La generazione di Massimo Gizzio era nata sotto il fascismo, tra la roboante propaganda, le leggi razziali e la guerra. La sua maturazione e quella di molti giovani fu vissuta a cominciare da una iniziale emulazione acritica dei modelli proposti dalla “scuola dei balilla” per arrivare al rifiuto definitivo di una dittatura che implicava inesorabilmente la costante umiliazione della propria intelligenza e delle proprie capacità ed inclinazioni spontanee. La rivendicazione del diritto alla libertà di critica e della dignità della propria intelligenza sfociò in un irresistibile desiderio e ricerca di libertà anche politica (totalmente sconosciuta per quell’intera generazione nata sotto la cappa del regime mussoliniano). A partire dall’8 settembre, ragazzi e ragazzini sono tra i primi ad avvertire irresistibilmente la necessità e l’orgoglio di riscattare l’onore nazionale perduto con la vile e vergognosa fuga del re e dei vertici militari, che avevano di fatto consegnato la patria alle truppe degli occupatori tedeschi. E in Massimo crebbe un desiderio insopprimibile di contribuire in prima persona alla costruzione di un futuro vivibile.
Il padre di Massimo Gizzio era avvocato, già giovanissimo ed entusiasta “patriota” arruolatosi durante la prima guerra mondiale. La madre, una delle prime laureate donne in un’Italia che pensava a ruoli, per le donne, dominati da cliché antimoderni, aveva frequentato il liceo tedesco. Si convertì dall’ebraismo al cristianesimo. La padronanza delle lingue (tedesco e francese) era stata trasmessa dalla madre a tutti i figli. In famiglia, in altre parole, si respirava un’insolita cultura cosmopolita e di stampo europeo, mentre il fascismo proponeva uno sciovinismo che si traduceva, di fatto, in provincialismo, chiusura e arretratezza culturale.
La personalità brillante e ricettiva di Massimo assorbe come una spugna tutte le suggestioni e gli stimoli culturali che incontra e cerca il contatto e la scoperta con ciò che gli è più lontano e sconosciuto. Ha la passione per la filosofia e l’etica. Ama la musica, i concerti e il teatro; frequenta i circoli culturali più progressisti. Lo sviluppo della carriera scolastica sua e dei suoi amici e compagni lo vede sempre più apertamente contestare i professori più asserviti al regime e incapaci di fornire vera formazione intellettuale, ripiegando piuttosto su una triste propaganda di valori vuoti.
Il desiderio di Massimo di uscire al più presto dalla soffocante e asfittica atmosfera del liceo gli fa maturare l’ambizione di approdare direttamente all’università, attraverso un duro studio in autonomia del programma di due anni in uno e il brillante superamento dell’esame di maturità da privatista. S’iscrive a Giurisprudenza. Si adopera presso la Comunità di San Vincenzo nella chiesa di San Bellarmino per i poveri e gli svantaggiati con il taglio della barba e il lavaggio dei piedi. Regala i suoi cappotti, le scarpe, denaro che riceveva per sé a chi aveva più bisogno, arrivando a raccontare frottole alla madre. Sottrae i giocattoli alla sorellina più piccola (che si arrabbiava) per regalarli ai troppi figli del portiere.
Approda così «dall’afflato religioso e la sensibilità per gli “ultimi” all’interesse per il proletariato e il desiderio di uscire dal mondo dorato di un quartiere da “privilegiati» (Parioli). L’osservazione amareggiata di marcate stonature nei comportamenti di troppi rappresentanti del clero che rispetta il potere fascista, che incensa una propaganda in contraddizione con qualunque precetto cristiano, che benedice i gagliardetti e la guerra, provoca in lui un altro bruciante disincanto.
Aderisce al Pci clandestino. A diciassette anni è arrestato e condotto nel carcere minorile di Via Sabelli ove fa la conoscenza di Enrico Proietti. Massimo diventa “maestro” di Enrico e dei ragazzi analfabeti di Pietralata. Liberato il 25 luglio, per riprendersi dalla durezza del carcere, si reca ad agosto con la famiglia a Collina, sulla via Porrettana, una strada che conduceva dalla Toscana alla Romagna. Incontra Enrica Ferrari Conti detta “Chiccò”: l’innamoramento è bruciante e inatteso, ma i progetti di vita devono fare i conti con l’infuriare della guerra. Dopo l’8 settembre i due si dividono, Massimo torna a Roma e inizia un carteggio quotidiano tra i due innamorati, lettere sottoposte al controllo poliziesco sulla posta.
Massimo contribuisce alla costruzione di un’agguerrita opposizione al nazifascismo nell’Università, alla convergenza dei movimenti studenteschi e collabora a una raffica di scioperi (dicembre ’43-gennaio ’44).
Lo sbarco ad Anzio degli Alleati lo vede con la madre nelle campagne di Velletri per reperire scorte alimentari e recuperare le zie dalla villa di famiglia. Sotto i bombardamenti i soldati tedeschi bloccano la corriera, Massimo a piedi cerca di raggiungere comunque le zie e sottrarle ai bombardamenti. Cerca di portare aiuto a un soldato tedesco, ma questo gesto viene equivocato; aiutare uno sconosciuto scavando tra le macerie per salvare un ferito rimasto prigioniero sotto il crollo della propria abitazione gli costa caro e gli fa rischiare di fare anche lui la fine del topo.
A Roma intanto la contestazione studentesca all’oppressione nazifascista e al regime si sviluppa ulteriormente e alza la posta propagandosi anche ai licei.
