10 agosto 1944, ore 5,45. Un autocarro tedesco frena di botto e scarica giù 15 uomini in tuta da lavoro. Fa appena giorno a Milano e piazzale Loreto è quasi un deserto. Su un lato della grande spianata circondata dai palazzi, un pugno di militi della Brigata Nera “Aldo Resega” sorveglia le vie d’accesso. Altri uomini, italiani, fascisti della GNR e della Legione “Ettore Muti” attendono di compiere lo sporco lavoro che gli è stato affidato. I prigionieri stanno fermi, in fila, davanti alle armi. La voce del capitano Pasquale Cardella, che comanda il plotone della “Muti”, urla parole di morte. Poi, un ordine secco mette in moto i quindici uomini, velocemente. Con uno scatto improvviso, prima uno e poi un altro cercano scampo. Un portone spalancato, un angolo da svoltare. Due raffiche e pochi metri di vita. Il resto della fila si sbanda, forma una curva, c’è una staccionata. Fermi così! Fermi lì! Colpi, colpi, e anche quei corpi muoiono a terra.

Lì, tutti insieme… Trascinate nel mucchio quegli altri due. Grida di ebbrezza, risate rabbiose. Un cartello: QUESTI SONO I GAP SQUADRE ARMATE PARTIGIANE ASSASSINI. Lì. Fino a sera. State di guardia. Nessuno li muova. Nessuno li tocchi. Niente fiori, nemmeno candele. Tutti li vedano, tutti devono guardare. Che imparino tutti.

La strage è portata a compimento dopo nemmeno quarantotto ore dalle esplosioni che, la mattina dell’8 agosto, nel tratto di viale Abruzzi che conduce a piazzale Loreto, hanno fatto saltare in aria un camion tedesco, provocando il lieve ferimento dell’autista e la morte di diversi passanti. Tutti italiani.

Malgrado la pattuglia della Wehrmacht non avesse riportato perdite, che avrebbero comportato l’applicazione del bando Kesselring “10 italiani per un tedesco”, l’ordine della rappresaglia arriva. Perché Theodor Emil Saevecke, capitano delle SS, comandante per la Lombardia della SIPO-SD (Polizia e Servizio di sicurezza), va oltre quella legge già così feroce?

Theodor Emil Saevecke, il boia di piazzale Loreto

La Milano dell’estate del ’44 vive da quasi un anno sotto il governo fantoccio della RSI e l’occupazione tedesca. In quei dieci mesi non è rimasta a guardare. Nelle fabbriche gli operai sono arrivati a scioperare, le donne hanno liberato dai treni piombati alcuni rastrellati destinati ai campi di concentramento, è stato costituito il CLN. In città, i GAP sono attivissimi. Ma le modalità di quell’attentato sono inconsuete.

I Gruppi di Azione Patriottica hanno obiettivi precisi, mirati: il gerarca, il collaborazionista, il delatore. Quando vogliono colpire colonne tedesche, cercano di farlo salvaguardando il più possibile la vita dei civili. E, soprattutto, non possiedono i congegni a orologeria utilizzati per i due scoppi a distanza di tempo in viale Abruzzi.

Con gli occhi di oggi, un attentato più somigliante alle stragi in Iraq che alle azioni praticate dai GAP. Oltre che per la vicinanza col luogo dell’attentato, la scelta di compiere la ritorsione e allestire la macabra esposizione in piazzale Loreto fu emblematica.

Snodo fondamentale della rete dei trasporti milanesi, la grande piazza era percorsa dalle linee tranviarie che collegavano il centro della città alle periferie dei grandi insediamenti industriali. Al sabato, giorno di paga della quindicina, sotto le pensiline dei tram e tutto attorno ai binari si improvvisava un mercatino dove gli operai usavano rifornirsi di generi di prima necessità. Una sorta di bazar in cui già faceva la sua comparsa una moltitudine di ambulanti cinesi che sciorinavano da grosse valigie le caratteristiche e sgargianti “due clavatte, una lila”.

Un punto di passaggio e di ritrovo, dunque, che avrebbe assicurato, nell’intento dei nazifascisti, la massima visibilità ed efficacia all’agghiacciante schiaffo d’intimidazione ai lavoratori, agli antifascisti e ai cittadini di Milano. Con la strategia del “terrore” i tedeschi confidavano di annichilire una volta per tutte ogni forma di resistenza, ma non fu mai così.

Nel 1945, a piazzale Loreto finiranno poi i corpi di Mussolini, della Petacci e di tutti gli uomini del governo fascista.

Sergio Temolo: «Mio padre operaio comunista alla Bicocca»

Giuseppe Garibaldi, Annita, Giordano, Bruno, Progresso, Eugenio (come Delacroix, il pittore de La Libertà che guida il popolo), sono i nomi di battesimo della famiglia Temolo all’inizio del XX secolo. Tra loro c’è anche Libero.

«Mio nonno era socialista – racconta oggi Sergio, 76 anni – e ad ogni nuova nascita ingaggiava un duello col parroco del paese per riuscire a incarnare nei nomi dei figli i suoi ideali». Il cognome Temolo, invece, proviene da un pesce tipico dei corsi d’acqua della Val Padana ed era stato imposto al capostipite trovatello dai frati, che si ispiravano ai nomi delle creature di Dio.

Orefici e proprietari di un forno ad Arzignano, in provincia di Vicenza, i Temolo subiscono un tracollo nel corso del ventennio.

Tutti sanno che sono antifascisti e dare il pane a credito ai contadini poverissimi della zona di certo non aiuta l’impresa familiare. «Qualche tempo dopo la mia nascita, papà partì per raggiungere uno dei suoi fratelli a Milano. Io rimasi al paese con gli zii, perché la famiglia di mia mamma non acconsentì al matrimonio», ricorda Sergio. È la prima metà degli Anni 30, tradizione familiare e primi contatti con militanti comunisti dei circoli locali hanno già formato la coscienza politica di Libero Temolo.

