Al principio, è un ragazzo di 15 anni che il martedì e il venerdì frequenta la “scuola di propaganda” organizzata a Cremona dal partito socialista. Si chiama Ferruccio, ultimo dei quattro figli di un agricoltore e di una maestra, originari di Casalbuttano. È il 1914: tutto quello che, studiando, ha capito, adesso, Ferruccio lo scrive con impeto, giovanissimo redattore dell’artigianale periodico socialista e antimilitarista Lo studente. E quello che ha capito, studiando, ora, in ogni sede e in ogni riunione di partito, Ferruccio lo va affermando con una lucidità che presto lo renderà leader dei giovani socialisti cremonesi, già in lotta con la vecchia guardia del remissivo partito di Turati.
Forse, ottobre 1917, Ferruccio ha camminato a lungo nella nebbia della sua pianura; forse è già notte fonda quando, posato il libro prediletto “La madre” di Gorkij, di getto, prima che la prossima chiamata alla leva militare gli strappi di mano la penna, scrive ad un compagno la sua gioia : “…il meraviglioso popolo russo che sembrava stanco di rivoluzione e pago di una repubblica borghese ha cominciato la sua vera rivoluzione sociale e sta realizzando i postulati del socialismo”.
Per questa lettera, e per la sua, pur breve, storia militante, certo, Ferruccio non è ben visto alla Scuola Ufficiali del 61° reggimento fanteria Carignano di Parma, che inizia a frequentare nel cruciale novembre 1917. E le gerarchie militari della Scuola Allievi ufficiali di Modena, cui accede nell’ultimo anno di guerra, saranno ancora più crude: Ferruccio non conclude il corso, viene rimosso dai gradi perché giudicato “bolscevico sovversivo” e, sotto severa sorveglianza, viene assegnato al 112 ° Reggimento fanteria. Qualifica: aiutante di sanità.
Si, perché Ferruccio studia medicina nel prestigioso collegio Ghislieri di Pavia che gli ha aperto le porte grazie ad una borsa di studio riservata agli allievi meno abbienti. Ed è al Collegio Ghislieri che, a guerra finita, Ferruccio ritorna.
In questa città che lo ha accolto, studente fuori sede, Ferruccio senza più darsi tregua riprende la lotta politica del dopoguerra, che sembra battere il tempo di una imminente rivoluzione, con l’immenso sviluppo delle organizzazioni economiche e associative socialiste, il fragore delle masse in marcia per il dimezzamento del prezzo del pane, il serrato pattugliamento sui sentieri delle campagne dei capi lega socialisti a sostegno dei contadini in sciopero – nel solo mese di marzo 1920, la Lomellina bracciantile incrocerà le braccia per 50 ore – e lo sventolio delle bandiere sulle fabbriche occupate dagli operai che conoscono bene il nome di Lenin e rivendicano a sé il modello dei soviet.
“O con Lenin o con Turati”, scrive Ferruccio su Vedetta rossa, organo della federazione giovanile socialista. Lui, la sua scelta l’ha fatta, convinto che sia necessario costruire subito un nuovo partito d’avanguardia per portare a compimento una lotta che cambi radicalmente l’assetto statale, metta fine allo sfruttamento e realizzi una società senza classi. Sono i giorni della battaglia congressuale che prelude la scissione del gennaio 1921, e Ferruccio, fittamente, tiene incontri, comizi, riunioni, trascina con sé i giovani socialisti, e scrive, scrive incessantemente. Scrive soprattutto: “le fabbriche che erano diventate fortezze nelle mani degli operai tornano di nuovo nelle mani dei padroni. Quelle armi che erano nostre e che noi impugnavamo le impugnerà un giorno forse la borghesia contro di noi”.
Il suo non è l’oscuro presagio del prossimo avvento del fascismo, ma l’atto di accusa senza appello ai dirigenti socialisti, imputati di aver disperso l’occasione di uno sbocco rivoluzionario, frantumando nei rivoli delle sole rivendicazioni economiche le occupazioni operaie e le lotte contadine.
Tutte interne allo scenario della lotta politica congressuale, le riflessioni di Ferruccio Ghinaglia non sembrano cogliere la portata della minaccia fascista, i cui uomini invece stanno per passare il fiume, preparandosi a far fuori in lui il primo dirigente pavese del partito nato a Livorno.
Eccoli: sono quattro. Hanno passato il ponte coperto sul fiume Ticino e vengono avanti, in direzione del centro. Ferruccio cammina con altri compagni verso la cooperativa di Borgo Ticino dove è atteso per una riunione. Cammina, e sta per essere ammazzato. È il 21 aprile 1921.
Dopo l’assassinio del primo segretario comunista pavese, la costruzione della pax sociale fascista nello stesso anno, chiede anche la testa del capolega di Tromello, Giovanni Salvadeo fatto fuori a mazzate sulla soglia di casa, e, l’anno successivo, di Eliseo Davagnini, socialista, ucciso nell’assalto alla cooperativa di Mezzano di San Martino.
Eccoli hanno vinto: sono quelli del manganello, e dell’olio di ricino, che hanno a proprio simbolo le bombe a mano Sipe e gli ordigni Thévenot. Quelli che, per mano del colonnello in pensione Silvio Magnaghi e del dottore in giurisprudenza Luigi Lanfranconi, febbraio 1921, hanno siglato l’accordo con le associazioni padronali agrarie, che versano 4 lire la pertica a beneficio delle squadre nere.
Annalisa Alessio, vicepresidente Comitato provinciale Anpi Pavia
In prossimità del centenario dell’assassinio di Ferruccio Ghinaglia, l’Anpi ha riedito i suoi scritti con prefazione di Luca Casarotti
Pubblicato martedì 1 Dicembre 2020
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