dell’Arma, che dispose che dovessero restare in servizio per continuare a occuparsi della sicurezza dei cittadini. Nel dicembre ’44, Mussolini, a capo della Rsi, decise di costituire la Guardia nazionale repubblicana (Gnr), incorporandovi con i membri della milizia fascista (ex Mvsn) gli appartenenti all’Arma dei carabinieri e alla Polizia dell’Africa italiana (Pai).
Il maggiore Pasquale Infelisi aveva comandato fino ad allora il gruppo CC di Macerata. Ora gli veniva richiesto di giurare fedeltà alla Rsi e al suo duce Mussolini. Era un ufficiale tutto d’un pezzo, aveva giurato fedeltà al re e non voleva fare un giuramento opposto a quello. Si rifiutò. Così il 31 gennaio ’44 venne d’autorità collocato a riposo. Si ritirò con la famiglia nella sua abitazione di Villa Potenza.
Col senno di poi avrebbe potuto lasciare la zona di Macerata, nascondersi sotto falso nome, raggiungere i partigiani sui monti. Non lo fece, non si aspettava che venissero a prenderlo. Il che avvenne invece l’8 giugno, quando lui e la sua famiglia furono prelevati nella loro abitazione dal funzionario di questura Domenico Nasuti, su ordine del capo della provincia Ubaldo Rottoli, e posti sotto custodia dentro l’ospedale psichiatrico di Macerata. Lo scopo di questa cattura era probabilmente di averli come ostaggio, in una situazione politica che stava precipitando; la fedeltà dei sottoposti non era più sicura, e Infelisi godeva certamente ancora di autorità e prestigio tra i militari dell’Arma che prestavano servizio. Dopo la liberazione di Roma, avvenuta il 4 giugno, tra gli esponenti locali del fascismo repubblicano nelle Marche si era diffuso il panico: si sentivano minacciati sia dall’incombente avanzata degli alleati che dai possibili sviluppi insurrezionali del movimento partigiano.
Rottoli, quarantenne di origine calabrese, era stato segretario federale di Viterbo del Pnf fino alla caduta del regime; dopo l’8 settembre aveva fondato il locale fascio repubblicano ed era stato messo a capo della provincia. Il 15 maggio ’44 era stato trasferito a Macerata a sostituire il vecchio prefetto Ferazzani, entrato in urto frontale col console capo della Gnr, Giovanni Bassanese.
Il 14 giugno Rottoli scappava da Macerata, con cinque milioni prelevati dalla locale Banca d’Italia e quattro automobili requisite a privati per uso della prefettura, guidate da lui, la moglie, il fratello e il segretario. Al momento di partire, ordinava il rilascio dei familiari del maggiore Infelisi e segnalava la presenza dello stesso al comando tedesco. Quello stesso giorno Infelisi venne prelevato dalle SS, che nel percorso verso Montirozzo, dove era il loro comando, gli spararono, in un campo, a bruciapelo, e lo sotterrarono in una fossa.
Nei giorni della detenzione all’ospedale sarebbe stato forse possibile per lui fuggire, o essere liberato dall’esterno con un colpo di mano. All’epoca, il capo della Gnr maceratese Bassanese era in segreti contatti con i capi moderati della Resistenza. Certamente era informato della situazione, ma nel clima del “si salvi chi può” pensava più alla propria personale sicurezza che alla sorte del maggiore. Ed infatti l’11 giugno abbandonava il servizio, lasciando la Guardia in mano al suo vice Camerucci, che avrebbe diretto la ritirata verso nord. Bassanese trovava riparo a Villapotenza, prima presso l’avvocato Bruscantini-Raccosta e poi presso lo stesso generale del Sim (Servizio informazioni militari) Melia, auspice il presidente del Cln di Macerata Fattorini. Ciò che non mancò di suscitare polemiche nel dopoguerra. Il povero Infelisi comunque era stato lasciato solo, abbandonato al suo tragico destino».