Stabilitosi in città, entra alla Pirelli nello stabilimento Bicocca. Dapprima è assegnato al reparto mescole, poi diventa operaio specializzato addetto alla manutenzione. Il nuovo ruolo gli consente di spostarsi liberamente e di mantenere i contatti fra i vari comparti: è il punto di riferimento del partito comunista clandestino all’interno della fabbrica.

«Compiuti sei anni andai finalmente a vivere a Milano, con mio padre e la sua nuova compagna», continua Sergio Temolo.

Come capita spesso, i rapporti con la matrigna non sono idilliaci e tra papà e figlioletto si instaura un sentimento di affetto esclusivo e stretta complicità. «Mi raccontava le storie dei libri che leggeva: i Paralipomeni della Batracomiomachia di Leopardi, le Memorie di Garibaldi, i Princìpi della filosofia dell’avvenire di Feuerbach. Era anche abbonato a La difesa della razza e a volte acquistava L’Osservatore romano: “Per avere qualche notizia dal mondo”, mi spiegava. E poi mi insegnava le canzoni di lotta, raccomandandomi di non farmi mai sentire da nessuno». Una volta il piccolo Sergio pronuncia ad alta voce le parole “cellula comunista”. «Papà si spaventò del fatto che potessi averle udite da lui, poi si tranquillizzò scoprendo che le avevo lette nel romanzo Addio Kira!, che allora andava di moda ed era consentito leggere perché criticava l’Unione Sovietica».

Negli anni del conflitto l’azione contro il regime si intensifica: Libero Temolo distribuisce clandestinamente materiale di propaganda, è tra gli organizzatori degli scioperi alla Pirelli, si mantiene in contatto con le SAP (Squadre di Azione Patriottica), in particolare col suo amico partigiano Alessio Lamprati “Nino”.

«A quei tempi si cresceva in fretta: gli orrori della guerra, i bombardamenti, i rastrellamenti ti aprivano gli occhi sulla vita, anche se eri solo un ragazzino. A me piaceva agire anche un po’ per spirito di avventura, oltre che per stare sempre al fianco di mio padre». Di sera, dopo il lavoro, Libero nascondeva messaggi e ciclostilati sotto gli abiti di Sergio e, insieme, prima del coprifuoco, li portavano a destinazione. «Ufficialmente uscivamo per andare a provare il mio abito nuovo a casa di “Nino”, che di copertura faceva il sarto. Per prudenza papà camminava sempre a qualche metro da me e, se qualcuno lo fermava, sapevo che dovevo fare un giro largo e tornarmene a casa. Andò sempre tutto bene. Quel vestito per me non fu mai tagliato».

Libero viene arrestato il 20 aprile del ‘44, all’uscita dalla fabbrica: «Di solito, quando ai cancelli si notavano macchine sospette, correva voce all’interno dello stabilimento e chi aveva qualcosa da temere usciva scavalcando i muri di cinta. Quella volta, purtroppo, nessuno avvisò. Qualche collega, interrogato duramente, doveva aver fatto il nome di mio padre, perché cercavano proprio lui. Me la ricordo bene la sera che non tornò a casa. Non l’ho rivisto mai più». Libero era da tempo nel mirino, secondo i colleghi di lavoro si era esposto troppo. «Ma cosa doveva fare mio padre? Organizzare gli scioperi e poi tirarsi indietro di fronte al rischio? Che esempio avrebbe dato? Tutti, logicamente, aspettavano che a muoversi fosse lui».

Durante i mesi della carcerazione a San Vittore, Libero, promosso spazzino, continua a darsi da fare portando notizie e mantenendo i contatti tra i reclusi. Sergio, invece, è rispedito dai parenti al paese. «Ad agosto, ebbi il sentore che fosse successo qualcosa. Avevo percepito dei bisbigli al bar, e prima una mia cuginetta, poi il prete, cercarono di parlarmi. Ma non trovarono la forza di arrivare in fondo. In autunno inoltrato tornai a Milano, accompagnato da un conoscente. Dopo un lungo viaggio in camion, camminavamo a piedi verso casa mia e, svoltato un angolo, quell’uomo mi disse: “Vedi, è lì che hanno ammazzato tuo padre”. Era Piazzale Loreto, quasi buio e faceva freddo, ma serrai le lacrime».

Alla Liberazione, a Milano, c’è anche Sergio, ormai quindicenne: «Di quella giornata assolata mi è rimasto impresso in maniera indelebile un odore particolare. Ero suggestionato al punto da credere che provenisse dal sangue dei morti, invece ho capito dopo che era solo un fortissimo aroma di benzina, insolito per quei tempi». La città è in fermento: gli ultimi automezzi tedeschi, i presídi partigiani, i tribunali del popolo, tante armi. «Non ricordo quelle ore con gioia. Durante un comizio, sotto casa mia, coprirono la targa della strada ribattezzandola come via Libero Temolo. Era un riconoscimento alla memoria di mio padre, ma me ne andai perché non volevo soffrire». A piazzale Loreto, nell’albergo Titanus, sede del comando militare tedesco, ci sono ancora fascisti asserragliati che sparano. «Il 29 aprile si sparse subito la voce che avevano portato proprio lì Mussolini. Ero assieme a Franco Loi, mio inseparabile amico di strada che poi è diventato uno dei maggiori poeti dialettali milanesi del Novecento.

