Ma la morte di Willy è stata vana?
È l’interrogativo non scritto che, pure, innerva di sé tante delle lettere che, accecato dal dolore, Giorgio Agosti, unico sopravvissuto dei cinque componenti del comitato militare resistente del Partito di Azione, scrive per anni a Lucilla Rochat Jervis, vedova del compagno di lotta tra i più cari, fucilato il 5 agosto 1944 a Villar Pellice, nel torinese; appeso post mortem al palo della luce della piazza, perché la esposizione del suo cadavere, irriconoscibile agli occhi della sua stessa sorella Laura, rinsaldando il patto di sangue tra i carnefici, fosse di monito a chiunque passasse.
Mentre la domanda non scritta ci scava dentro e, a sua volta, sollecita altre domande e altre direzioni di ricerca, vogliamo, almeno, riconsegnare al presente la storia di Willy Jervis, sottraendola al revisionismo degli animi che, non raramente riprodotto anche nelle istituzioni, una seconda volta sotterra i partigiani e livella i morti “tutti ugualmente vittime inutili di una inutile guerra civile” (cit. Giorgio Agosti 3 novembre 1947).
Eccolo Willy in una fotografia: è un ottimo alpinista e un grande camminatore.
Dalla montagna ha imparato il modo degno di vivere: praticare il sentiero con la schiena dritta, conoscendone la necessità e la fatica; lottare per le proprie idee con modestia d’animo, senza lasciarsi fiaccare dalla solitudine.
Da conoscitore della montagna, Willy, partigiano della V divisione Giustizia e Libertà Sergio Toia, assume su sé prima il compito di accompagnare in Svizzera alcuni ex prigionieri; poi, sempre più coinvolto nella Resistenza, di ricercare i contatti per organizzare i primi lanci alleati nelle valli valdesi e di mantenere salda la rete dei rapporti tra le bande partigiane che qui trovano il terreno fertile di una “secolare tradizione di lotta armata per la libertà” (cit. Antonio Prearo, comandante partigiano in Val Pellice, in “Terra Ribelle” ed. Claudiana).
Solitariamente e pericolosamente, il partigiano Jervis, dal 1934 ingegnere alla Olivetti di Ivrea, cammina, cammina e cammina: i sentieri della Val Chisone, della Val Pellice, della Val Germanasca sono quelli percorsi dai suoi “padri lontani”, quei valdesi irriducibilmente e convintamente eretici, anticipatori della riforma luterana, mai sottomessi alla autorità della chiesa di Roma, che, giunti migranti dalla Francia in queste valli, per otto secoli vennero perseguitati, lasciando – anni 1686-87 – 9.000 morti tra i propri 14.000 prigionieri (cit. Henry Arnaud, “Storia del grande rimpatrio”, ed. Claudiana) nelle carceri dei Savoia e della monarchia di Luigi XIV, braccia secolari della Controriforma papista.
Cammina, il partigiano Jervis, nelle valli dove il culto evangelico di Arnaud [1] intrecciato alla lunga esperienza della guerriglia valdese, è vivo nelle coscienze e nella lapide che, nel bosco di Odin, in Valle Angrogna, reca la scritta “qui rivive lo spirito eroico dei padri che pregando soffrirono e morirono per la libertà di coscienza”.
Eccolo il partigiano Jervis: pedala, deve arrivare a Torino alla casa di Ada Gobetti, deve incontrare Paolo Braccini del comando militare piemontese di GL – intanto il primo lancio alleato è avvenuto il primo febbraio ’44 a Rorà, parola d’ordine “saluti da Bernardo”.
Eccolo il partigiano Jervis: cammina sul sentiero verso la Vacera, Praly, il Col della Gianna, Pra del Torno e il Bagnou dove, tra i partigiani, c’è Jacopo Lombardini, istitutore del Convitto valdese di Torre Pellice [2].