Il brigadiere dei carabinieri Ernesto Bergamin cadde, il 24 giugno 1944, a Pozzuolo di Camerino, mentre stava aiutando anziani, donne e bambini a mettersi al riparo durante un rastrellamento tedesco. Perché non è mai stato insignito [1] “alla memoria” di qualche decorazione?
In quanto facenti parte della Gnr, i carabinieri presenti nelle Marche avrebbero dovuto anch’essi, come i gerarchetti locali, ripiegare al nord. Quasi tuti si rifiutarono, trovando appoggio presso i partigiani. Il 14 giugno ’44, una quindicina di carabinieri, tra cui era il brigadiere Ernesto Bergamin, abbandonarono la caserma di Camerino e raggiunsero a Pozzuolo i partigiani del battaglione “Fazzini” di don Nicola Rilli. Erano guidati dal loro comandante, il capitano Vittorio Gabrielli, e recavano con loro alcuni militi e caporioni fascisti locali fatti prigionieri, che furono messi insieme a 27 tedeschi, che erano stati precedentemente catturati dai partigiani o avevano disertato.
Fu forse la presenza di questi prigionieri a motivare il rastrellamento che tedeschi e militi fascisti in forze effettuarono il 24 giugno nella zona tra Letegge, Pozzuolo, Statte e Capolapiaggia, cogliendo impreparati i partigiani, che rilasciarono i prigionieri, ma ciò non evitò una delle più feroci rappresaglie di tutta la resistenza nelle Marche.
Nella confusione e panico determinato dall’attacco tedesco, Bergamin si prodigò per calmare e mettere al riparo la popolazione. Fu ucciso sul posto. La strage generale costò oltre sessanta vittime tra civili e partigiani.
Bergamin fu l’unico dei carabinieri ad essere ucciso, tutti gli altri riuscirono a fuggire al rastrellamento, ritirandosi in direzione di Serrapetrona. Nell’atteggiamento difforme dal resto del reparto, si è vista una possibile spiegazione del perché il comportamento generoso del brigadiere Bergamin e il suo sacrificio non abbiano avuto il riconoscimento almeno di una medaglia al valore alla memoria. Dubito però che questa sia la spiegazione, se è vero che una proposta di assegnazione della medaglia d’argento al valore militare alla memoria fu avanzata tempestivamente dallo stesso comandante del reparto Gabrielli, già il 16 ottobre del ‘44. D’altra parte non avendo la formazione di Rilli previsto l’attacco e predisposte per tempo le difese, il reparto dei carabinieri da solo avrebbe potuto fare ben poco.
Il motivo potrebbe essere semplicemente nell’inerzia burocratica, in mancanza di sollecitazioni e autorevoli interessamenti. Credo comunque che se l’Anpi e il comune di Camerino insistessero presso la Presidenza della Repubblica, sia possibile ancora oggi far assegnare al Bergamin la medaglia d’argento al valore civile.
Glorio Della Vecchia [2], di San Ginesio, vice brigadiere dei carabinieri (Medaglia d’Argento al Valor Militare alla memoria), era il figlio della sorella di mia nonna materna. Partigiano, catturato dalle SS italiane, fu fucilato il 5 maggio 1944 insieme ad altri due giovani. Sembra che il capitano della SS si chiamasse Salsa, ucciso in seguito. Il fratello, padre Giovanni del Tor francescano, a Roma venne a sapere le generalità del comandante del plotone d’esecuzione. Dall’Armadio della vergogna, o da altre ricerche si è saputo qualche altra notizia sul tragico evento o sugli autori?
Su Glorio Della Vecchia esistono effettivamente documenti provenienti dal cosiddetto “Armadio della vergogna”, dove, come è noto, si ritrovarono gli atti delle indagini avviate sui crimini dell’occupazione tedesca in Italia, “archiviati” a suo tempo per ragioni politiche, essenzialmente la costituzione della Nato e l’inserimento della Germania occidentale nel blocco antisovietico. I documenti sono quattro:
- Un prospetto schematico intestato “Ufficio del Pubblico ministero presso la Sez. speciale della Corte di Assise di Macerata” in cui si fa cenno ad atti di procedimenti contro “ignoti militari delle SS italiane” per “omicidio” e “aiuto al nemico”, ai danni di Glorio Della Vecchia, Giovanni Fornari e Ivo Pacioni del 9 aprile 1946.