Quando entrammo, la piazza era già piena di gente e i corpi erano ancora a terra. Salimmo sulle macerie di un palazzo ed osservammo tutta la scena da quella posizione privilegiata». La foga della folla e i partigiani che faticano a trattenerla, i calci e gli sputi, gli idranti sfiatati che servirono solo a lavare un po’ il sangue. «Si dice spesso che si è trattato di un atto di oltraggio, ma non fu così: la decisione di issare i cadaveri fu presa per evitare che fossero travolti, qualcuno voleva addirittura sparare per disperdere la folla. Riflettendoci oggi penso che forse era meglio non portarceli. Quel giorno, invece, ero solo un ragazzo. Assistevo alla vendetta per la morte di mio padre e non provavo nessuna soddisfazione».

Sergio Fogagnolo: «Lui era ingegnere elettrotecnico alla Marelli»

Umberto Fogagnolo, ingegnere alla Marelli, alla caduta del fascismo intuisce che bisogna muoversi subito, anche per preparare la difesa delle fabbriche. Dopo l’armistizio, in contatto con il “Colonnello” Alonzi, stretto collaboratore di Ferruccio Parri, entra nel CLN di Sesto San Giovanni per il Partito d’Azione. L’ingegner “Bianchi” collabora ai piani di liberazione dei prigionieri politici ed è il cervello di moltissime azioni di sabotaggio. Per la scelta di obiettivi strategici è consultato dalle formazioni partigiane di montagna, il suo parere è decisivo. Sergio Fogagnolo, secondogenito di Umberto, spiega: «Venne chiamato a valutare l’ipotesi di far saltare la diga di una centrale idroelettrica.

Quella corrente riforniva gran parte della città di Milano e un sabotaggio avrebbe messo in grave difficoltà i tedeschi. Ma mio padre bocciò risolutamente quell’operazione perché pensava anche al dopo. Quanto sarebbe costato, in tempo e danaro, ricostruire un impianto del genere?».

È fermato una prima volta a Milano quando, nell’ottobre del ‘43, interviene per difendere un operaio aggredito dai fascisti della “Muti”. Alla Marelli aiuta le persone con cui lavora: guarda alle capacità e alla serietà, ha una concezione moderna e democratica della fabbrica in un tempo in cui pesa fortissima la distinzione in classi. «Lo dimostrano tutte le testimonianze che ho raccolto in questi anni – dice Sergio Fogagnolo –. Aveva un fattorino quindicenne, Bruno, lo spronò a diplomarsi e quando fu richiamato dalla RSI lo aiutò a fuggire in Svizzera». Con Giulio Casiraghi, operaio comunista che ha conosciuto anni di confino, organizza gli scioperi del marzo 1944. Tra i due c’è stima, rispetto e grande amicizia anche se l’ingegnere e l’operaio, formalmente, si davano del lei. Moriranno insieme, a piazzale Loreto.

L’ingegnere viene arrestato a luglio. Trentatré anni, sposato, tre figli piccolissimi, è incarcerato nel famigerato 5° raggio a San Vittore e torturato più volte. «Quando lo hanno ucciso avevo solo due anni e mezzo – racconta ancora Sergio –. Mia madre ce lo ha fatto amare attraverso gli ideali e i valori per cui aveva combattuto, soprattutto la passione per lo studio e l’importanza dell’impegno civile».

Sergio è privo di un magazzino personale di ricordi cui attingere, ricostruire la figura del padre nel quadro storico dell’esperienza resistenziale è stato un atto di volontà. Rinviato più volte per non soffrire, per non prendere atto di un’esistenza intera trascorsa in compagnia di un’assenza. E non più derogabile quando, poco dopo la morte della madre, cinghia di trasmissione della memoria privata, la Storia bussa alla porta con una telefonata del Procuratore Militare di Torino, Pier Paolo Rivello: «Signor Fogagnolo, si costituirà Parte Civile?». Lo farà, fondando il Comitato “I Quindici” che raccoglie i familiari delle vittime.

Finalmente, dopo più di mezzo secolo, si istruisce il processo al capitano Saevecke, accusato in contumacia di essere il principale responsabile e organizzatore dell’eccidio di piazzale Loreto. A inchiodare l’ex nazista, rapporti e documenti del fascicolo 2167 insabbiato assieme a migliaia di altri nell’armadio della vergogna scoperto a Roma dal giudice Intelisano. In due anni la sentenza: Saevecke è condannato all’ergastolo. “I Quindici” ottengono dallo Stato anche un risarcimento per il ritardo con cui è stata fatta giustizia. Si pensa già di costituire un fondo da destinare a iniziative culturali dedicate alla memoria di quei martiri e alla storia della Resistenza milanese. Ma l’Avvocatura dello Stato fa ricorso e vince: quei soldi vanno restituiti perché, tecnicamente parlando, la giustizia è stata rapida.

«Un espediente che, in realtà, copre una sentenza politica – afferma Fogagnolo –. Un colpo di spugna sul colpevole insabbiamento delle prove che rappresenta un secondo tradimento. Lo Stato dopo aver barattato, negli anni della guerra fredda, la giustizia con l’impunità dei criminali fascisti, ora rinnega il sacrificio dei suoi martiri. Eppure è per far nascere quello Stato democratico che, consapevolmente, mio padre e tanti altri sono morti». L’ultima speranza è ora riposta nella Corte europea di giustizia alla quale il Comitato ha fatto ricorso.

Ancora una volta l’Italia dimostra di non saper ringraziare i suoi eroi. Di non far nulla per coltivare la memoria di chi credeva di fare solo il proprio dovere opponendosi alla dittatura e all’occupazione nazista. E non è stato con le mani in mano ad attendere il corso degli eventi. A ondate ricorrenti si preferisce invece opporre alla memoria di quell’eccidio spietato lo spettacolo dei corpi di Mussolini, della Petacci e dei gerarchi esposti a piazzale Loreto.