Il 28 gennaio, una giornata umida e fredda, i componenti del comitato studentesco di agitazione si sono organizzati per sospendere i corsi alla facoltà di Architettura e Ingegneria. Dopo essersi riuniti a piazza Santa Maria Maggiore, i manifestanti si dirigono alla vicina scuola di applicazione di Ingegneria in S. Pietro in Vincoli dove, dall’alto della gradinata, Maurizio Ferrara arringa i presenti proponendo una mozione, approvata per acclamazione, con cui si chiede ai professori di sospendere ogni attività di studio per protesta alla tirannia nazifascista e per solidarietà verso tutti coloro che hanno imbracciato i moschetti nella guerriglia agli oppressori.
Il 29 gennaio gli scioperi sono proclamati anche per gli istituti superiori. Anche al liceo Dante Alighieri si protesta. Massimo interviene per verificare la situazione. Lì trova, chiamata dal preside Laudomia, la banda nera “Onore e Combattimento” composta da Massimo Uffreduzzi, Sergio Bertolani, Giorgio De Michele e Carlo Alberto Guida. Senza alcun motivo, gli sparano alle spalle 4 colpi di pistola mentre cammina con passo lento davanti al liceo. È soccorso e portato all’ospedale su un carretto tra l’indifferenza di passanti e automobilisti. Le cure non sono adeguate e la setticemia insorta a causa delle ferite è la causa della morte che avviene l’1 febbraio 1944. Massimo Gizzio non ha neppure compiuto vent’anni. Il funerale alla parrocchia S. Bellarmino sarà proibito dalle autorità. Ma al corteo funebre, partito dall’Istituto di Medicina legale, ci saranno religiosi, insegnanti, studenti e i ragazzi della borgata di Primavalle che riusciranno a farsi fare una corona con la scritta “I Compagni”. Cosa questa vietatissima e punita dal regime.
Finita la guerra, per l’omicidio si muove la Procura di Roma a seguito del rapporto dei carabinieri. Al processo la Corte condanna Uffreduzzi, Bertolani, e Guida a venti anni e otto mesi di carcere, ridotti per effetto di un decreto di condono ad anni 13, mesi nove, e giorni 10 e De Michele a anni 14 ridotti a 9. Poi la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso del Pm, annulla la sentenza impugnata nelle parti in cui è stata esclusa la responsabilità di De Michele nel reato di collaborazionismo. Accoglie altresì il ricorso di tutti gli imputati per mancanza di motivazioni nella volontarietà omicida. E rinvia il nuovo giudizio alla Corte di Assise Sezione Speciale di Napoli. Ma, come informa il giornale Il Buonsenso del 2 agosto 1946, “il Procuratore Generale non ha ritenuto giusta la condanna dell’imputato Giorgio De Michele a soli 9 anni di reclusione pensando che il medesimo doveva ritenersi colpevole anche di collaborazione con il nemico. In consegna alla sua opinione ha proposto ricorso contro la sentenza della Corte d’Assise…”.
Il 3 marzo 1947 viene convocato il nuovo giudizio da tenersi a partire dal 4 giugno. Presenti i genitori di Mimmo, Sofia Levi Gizzio e Attilio Gizzio, la Corte d’Assise di Napoli è chiamata a giudicare i fascisti Uffreduzzi, Bertolani, Guida e De Michele, quali autori identificati dell’assassinio di Gizzio. Il dibattimento prende subito una piega tendente più a dare spazio ai testimoni a discarico e meno a quelli accusatori. La città partenopea, monarchica, non era certo la città giusta per questo processo. Gli avvocati difensori, dichiarano apertamente di essere una fortuna per gli imputati che il processo si svolga in un clima come quello di Napoli. Aggiungono che se il processo si fosse svolto a Genova o Firenze o comunque in una città del nord ben differente è il pericolo corso dagli imputati. Un ruolo controverso e negativo lo ha il Pm Siravo, che vuole rimanere in carica per il processo e ne affretta così tanto i tempi che la convocazione dei genitori di Mimmo viene fatta solo una settimana della udienza.
Un segnale negativo sulla verità giudiziale arriva anche dal ruolo della stampa che chiama Massimo Gizzio Erminio o Erasmo Gizzio ebreo romano. Su richiesta della famiglia nessun giornale pubblica la smentita.
Il clima dell’aula processuale è manipolato dalla folta presenza degli amici e dei parenti degli assassini, che rumoreggiano e guardano con modi di sfida i genitori di Massimo e gli avvocati di questi. Solo la sentenza fa un certo scalpore, soprattutto nei giornali della capitale. Sorprendente il fatto che la Corte, pur avendo appurato le responsabilità degli imputati, li assolve in blocco. Non è condannato neppure il riconosciuto esecutore materiale dell’omicidio in quanto, secondo la sentenza, “… anche lui studente risentiva del clima arroventato della guerra…”.
La mamma di Mimmo si rivolge al presidente della Corte: “Si è voluto dire che gli ordini sono di clemenza per sedare le lotte tra gli italiani e forse tale era l’intenzione dell’assurdo decreto di amnistia; ma non clemenza quando si è ucciso senza ragione e senza provocazione. Come si spiega allora che proprio nei giorni in cui gli assassini di mio figlio venivano liberati, gli esecutori materiali della fucilazione militare di Francesco Fagà (partigiano, sergente maggiore paracadutista, ndr) venivano condannati a Roma a 24 anni di reclusione e mezzo milione di risarcimento alla parte civile? Perché la giustizia deve avere due pesi e due misure? Non è questa la giustizia che ci avevano lungamente insegnato nella nostra giovinezza, non quella per la quale Massimo Gizzio è morto”.
Felice Cipriani, scrittore della Memoria
Pubblicato martedì 28 Gennaio 2020
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