Nel domicilio clandestino di Lione, Narbonne scrive a Simone. Dei loro sei figli, due sono espatriati per prendere contatto con il movimento antifascista all’estero. Un terzo vuole entrare nella Resistenza che ora, in terra di Francia, combatte contro i nazisti occupanti e i collaborazionisti del governo fantoccio del generale Petain. “Scusami se sono così lontano” scrive Narbonne, e sente tutta la pena di Simone, che gli manca (sono marito e moglie dal 1919), come gli mancano i figli, gli studi, la bella casa delle vacanze in Bretagna. Ma questo non è un tempo privato. Uomini come Narbonne stringono i denti. Gli affetti e gli amori restano, ma sono per “dopo”, se un “dopo” verrà.
“Scusami se sono così lontano”. Narbonne deve andare. Mette la lettera in una busta, e la busta in una tasca. Esce sul pianerottolo del secondo piano, scende le scale alla velocità consentita dai suoi anni – è nato nel 1886 – e dal suo corpo appesantito di uomo di studio, estraneo all’ampiezza e alla rumorosità delle strade, avvezzo alla quieta penombra delle biblioteche e degli archivi. Qui, insaziabilmente, per decenni ha cercato le tracce degli uomini, per raccontare come e di cosa essi abbiano vissuto, in cosa abbiano creduto e perché e, come dall’uno all’altro villaggio medievale di Francia, essi siano stati portatori di una comune mentalità. A volte Narbonne ha pensato a se stesso come ad un orco che fiuta, rovista e scava negli ammassi di materia, nel fogliame del bosco, negli odori delle cascine, nel fetore delle stalle per trovare la presenza degli uomini, dei loro figli e delle loro spose. E lo ha scritto: “Lo storico è come l’orco delle favole, va là dove sente odore di carne umana”.
Narbonne apre il portone su via dell’Orangerie. Non è la sua prima guerra. È stato sergente in trincea nel primo conflitto mondiale; ne ha riportano i gradi di capitano e l’onorificenza della Legion d’onore. Ne ha riportato anche l’artrite reumatoide, ma soprattutto l’esperienza fondamentale dell’incontro con operai e contadini che a lui, di solida e benestante famiglia borghese, ha schiuso la visione di un mondo sconosciuto, che entrerà, invece, potentemente nei suoi studi e nel suo sentire.
Narbonne è nell’atrio. Per la sua affittacamere, è Monsieur Blanchard, un comune borghese di mezza età nella Francia occupata: con abiti borghesi, convinzioni borghesi, rassicuranti aspettative borghesi. Quel che l’affittacamere non sa è che il suo inquilino è al lavoro sugli organigrammi futuri della Francia libera: ha in mente una riforma radicale dell’istruzione, è responsabile dei francs-tireurs del lionese, ed è vicino ai proletari di Francia piuttosto che agli alti comandi dell’esercito, rappresentanti di una classe borghese terrorizzata dal bolscevismo assai più che dal Reich nazista, le cui giovani, velocissime armate sono dilagate fino a Parigi, e, quasi senza combattere, hanno occupato la Francia, colpevolmente consegnatasi alla disfatta.
È la prima settimana di marzo e, un passo dopo l’altro, Narbonne cammina sul marciapiede con il suo impermeabile. Con lo stesso passo per anni dalla sua casa ha raggiunto l’aula dell’università di Strasburgo e poi quella della Sorbona di Parigi. Più volte ha tentato di accedere all’École di Parigi, ma da questo incarico è sempre stato escluso. Perché Narbonne è ebreo e, in quanto tale, non è gradito ai vertici della prestigiosa istituzione. Della sua origine e del credo dei suoi antenati, però, non si è mai dato troppa pena, rivendicandola solo e unicamente se di fronte a un antisemita. Forse non se ne preoccupa nemmeno ora, in questo anno fatale che è il 1944. Mai ha camminato rasente i muri. Mai si è nascosto. Uomo libero e laico pensa a se stesso unicamente come cittadino di Francia, E come cittadino francese è entrato nella Resistenza, con il suo sorriso arguto, la sua intelligenza, i suoi occhiali tondi da intellettuale, la sua passione per l’ordine e l’organizzazione. E tutto ha messo al servizio della Resistenza, rinviando al futuro, a quando potrà tornare al suo amato mestiere di orco, il prosieguo della “sua” rivoluzione, che sta radicalmente innovando il metodo storico. Diffuso con i numeri della rivista Les annales, sperimentato nei suoi lavori sul mondo medievale, il suo metodo ha sepolto la storia di re e condottieri, trasformando questa disciplina, ora collocata all’incrocio di mille altre, in storia di uomini e tecniche, attrezzi, lavori, fatiche, paure, malattie, convinzioni collettive.
Ora anche il cibo, la medicina, la demografia, l’economia, contribuiscono a spiegare il passato e, al tempo stesso, a scatenare nel tempo presente l’esercizio dello spirito critico. Narbonne ha l’ossessione del tempo, l’ha sempre avuta, e il suo tempo vuole impiegarlo bene. Come a Strasburgo, a Parigi, nella casa delle vacanze a Fougeres, lavorava l’intera giornata, raggiungendo Simone e i figli solo per i pasti e il caffè. Con lo stesso animo curioso e lieto di chi svolge un’attività che ama, ora promuove incontri, partecipa a riunioni, pericolosamente si sposta a Parigi, mette a punto i complicati ingranaggi dell’amministrazione sotterranea dei maquis, della propaganda, della stampa, dei sabotaggi, degli attentati.
Narbonne imbuca la lettera per Simone, l’amore della sua vita, la prima a leggerne i testi e affettuosamente a batterli a macchina. Narbonne è sul ponte. Una macchina accosta: è la Gestapo. Narbonne è preso. La stampa collaborazionista esulta e scrive: “catturato l’ebreo a capo dei terroristi”.
A Marc Bloch, insigne storico, nome di copertura Narbonne, restano tre mesi. Sarà interrogato e torturato nel carcere di Montluc. Il 16 giugno, con altri 30 resistenti, sarà scaricato da un camion nazista nella campagna di Saint-Didier-de-Formans e falciato a colpi d’arma da fuoco in una carneficina che solo una inspiegabile cortesia definirebbe come fucilazione.
Una leggenda vuole che prima di morire abbia gridato Vive la France!. Marc Bloch però ci ha insegnato a diffidare, e insegnato che la storia può essere tale solo in presenza di prove certe. Così, tutto quello che sappiamo è che Marc Bloch cadde a terrà e morì. Saranno alcune foto della polizia giudiziaria a consentirne il riconoscimento. Le truppe anglo-americane erano sbarcate da dieci giorni in Normandia. Simone gli sarebbe sopravvissuta per diciassette giorni.
Annalisa Alessio comitato provinciale Anpi Pavia
Pubblicato lunedì 21 Giugno 2021
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