(da Patria Indipendente n. 10 del 10 dicembre 2006)

Chi erano i 15 fucilati di Piazzale Loreto

 

I corpi dei martiri. Il cartello con la scritta “assassini” (da https://it.wikipedia.org/wiki/Strage_di_Piazzale_Loreto# /media/File:Piazzale_Loreto_10_agosto_1944.jpg)

Gian Antonio Bravin 36 anni, gappista

Nato a Milano il 28 febbraio 1908, fucilato in piazzale Loreto a Milano il 10 agosto 1944, commerciante.

Antifascista, subito dopo l’armistizio era entrato nella Resistenza come partigiano nel Varesotto. Era poi rientrato a Milano per mettersi a capo del III Gruppo GAP, le cui azioni diresse sino al 29 luglio del 1944, quando fu arrestato dai fascisti. Imprigionato a San Vittore, Bravin fu messo a disposizione della “polizia di sicurezza” tedesca che, pochi giorni dopo l’arresto, lo prelevò per la rappresaglia di piazzale Loreto.

Giulio Casiraghi 45 anni, comunista

Nato a Sesto San Giovanni (Milano) il 18 ottobre 1899, fucilato a Milano in piazzale Loreto il 10 agosto 1944, operaio elettricista.

Nel 1921 il giovane elettricista aveva aderito al Partito comunista. Attivo antifascista, svolse la sua attività clandestina alle Acciaierie Lombarde, all’Alfa Romeo, alla Marelli, alla Breda e tra i militari delle caserme milanesi. Arrestato, Casiraghi fu condannato dal Tribunale speciale nel 1931 a 4 anni di reclusione. Scontata la pena e ripresa l’attività contro il regime, nel 1935 l’operaio milanese fu di nuovo arrestato. Tornato in libertà, nel 1943 fu tra gli organizzatori dei grandi scioperi del marzo nel capoluogo lombardo. Dopo l’armistizio Giulio Casiraghi partecipò con grande impegno alla Resistenza: organizzò la raccolta di armi e viveri per le formazioni partigiane, provvide alla stampa e alla diffusione dei giornali clandestini. Fu arrestato dalle SS il 12 luglio 1944. Rinchiuso nelle carceri di Monza e a lungo torturato, prima di essere trasferito nel carcere di San Vittore riuscì a scrivere sulla porta della cella un preveggente: “Il mio pensiero alla mia cara moglie e ai miei cari, il mio corpo alla mia fede”. Pochi giorni dopo Casiraghi fu prelevato dal carcere milanese e fucilato in Piazzale Loreto con altri 14 patrioti. Sei mesi dopo il sacrificio di Casiraghi, anche il fratello Mario cadeva in Valle Introna, combattendo con i partigiani. Sulla casa dove i fratelli Casiraghi abitavano, la Città di Sesto San Giovanni (Medaglia d’oro al valor militare), ha fatto apporre, a ricordo, una semplice lapide. Nell’aprile del 2008 la targa è stata danneggiata dalle fiamme; un gruppetto di neofascisti ha appiccato il fuoco alla corona d’alloro che (in occasione delle celebrazioni a Sesto San Giovanni del giorno della Liberazione), era stata collocata, sotto la lapide di via Marconi, dalle organizzazioni della Resistenza.

Renzo Del Riccio 21 anni, socialista

Nato a Sesto San Giovanni (Milano) l’11 settembre 1923, fucilato in piazzale Loreto a Milano il 10 agosto 1944, operaio meccanico.

Soldato di Fanteria, Del Riccio l’8 settembre 1943 partecipò col suo reggimento a violenti scontri contro i tedeschi a Monfalcone. Tornato al suo paese, riprese il suo lavoro sino al marzo del 1944. Quando fu chiamato alle armi dalla RSI, riparò nel Comasco e si unì a una formazione delle “Matteotti“. Caduto in mano ai tedeschi, nel giugno del 1944 era stato destinato alla deportazione in Germania, ma quando la tradotta giunse a Peschiera, Del Riccio era riuscito a fuggire, a tornare a Milano e a trovare rifugio presso suoi parenti. Denunciato da una spia, il giovane operaio era stato di nuovo arrestato, nel mese di luglio, in viale Monza. Incarcerato in un primo tempo a Monza, Del Riccio era stato poi trasferito a San Vittore, giusto il tempo per essere inserito nell’elenco dei quindici che sarebbero diventati “i Martiri di piazzale Loreto”. A Sesto San Giovanni, dove porta il suo nome un Circolo cooperativo e dove gli è stata intitolata una via, una lapide fatta apporre dal Comune “a imperituro ricordo”, lo definisce “puro fra i puri, patriota idealista”.

Andrea Esposito 46 anni, comunista

Nato a Trani (Bari) il 26 ottobre 1898, fucilato in piazzale Loreto a Milano il 10 agosto 1944, operaio.

Militante comunista e partigiano della 113ª Brigata Garibaldi, fu arrestato il 31 luglio 1944 nella sua abitazione. Con lui i militi dell’Ufficio politico investigativo della GNR catturarono anche il figlio Eugenio, un vigile del fuoco della classe 1925, che non aveva risposto alla chiamata alle armi della RSI (il ragazzo, quando già il padre era stato trucidato in piazzale Loreto dai fascisti della Muti al servizio dei tedeschi, fu portato da Milano a Bolzano e da qui a Flossenbürg. Da questo lager fu poi trasferito a Dachau e liberato dagli Alleati il 29 aprile 1945).

Andrea Esposito cadde con gli altri quattordici martiri. Su questo tragico episodio della Resistenza italiana, il gappista Giovanni Pesce, Medaglia d’oro al valor militare, ebbe a scrivere nell’agosto del 2002: «È in corso il progetto infido e vergognoso di voler riscrivere alcune pagine della storia patria, sì anche piazzale Loreto. Riproporre la Resistenza, come ha spiegato il ministro Gasparri, in una logica che “accontenti tutti”, che possa proporre la storia in una accezione unificante, tagliuzzare tutto, ridurre la gloria a poltiglia, a polvere, al niente. Il progetto è chiaro, è davanti a noi; a noi impedire che si metta in movimento. Piazzale Loreto, oggi vuol dire questo. È la nostra arma più limpida, il nostro esempio, la nostra sfida. I nostri avversari sanno cosa ha rappresentato quel lontanissimo eppure vicinissimo 10 agosto del ‘44. Lo sanno anche i nostri giovani, quelli che riempiono le piazze d’Italia, che urlano il loro orrore per la violenza gratuita e per i diritti sepolti».