- Un appunto manoscritto, senza firma e data, opera di un funzionario con poca dimestichezza con la geografia delle Marche, che riassume sinteticamente vari episodi tra cui: “6.5.44 – Uccisione da tedeschi o fascisti, di Della Vecchia Glorio, Fornari Giovanni, Pacioni Ivo, in Passo Sant’Angelo in Pontano (non si conosce il comune né la provincia)”. Segue poi l’indicazione archivistica: “Per Della Vecchia Glorio vedere e unire al fascicolo n.1172/R.G”.
- Una dichiarazione del 17 marzo 1946 rilasciata ai carabinieri di San Ginesio da Francesco Corradini, nato a Petriolo il 14 agosto 1888 e residente a San Ginesio, autista presso la Società Sasp di Passo S. Ginesio, il quale attesta che il giorno 5 maggio 1944, mentre era intento al lavoro nel garage aziendale vide “un reparto delle S.S. italiane proveniente dalla frazione Campanelle [che] conduceva tre patrioti, tra cui il vicebrigadiere Della Vecchia Glorio. Seppi poi che questi ultimi erano stati catturati dai predetti militari perché nella mattinata avevano combattuto – insieme con qualche altro – contro di loro in località Molino-Campanelle. Il gruppo era seguito dalla madre del sottufficiale, la quale andò a parlare al capitano – di cui ignoro il nome – comandante del reparto. Appresi poscia che andò a chiedergli la grazia pel figlio, il quale era stato barbaramente maltrattato assieme ai suoi due compagni. Tutti e tre sostavano intanto in mezzo ai militari in località Passo S. Angelo-S. Ginesio. L’ufficiale fece però allontanare di alcuni passi la madre del vicebrigadiere Della Vecchia e, senza interrogare i tre patrioti, li fece condurre in un piccolo spiazzale, ove vennero subito fucilati. Ciò avvenne verso le ore 20 dello stesso giorno 5”.
- Un’altra testimonianza pure rilasciata ai carabinieri da Armando Paccamiccio, nato il 20 novembre 1904 a San Ginesio, frazione Campanelle del comune di San Ginesio, autista. Questi dichiara che “il giorno 5 maggio 1944, verso le ore 17, mentre mi trovavo fuori dalla finestra della mia abitazione, vidi passare un gruppo di militari della S.S. italiana, in servizio di rastrellamento che conducevano in mezzo a loro certo Della Vecchia Glorio ed altri due borghesi di cui non conosco il nome. I militari si portavano verso Passo S. Ginesio, e in loro compagnia vi era anche la madre del Della Vecchia, che si portavano a braccetto. Poco dopo seppi dalla voce pubblica che detti giovani erano stati catturati sol perché erano patrioti e che avevano attaccato combattimento con detti militari della S.S. italiana. Più tardi ancora venni a conoscenza che sia il Della Vecchia che i suoi due compagni erano stati fucilati, verso le ore 20 circa, sullo spiazzale di una campagna adiacente al garage della società Sasp”. Il procedimento di indagine aperto dall’Ufficio del Pubblico Ministero presso la Sezione speciale della Corte di Assise di Macerata, fu lasciato cadere senza che venissero identificati ai fini giudiziari né il comandante del reparto, che pure era stato visto anche dalla madre di Glorio, né altri responsabili.
Eno Santecchia
[1] A differenza di quanto riportato, a pag. 318 del volume “Per la vie strette, molto pulite, talune assai ripide …” Appunti di toponomastica camerinese (cit. in bibliografia), di Giuseppe De Rosa, la medaglia richiesta non gli è mai stata concessa.
[2] Sabato 29 maggio 1999, con una cerimonia solenne, gli è stata intitolata la nuova caserma dei carabinieri di San Severino Marche (MC).
Pubblicato venerdì 28 Settembre 2018
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