Cammina il partigiano Jervis: lo abita un mite pudore nella dimostrazione degli affetti [3], una lucida accettazione del rischio per fare il proprio dovere di uomo libero, cresciuto alla scuola della fede valdese, che, da sempre invisa ad ogni ossequio servile verso il potere, eternamente afferma “la libertà dell’idea sulla forza bruta della materia” (cit. Giorgio Agosti a Lucilla Rochat Jervis, 25 novembre 1948).
Cammina il partigiano Jervis: progetta le uscite della stampa clandestina, porta messaggi, porta esplosivi, lui che, negli anni Trenta, con un gruppo di giovani valdesi, aveva studiato Karl Barth, declinando il pensiero del grande teologo fino alla scelta militante nella Resistenza europea antifascista.
Non sappiamo dove trovasse riposo, ma sappiamo che un oggetto lo conservò sino alla fucilazione, e fu anzi il tramite per riconoscerne il cadavere: una piccola Bibbia con la copertina nera.
Non sappiamo i suoi sogni e non conosciamo i suoi incubi, ma sappiamo che l’11 marzo ’44 sta percorrendo in moto la strada da Torino verso Torre Pellice, la “Ginevra italiana” dove, dal novembre ’43, abbandonata la casa di Ivrea, vive la sua Lucilla con i bambini, e dove, al principio della lotta partigiana, si sono dati raduno i dirigenti del Partito d’Azione.
Eccolo il partigiano Jervis: è all’altezza del ponte di Bibiana e sono le 9.30 del mattino.
Non sappiamo perché stia dirigendosi verso Torre Pellice, quando era atteso a Torino, ma sappiamo che viene fermato al posto di blocco e sappiamo anche che ad operare l’arresto sono i militi delle SS italiane comandante dal capitano Arturo del Dosso e dal tenente Francesco Malanga, i primi a inferire sul suo corpo prima del trasporto nel braccio tedesco delle Carceri Nuove di Torino dove sarà iscritto con il numero 1.128.
Dalle lettere dal carcere, scritte sul retro delle lettere inviategli ogni mercoledì da Lucilla, ogni giorno e ogni notte vivendo la propria morte, sappiamo che il partigiano Jervis soffriva di insonnia, che assumeva tre pastiglie di Sonoril (un sonnifero procuratogli da Lucilla), che la minestra del carcere duro lo faceva stare male, che, a volte, gli pareva di impazzire, e che per scrivere usava una matita nera.
Quando – e sa che il passo sta per compiersi – non ha più nulla per scrivere usa uno spillo o una piccola punta per incidere in lettere maiuscole le proprie parole a Lucilla: “RICORDAMI AGLI AMICI NON CORONE O FUNERALI”
Così, noi, non poseremo corone, né il giorno della Liberazione né alla tomba di Willy nel cimitero di Villar, vicino al luogo dell’esecuzione.
Abbiamo da riprendere il sentiero e lo studio, un passo dopo l’altro, una pagina dopo l’altra, sapendo la necessità, la solitudine, la fatica.
Annalisa Alessio, vice presidente Comitato provinciale Anpi Pavia
1) Herny Arnaud: pastore valdese (1641-1721), organizzatore e comandante della spedizione valdese detta “grande rimpatrio” del 1689, che vide la guerriglia dei valdesi esuli nella Svizzera riformata per riconquistare le Valli.
2) Jacopo Lombardini (1892-1945), commissario V divisione alpina Sergio Toia, catturato il 24 aprile 1944 a Bobbio Pellice, a qualche chilometro da Torre Pellice e da Villar Pellice, luogo dell’esecuzione di Jervis. Deportato e ucciso a Mauthausen il 24 aprile 1945.
3): “Quante cose vorrei dirti, tu sai il mio amore per te e per i bimbi, vorrei che tu non portassi il lutto” (parole incise sul biglietto insanguinato ritrovato sotto la camicia di Willy dopo la fucilazione).
Pubblicato venerdì 12 Luglio 2019
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