Domenico Fiorani 31 anni, socialista

Nato a Boron (Svizzera) il 24 gennaio 1913, fucilato in piazzale Loreto a Milano il 10 agosto 1944, perito industriale.

Militante socialista, durante la Resistenza faceva parte delle Brigate “Matteotti“. Fiorani, incaricato della produzione e della diffusione della stampa clandestina, fu arrestato il 25 giugno 1944 a Busto Arsizio, mentre si stava recando all’ospedale a visitare la moglie che vi era stata ricoverata.

Incarcerato a Monza dalla polizia politica, il 7 agosto, proprio pochi giorni prima della strage di piazzale Loreto, l’impiegato fu trasferito nel carcere di San Vittore. Vi sarebbe uscito per affrontare il martirio.

Umberto Fogagnolo 33 anni, azionista

Nato a Ferrara il 2 ottobre 1911, fucilato a Milano, in piazzale Loreto, il 10 agosto 1944, ingegnere elettrotecnico.

Antifascista, pochi giorni dopo la caduta di Mussolini e quando già aveva deciso di impegnarsi nella Resistenza (era in contatto con uno stretto collaboratore di Ferruccio Parri), aveva scritto alla moglie una lettera nella quale diceva: “Ho vissuto ore febbrili ed ho giocato il tutto per tutto. Per i nostri figli e per il tuo avvenire è bene tu sia al corrente di tutto. Qui ho organizzato la massa operaia che ora dirigo verso un fine che io credo santo e giusto. Tu Nadina mi perdonerai se oggi gioco la mia vita. Di una cosa però è bene che tu sia certa. Ed è che io sempre e soprattutto penso ed amo te e i nostri figli. V’è nella vita di ogni uomo però un momento decisivo nel quale chi ha vissuto per un ideale deve decidere ed abbandonare le parole”. Fogagnolo abbandona presto le parole: è fermato per la prima volta a Milano, quando interviene, si era nell’ottobre del 1943, per difendere un operaio aggredito dai fascisti. Era già entrato nella Resistenza a Sesto San Giovanni, rappresentante del Partito d’Azione in quel CLN che teneva in gran conto le opinioni di quell’”Ingegner Bianchi”, dirigente della Società Ercole Marelli, che aveva – sia pure salvando le forme – un rapporto alla pari con gli operai. Fogagnolo, con l’operaio comunista Giulio Casiraghi, è, infatti, l’organizzatore degli scioperi del marzo 1944. Attivissimo in azioni di sabotaggio a Milano e in Lombardia si oppone al progetto di far saltare una diga; un progetto che, sul momento, danneggerebbe gli occupanti tedeschi, ma che avrebbe comportato in seguito un danno enorme per i milanesi. Fogagnolo continuò nella sua lotta sino a che, il 13 luglio del 1944, non fu arrestato dalle SS. Tradotto nel carcere di San Vittore e sottoposto a tortura nel famigerato 5° Raggio, l’ingegnere non si lasciò mai sfuggire una frase che avrebbe potuto danneggiare la Resistenza. Per questo fu uno dei quindici patrioti eliminati a Piazzale Loreto, nell’agosto del 1944. Una lapide, in zona Città Studi, a Milano, ne celebra la figura con queste parole: “I compagni ricordano/ il Dott. Ing./Umberto Fogagnolo/ nobilissima figura/ di lavoratore/ fiero assertore/ dei diritti del popolo/ Spento dal piombo fascista/ vive perennemente/ nella luce della libertà”. A tanti anni dall’uccisione del padre, uno dei tre figli (Sergio, che ha costituito il Comitato denominato “I Quindici” e che si è impegnato nel processo contro il capitano nazista Saevecke, dopo che, dall’armadio della vergogna, sono riemersi i documenti sulle responsabilità dei nazi-fascisti nelle stragi perpetrate in Italia), si è visto annullare dal Consiglio di Stato la sentenza che prevedeva un indennizzo alle famiglie dei Martiri di Piazzale Loreto. Nel 2009 pende ancora un ricorso alla Corte europea di Giustizia.

Aligi Sassu, Martiri di piazzale Loreto

Tullio Galimberti 22 anni, gappista

Nato a Milano il 31 agosto 1922, fucilato in piazzale Loreto a Milano il 10 agosto 1944, impiegato.

Dopo l’armistizio era entrato nelle formazioni “Garibaldi” operanti a Milano con compiti di collegamento e, soprattutto, di raccolta di armi per i partigiani organizzati in montagna. Inquadrato nella III brigata d’assalto “Egisto Rubini“, Galimberti alla fine di giugno del 1944 fu arrestato in piazza San Babila a Milano, dove si era recato per un incontro clandestino, da agenti delle SS tedesche e italiane. A San Vittore fu a lungo interrogato e seviziato, senza che da lui i tedeschi riuscissero a ottenere utili informazioni. Se ne liberarono in occasione della strage del 10 agosto 1944, che con questi versi è stata ricordata dal poeta Alfonso Gatto: “Ed era l’alba, poi tutto fu fermo/ la città, il cielo, il fiato del giorno./ Rimasero i carnefici soltanto/ vivi davanti ai morti./ Era silenzio l’urlo del mattino,/ silenzio il cielo ferito:/ Un silenzio di case, di Milano./ Restarono bruttati anche di sole,/ sporchi di luce e l’uno e l’altro odiosi,/ gli assassini venduti alla paura”.

