Se ne è andata Juliette Gréco. Jujube, come lei ha sempre preferito chiamarsi, o Toutoute, il soprannome che le davano in famiglia, quello che in Aquitania si riserva all’ultima nata.
Se ne è andata all’età di 93 anni. Ad annunciarlo, in un messaggio trasmesso all’agenzia France Presse, è stata la famiglia. “Juliette Gréco – si legge – si è spenta questo mercoledì 23 settembre 2020, circondata dai suoi cari nella amatissima casa di Ramatuelle”.
Così, ci ha lasciati la voce icona della canzone francese. La voce femminile carica di sconcertante sensualità. La musa ispiratrice dei poeti esistenzialisti e dei cantautori che hanno fatto a gara per scriverle testi. Raymond Queneau, Georges Brassens, Jacques Prévert, Serge Gainsbourg, Léo Ferré, per dirne alcuni. Con loro è nata la canzone d’autore, l’invenzione della parola poetica messa in musica. Per parlare delle cose del mondo, della vita nella quotidianità, degli amori tristi e veri. Solo lei poteva, con la sua voce autentica, vissuta, con la sua storia intrisa di sofferenze e traumi.
Se ne è andata colei che ha incarnato lo spirito di Saint Germain des Pres, il quartiere parigino dove giovani artisti hanno cambiato il mondo disseminandolo di arte rivoluzionaria. Incontrandosi ogni giorno nei locali come il Cafè de Flore o Les Deux Margot. Jacques Prévert, Pablo Picasso, Maurice Merleau-Ponty, Albert Camus, Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir. E Juliette, con la sua voglia di libertà dopo il dramma della guerra, con la voce scura e profonda mai sentita prima, con la gestualità da far vibrare il corpo come in una danza sconosciuta. Scandalosamente trasgressiva. Censurata per l’immagine seducente e disturbante.
Una dea, stretta nei suoi abiti neri, iconica nel suo caschetto spettinato, il volto pallido di chi si abbronza alla luna (come disse Picasso), gli occhi come gioielli incastonati in un contorno nero a cloisonné.
“Con i miei pantaloni neri – ha raccontato nella sua autobiografia –, i capelli lunghi e trasandati, gli occhi truccati di nero e la bocca nuda, la gente mi rivolge sguardi stupefatti, sorpresa dalla mia stravaganza e dal mio aspetto provocatorio”.
Censurata per la forza di una personalità antifascista, ribelle, consapevole, enigmatica. Ma nulla di costruito, Juliette è sempre stata solo se stessa.
Da bambina è stata la figlia rinnegata, la bambina abbandonata e rifiutata da una madre che le ha preferito l’indipendenza, gli studi d’arte, la politica, gli amori da inseguire. “Sei il frutto di uno stupro” – le diceva – Sei una trovatella”.
Da adolescente è stata l’alunna problematica, perennemente estranea al mondo scolastico. Niente l’ha mai interessata. Fino all’arrivo dell’insegnante di letteratura Hélène Duc che le ha svelato la bellezza della lettura, l’arte della recitazione, la magia del teatro. Una porta le si è aperta e Juliette l’ha attraversata, percorrendo la strada che si è rivelata sua.
Negli anni della seconda guerra mondiale è stata la vittima che ha sopportato le persecuzioni e le vessazioni dalla Gestapo del Kommandantur di Périgueux, rinchiusa nel carcere di Fresnes a subire la brutalità della perquisizione, la violenza della segregazione, l’isolamento. E la solitudine di chi solo alla fine di un lungo incubo riabbraccia una sorella, Charlotte, tornata miracolosamente viva dal campo di concentramento di Ravensbrück. E una madre che, nuovamente, preferisce andarsene.
Dopo la guerra è stata la giovane resistente, la militante del partito comunista francese. Che ha creduto saldamente nei valori e nelle idee di chi stava dalla parte degli ultimi. Che ha lottato per i poveri derelitti, per i diversi, per gli emarginati. Che ha prestato la sua voce alle cause più nobili.
Diva magnetica e carismatica, ma con le radici ben piantate nel fondo della realtà più cruda. Forte di questa personalità forgiata dalla vita ha affascinato il mondo intero dai palcoscenici più prestigiosi e dalle reti televisive che hanno trasmesso i film e gli sceneggiati che l’hanno resa celebre. Come Belfagor, nel 1965.
Emblema di emancipazione femminile, con i suoi amori intriganti (tra tutti quello con il trombettista Miles Davis) e il coraggio di affermare la propria diversità, l’archetipo di donna moderna, sempre troppo avanti, si è imposta con la sua immagine provocatoria e scandalosa.
E con la voce inusitata, con la quale ha affrontato temi irriverenti, contrari alla morale del tempo, a favore del riscatto e del rinnovamento sociale.
Un’autorevolezza conquistata con la forza ipnotica della presenza scenica, con il carattere e il valore delle idee. Senza mai smettere di lottare contro ogni emarginazione e ingiustizia. “Sono quella che sfila per le strade per sostenere gli omosessuali – ha scritto –. Quella che si fa sputare addosso dagli intolleranti, da chi perpetua le discriminazioni”.
E in questi tempi così degradati, di violenza e di indifferenza verso il prossimo, perdere anche lei non può che renderci tutti tanto più tristemente abbandonati.
Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato giovedì 24 Settembre 2020
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