Vittorio Gasparini 21 anni, antifascista

Nato ad Ambivere (Bergamo) il 30 luglio 1913, fucilato a Milano il 10 agosto 1944, laureato in Economia e commercio, Medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

Chiamato alle armi nel 1939, aveva prestato servizio nel Battaglione “Edolo” degli Alpini. Nel 1942 era stato nominato capitano, ma esonerato perché mandato, come “mobilitato civile”, presso gli stabilimenti Bombrini-Parodi Delfino di Roma. Subito dopo l’armistizio, Gasparini si era messo a disposizione del Fronte clandestino romano della Resistenza, che l’aveva mandato in missione a Milano. Qui il giovane ufficiale riuscì ad operare per qualche tempo. Poi cadde nelle mani dei nazifascisti, che lo fucilarono in piazzale Loreto con Libero Temolo e altri tredici antifascisti. Questa la motivazione della decorazione al valore: “Si prestava volontariamente a cooperare con il fronte clandestino di resistenza della Marina militare raccogliendo e inviando preziose informazioni militari, politiche ed economiche risultate sempre delle più utili allo sviluppo vittorioso della guerra di liberazione. Arrestato dai tedeschi e torturato per più giorni consecutivi resisteva magnificamente senza mai tradirsi né rivelare i segreti a lui noti, addossandosi le altrui colpe e riuscendo con ciò a scagionare un compagno che veniva liberato. Condannato a morte veniva barbaramente fucilato in una piazza di Milano, poco discosta dalla propria abitazione e dai propri familiari. Elevato esempio di indomito coraggio e di incrollabile forza morale, ammirevole figura di ufficiale e di martire che ha coronato la propria esistenza invocando la Patria”.

Emidio Mastrodomenico 22 anni, gappista

Nato a San Ferdinando di Puglia (Foggia) il 30 novembre 1922, ucciso in piazzale Loreto, a Milano, il 10 agosto 1944, agente di Pubblica Sicurezza.

Faceva servizio a Milano, al Commissariato di Lambrate, dove era stato preso in forza nel 1940. Dopo l’armistizio, il giovane agente era entrato nella Resistenza, tanto che, durante l’oppressione nazifascista, era a capo di una delle formazioni GAP milanesi. Nell’estate del 1944 Mastrodomenico era stato fermato in piazza Santa Barbara da agenti del Sicherheitsdienst (il Servizio di sicurezza germanico), che lo avevano incarcerato a San Vittore. Sottoposto a pesanti interrogatori, l’agente di PS non parlò e i tedeschi decisero di sbarazzarsene quando Teodor Emil Saevecke volle la strage di piazzale Loreto.

Angelo Poletti 32 anni, antifascista

Nato a Linate al Lambro (Milano) il 20 giugno 1912, fucilato a Milano il 10 agosto 1944, operaio meccanico.

Nel 1934 era entrato in contatto con i socialisti del “Centro interno”, fondato a Milano da Morandi, Basso, Luzzatto e Colorni. Ciò spinse Poletti ad organizzare gruppi antifascisti clandestini nella zona di Porta Magenta e all’interno dell’Isotta Fraschini, l’azienda dove lavorava. Subito dopo l’armistizio, l’operaio decise di raggiungere le prime formazioni partigiane e, in Valdossola, si aggregò ai patrioti comandati da Filippo Beltrami. Ma, dopo un certo tempo, Poletti, convinto che avrebbe potuto meglio contribuire alla lotta contro i nazifascisti operando a Milano, tornò in città. Qui divenne il primo comandante della 45ª Brigata Matteotti, che operava a Porta Magenta avendo scelto come base del comando la Cooperativa di Lampugnano. L’operaio antifascista aveva comunque mantenuto i rapporti con le formazioni di montagna. A lui i partigiani facevano sicuro riferimento quando c’erano da riparare armi fuori uso. Poletti provvedeva alla bisogna, servendosi di una piccola officina in via Anfiteatro. I fascisti, forse grazie ad una soffiata, lo sorpresero proprio mentre era al lavoro. L’operaio tentò di fuggire, ma colpito da una pallottola ad una gamba fu catturato e rinchiuso nel carcere di San Vittore. Per giorni e giorni fu ferocemente torturato, senza che i fascisti riuscissero a estorcergli qualche informazione compromettente. Il mattino del 10 agosto, Poletti fu incluso, con Libero Temolo e con Vittorio Gasparini, nel gruppo di 15 prigionieri che i nazifascisti fucilarono per rappresaglia in Piazzale Loreto. Due anni dopo la strage, i suoi compagni della Brigata Matteotti, hanno collocato, al numero 15 di via Trenno, un bassorilievo che ricorda Angelo Poletti.

Salvatore Principato 52 anni, socialista

Nato a Piazza Armerina (Enna) il 29 aprile 1892, ucciso a Milano in Piazzale Loreto il 10 agosto 1944, maestro elementare, socialista, figura di primo piano dell’antifascismo milanese durante la dittatura.

Cresciuto a Piazza Armerina, città sensibile alle istanze socialiste di fine Ottocento, s’impegna presto nella lotta politica contro le ingiustizie sociali. Tra il novembre e il dicembre 1911, appena diciannovenne, è coinvolto (ma poi sarà assolto), in un processo per una protesta popolare, (terminata con l’incendio di alcune carrozze), contro il monopolio di una locale impresa di trasporti. Diplomatosi, si trasferisce a Milano nel 1913 e incomincia a insegnare, prima al Collegio privato “Tommaseo” di Vimercate, poi alle scuole comunali, che abbandona quasi subito, perché chiamato alle armi. Combatte sul Carso come semplice soldato (e poi come caporale), ottenendo una Medaglia d’argento per aver catturato, e poi anche salvato, «una quindicina di prigionieri», durante la battaglia del monte Vodice del maggio 1917. Rientrato alla vita civile, riprende l’insegnamento, prima a Vimercate, poi a Milano alla scuola di via Comasina, e in successione alla «Giulio Romano», alla «Tito Speri» e alla «Leonardo da Vinci». A Milano comincia a frequentare gli ambienti socialisti, animati dalla presenza di Filippo Turati e di Anna Kuliscioff, e da subito contrasta il nascente fascismo. Nei primi anni Trenta figura, con l’appellativo di “Socrate”, nelle relazioni dell’ispettore generale di Pubblica Sicurezza Francesco Nudi. L’ispettore lo indica tra i principali referenti milanesi del movimento di «Giustizia e Libertà» e della concentrazione antifascista di Parigi. “Socrate” risulta attivo soprattutto per quel che riguarda la gestione della stampa clandestina e il progetto, con Alfredo Bonazzi, di un «giornaletto» antifascista. È in contatto con Carlo Rosselli e con Rodolfo Morandi, ed è tra gli artefici, nell’aprile 1931, della fuga di Giuseppe Faravelli in Svizzera. Arrestato il 19 marzo 1933, Principato è deferito al Tribunale speciale nell’ambito di un’operazione di polizia molto vasta, che coinvolge i componenti milanesi e genovesi del movimento di «Giustizia e Libertà». È rilasciato dopo oltre tre mesi di carcere. Da allora diventa un sorvegliato speciale dell’O.V.R.A. È reintegrato nell’insegnamento diurno alla «Leonardo da Vinci», ma gli viene impedito di insegnare nelle scuole serali, perché non è iscritto al PNF. Nell’ottobre 1942 Principato figura, con Roberto Veratti, tra i fondatori del Movimento di Unità Proletaria, costituito durante una riunione clandestina in casa di Ivan Matteo Lombardo. Negli anni della guerra, terminata l’esperienza del M.U.P., Principato divenne uno dei punti di riferimento del Partito Socialista di Unità Proletaria, a Milano; in via Cusani 10, con lo schermo di una piccola officina (la Fabbrica Insegne Arredi Mobili Metallo Affini), maschera e gestisce lo smistamento della propaganda antifascista. Fa parte della 33ª brigata Matteotti, è nel secondo e nel terzo comitato antifascista di Porta Venezia e nel Comitato di Liberazione Nazionale della Scuola. Tra i suoi più stretti collaboratori, negli ultimi tempi, sono Dario Barni ed Eraldo Soncini. L’8 luglio 1944, forse tradito da un suo dipendente, Principato è arrestato in via Cusani dalle SS. Imprigionato nel carcere di Monza, è torturato dalla polizia nazifascista, che gli rompe anche un braccio. Ai primi d’agosto viene trasferito a Milano, a San Vittore. Fucilato in Piazzale Loreto, è il più anziano dei Quindici martiri. La moglie, Marcella Chiorri, e la figlia, Concettina, ne continuarono la lotta partigiana fino alla Liberazione.

Il monumento in memoria dei 15 Martiri a piazzale Loreto a Milano

Andrea Ragni 23 anni, antifascista

Nato a Brescia il 5 ottobre 1921, fucilato in piazzale Loreto a Milano il 10 agosto 1944, operaio.

Antifascista, pochi giorni dopo l’8 settembre 1943, era entrato in una delle prime Brigate Garibaldi in via di formazione. Catturato dai fascisti, era riuscito a fuggire e a riprendere l’attività clandestina. Nuovamente finito in mano alle SS tedesche, Ragni era stato rinchiuso il 22 maggio 1944 nel carcere di San Vittore. Ne uscì con gli altri quattordici martiri della rappresaglia nazifascista. Il poeta Franco Loi, che allora, bambino, abitava nella zona, ha ricordato così la strage: «C’erano molti corpi gettati sul marciapiede, contro lo steccato, qualche manifesto di teatro, la Gazzetta del Sorriso, cartelli, banditi! Banditi catturati con le armi in pugno! Attorno la gente muta, il sole caldo. Quando arrivai a vederli fu come una vertigine: scarpe, mani, braccia, calze sporche.(…) ai miei occhi di bambino era una cosa inaudita: uomini gettati sul marciapiede come spazzatura e altri uomini, giovani vestiti di nero, che sembravano fare la guardia armati».

Eraldo Soncini 43 anni, socialista

Nato a Milano il 4 aprile 1901, trucidato a Milano, vicino a Piazzale Loreto, il 10 agosto 1944, operaio.

Già nel 1924 l’operaio socialista aveva dovuto subire l’arresto e le aggressioni dei fascisti, che l’avevano duramente malmenato. Ciò non gli aveva fatto cambiare idea e, alla Pirelli Bicocca, dove lavorava, aveva continuato nella propaganda clandestina contro il regime. Dopo l’armistizio, Soncini era entrato a far parte della 107ma Brigata SAP, organizzata dal suo amico Libero Temolo, e quando questi fu arrestato, ne proseguì l’opera. Tre mesi più tardi anche Soncini cadde nelle mani delle SS. Incarcerato a Monza, senza un’accusa precisa, rivide il compagno di lavoro e di lotta proprio a San Vittore, dove fu trasferito pochi giorni prima dell’eccidio di piazzale Loreto. Con Temolo e con gli altri tredici martiri, l’operaio della Pirelli fu portato nel piazzale alle prime luci del giorno; con l’amico tentò un’inutile fuga. Temolo fu abbattuto subito sul posto; Soncini riuscì ad arrivare nel portone di via Palestrina 9, ma fu raggiunto dai fascisti e trucidato nel sottoscala della casa, per essere poi trascinato nel mucchio degli altri cadaveri. Oltre che sul monumento di piazzale Loreto, Soncini è ricordato, con queste parole, nel cortile dello stabile dove è stato ucciso: “Qui cadde/ assassinato da vile mano fascista/ il compagno Eraldo Soncini/ per la grandezza della libertà d’Italia/ spenta la voce/ più grande/ il suo ideale”.

Libero Temolo 39 anni, comunista

Nato ad Arzignano (Vicenza) il 31 ottobre 1906, ucciso in piazzale Loreto, a Milano, il 10 agosto 1944, operaio.

Negli anni Trenta si era trasferito a Milano da Arzignano, dove la sua famiglia (ricca di undici figli) era molto nota per le idee democratiche del padre fornaio. Nel capoluogo lombardo, il giovane era riuscito a trovare lavoro, prima come assicuratore e poi come operaio alla Pirelli. Nella fabbrica, dove presto i suoi compagni avevano preso ad apprezzarlo per la sua dirittura morale, aveva ripreso i contatti con l’organizzazione comunista clandestina. Durante l’occupazione tedesca Temolo si era impegnato nell’organizzazione delle Squadre di Azione Patriottica sino a che, certamente per una delazione, i fascisti erano andati a prelevarlo nella fabbrica. Era l’aprile del 1944. Rinchiuso nel carcere di San Vittore, Temolo vi rimase mesi senza un’imputazione precisa e senza processo. All’alba del 10 agosto, i secondini si presentarono alla sua cella e gli fecero indossare una tuta blu da operaio, che recava nel taschino il suo nome e cognome. La stessa tuta fu consegnata ad altri quattordici detenuti di San Vittore, tutti rinchiusi perché sospettati di far parte, a vario titolo, della Resistenza. Ai morituri fu dato ad intendere che sarebbero stati trasferiti in un campo di lavoro in Germania. Ma la loro sorte era già segnata. Theodor Emil Saevecke, comandante della polizia nazista di sicurezza a Milano (soltanto verso la fine degli anni Novanta sarebbe stato processato e condannato all’ergastolo in contumacia per le stragi compiute in Italia), aveva intimato ai repubblichini di fucilare quindici italiani, come risposta ad un’azione compiuta il giorno prima dai GAP in Viale Abruzzi a Milano, nonostante nessun militare tedesco fosse stato coinvolto. Con un camion i detenuti furono trasportati in piazzale Loreto e fatti scendere dal mezzo. Temolo e un suo compagno socialista della Pirelli (Eraldo Soncini), che dovevano aver intuito quel che stava per succedere, tentarono contemporaneamente la fuga in due opposte direzioni. Temolo fu subito abbattuto da una raffica di mitra; Soncini, raggiunto nel sottoscala di una casa vicina, fu eliminato sul posto; gli altri tredici furono falciati dai proiettili dei tedeschi e dei militi fascisti della “Muti”. A pochi metri dal luogo dell’eccidio (i corpi delle vittime rimasero sul selciato di piazzale Loreto sino a pomeriggio inoltrato, per “dare una lezione ai milanesi”), sorge oggi un sobrio monumento che reca i nomi dei Caduti: Umberto Fogagnolo (classe 1911), Domenico Fiorani (1913), Vitale Vertemati (1918), Giulio Casiraghi (1899), Tullio Galimberti (1922), Eraldo Soncini (1901), Andrea Esposito (1898), Andrea Ragni (1921), Libero Temolo (1906), Emidio Mastrodomenico (1922), Salvatore Principato (1892), Renzo Del Riccio (1923), Angelo Poletti (1912), Vittorio Gasparini (1913), Gian Antonio Bravin (1908). A Libero Temolo, il Comune di Milano ha dedicato una via nella zona della Bicocca dove allora sorgeva la Pirelli (sul tetto della fabbrica, il giorno dell’eccidio campeggiò la scritta “Libero Temolo”). Una lapide, con la foto dell’operaio antifascista, si trova in via Casoretto. Reca inciso: “Libero Temolo / nel martirio / chiuse la vita breve di anni / densa di opere / per il culto della libertà”.

Vitale Vertemati 26 anni, antifascista

Nato a Milano il 26 marzo 1919, fucilato a Milano, in piazzale Loreto. il 10 agosto 1944, operaio.

Era nato e cresciuto nel popolare quartiere di Niguarda e lavorava come meccanico alla Falk. Convinto antifascista, dopo l’8 settembre 1943 era entrato a far parte della I Brigata GAP “Gramsci”, operante nel capoluogo. Denunciato da una spia, l’operaio fu arrestato e rinchiuso nel carcere di San Vittore. Vertemati seppe resistere alle sevizie e restò in prigione per mesi. Ne uscì soltanto quando i tedeschi decisero di effettuare una rappresaglia per uno strano attentato compiuto contro uno dei loro automezzi, che non aveva tuttavia provocato né morti né feriti tra i militari della Wehrmacht. Con indosso una tuta, (che i nazisti avevano fatto indossare alle loro vittime designate, per illuderle che le avrebbero portate a lavorare per la Todt), Vertemati e altri 14 patrioti, tra i quali Libero Temolo e Vittorio Gasparini, fu portato in piazzale Loreto e fucilato da un plotone di fascisti della “Ettore Muti”. Per intimidire i milanesi, i corpi dei quindici antifascisti massacrati furono lasciati sul selciato dal mattino al tardo pomeriggio; le salme furono rimosse solo per l’intervento del cardinale Schuster. Una lapide, con l’effige in rilievo di Vertemati, è stata posta a Niguarda. Dice: “Indomito cadesti immolando la tua giovinezza/ Questo marmo ricorda l’abitazione del Patriota/ Vertemati Vitale/ Martire della ferocia nazi-fascista/ sacrificato in Piazzale Loreto/ il 10 agosto 1944/ I familiari la Direzione e le Maestranze FALK/ lo ricordano con orgoglio”.

Dal sito www.anpi.it DONNE E UOMINI DELLA RESISTENZA