Due anni, nove mesi e 22 giorni di carcere per aver pubblicato un disegno sui social network, a scontarli una ragazza non ancora trentenne, curda nella Turchia di Erdoğan. Questa in breve la storia di Zehra Doğan, giornalista e artista – oggi di fama mondiale – che ha fatto opposizione politica usando l’arte e ha continuato con notevoli sforzi durante la prigionia.
Zehra Doğan è originaria di Diyarbakir, nel sudest della Turchia, una zona a maggioranza curda, ed è stata una delle fondatrici di Jinha, ovvero la prima agenzia stampa del Paese formata da sole donne. Ha lavorato in quell’agenzia fino al 2016 quando Jinha è stata chiusa in base a un decreto governativo emanato sotto lo stato di emergenza. Nel 2016 in Turchia c’è stato un tentato golpe ai danni di Erdoğan, perciò lo stato di emergenza è stata la prassi in questi ultimi anni; inoltre molti giornali di opposizione sono stati chiusi e decine e decine di giornalisti sono finiti in carcere assieme ad altri oppositori. Attualmente, secondo stime dell’Ue, circa il 90% dei media nel Paese della mezzaluna è in mano a persone o imprenditori vicini al presidente Erdoğan. Ma Zehra Doğan ha anche il difetto di essere curda e donna in un Paese che ha interrotto negli ultimi anni il cammino verso una compiuta democrazia. Doğan ha ricevuto diversi premi per il suo lavoro di giornalista, tra cui il prestigioso riconoscimento intitolato alla memoria di Metin Göktepe, un fotogiornalista turco torturato e brutalmente assassinato mentre era in custodia della polizia di Istanbul nel 1996. Dopo il fallimento del processo di pace tra governo turco e curdi del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), in Turchia ci sono stati scontri nelle città a maggioranza curda nel sudest del Paese e Zehra Doğan ha scritto corrispondenze dalle cittadine curde sotto coprifuoco come Cizre e Nusaybin. Così il giorno dopo essere rientrata da Nusaybin, nel luglio del 2016, è stata posta in detenzione preventiva per cinque mesi in attesa del processo e rilasciata sotto controllo giudiziario nel dicembre dello stesso anno.
Nel marzo 2017 la sentenza: propaganda terroristica a causa delle notizie che aveva dato dalle città sotto coprifuoco in cui sono morti centinaia di civili (ha pubblicato il diario di un bambino da una città sotto assedio, ndr) e per aver postato sui social un disegno che mostrava edifici di Nusaybin distrutti con le bandiere turche alle finestre. Il suo caso ha fatto il giro del mondo quando il noto artista Banksy l’ha ritratta in un murale a New York lo scorso anno.
Rilasciata a febbraio di quest’anno dopo aver scontato la sua pena, Zehra Doğan è stata a Roma per alcuni giorni e l’abbiamo incontrata al Centro socioculturale curdo Ararat. Si notano la solarità, l’umiltà, la serietà con cui affronta l’impegno di essere artista e giornalista, l’urgenza e la responsabilità di parlare del suo popolo, delle privazioni e discriminazioni che i curdi vivono non solo in Turchia.
Quasi tre anni di carcere per un singolo disegno e di alcune notizie date per l’agenzia giornalistica di cui faceva parte: quali sono state le accuse precise?
Sono stata accusata di propaganda del terrorismo e di aver superato il limite di critica. Il giudice che mi ha condannata nell’ultima frase della sentenza ha detto “Tu hai apposto la bandiera della nazione turca sui muri distrutti e così hai fomentato la rabbia sociale”. Però il disegno dei muri della città di Nusaybin distrutta, con le bandiere dello Stato turco alle finestre, non è una mia invenzione: ho visto questa immagine e l’ho semplicemente disegnata.
Infatti il dipinto incriminato è stato soprannominato la “Guernica turca” e ha fatto il giro del mondo mostrando quell’assedio, quella guerra nascosta. Perché questo tipo di arte fa così paura a chi detiene il potere, a persone come Erdoğan?
Faccio l’esempio di una madre e di un bambino: quando un bambino rompe qualcosa o fa una cosa sbagliata la madre non dice niente perché basta solo uno sguardo e il bambino capisce che ha sbagliato. Quel dipinto di Nusaybin in macerie ha mostrato ai colpevoli la realtà: quando hanno guardato quel disegno hanno capito di aver sbagliato perciò hanno avuto paura. Un mostro realizza di essere tale quando si guarda allo specchio, ma finché lui non fa questa azione non sa di esserlo, magari pensa di essere diverso. Io ho utilizzato quel dipinto come uno specchio: ho fatto vedere ai mostri la loro faccia. Se avessi disegnato un’altra cosa, un altro soggetto, i mostri (i potenti) non avrebbero visto. Io ho disegnato solo quello che ho visto, non ho cambiato nulla della realtà.
In prigione non si è arresa di fronte alle privazioni, anzi ha continuato con ogni mezzo a disegnare usando residui di cibo, te, caffè, perfino sangue mestruale. Che tipo di motivazione ha trovato dentro di sé per resistere?
Le altre detenute ed io sapevamo il preciso motivo per cui eravamo finite lì: siamo oppositrici politiche. Con il mio lavoro stavo dando fastidio, se mi fossi fermata alle prime difficoltà non sarei stata portata in carcere, se fossi rimasta in silenzio non avrei avuto problemi. E una volta in carcere se mi fossi arresa avrei fatto vincere il nemico. Perciò ho resistito e con me le altre recluse, molte delle quali sono ancora lì dentro. Avevo una causa legittima da difendere, per questo non mi sono arresa. Dal carcere mandavo fuori notizie utilizzando le condotte di canalizzazione che collegano tutta la città. Come me anche le altre detenute prima di essere arrestate hanno avuto sempre il coraggio di disobbedire se gli obblighi o le leggi erano ingiuste. Anche da giornalista per fare il mio lavoro dovevo violare le leggi del governo turco e far uscire le notizie. In carcere per esempio mi hanno sequestrato 20 disegni, ma durante la mia detenzione sono riuscita a far uscire 300 opere. Di nascosto abbiamo anche mandato fuori due numeri di un giornale clandestino fatto da noi all’interno della prigione. Il titolo era: Vi teniamo d’occhio anche se le detenute eravamo noi.
Come è cambiata la sua arte dopo il carcere?
Per un cantante iraniano ho fatto undici disegni usando passata di pomodoro, caffè e cenere di sigaretta. Dopo l’esperienza del carcere sono diventata più creativa: ho imparato a usare più materiali oltre a quelli tradizionali. E continuerò a fare dipinti anche con il sangue mestruale.
Voglio finire alcune cose iniziate in carcere: terminare alcuni dipinti e un romanzo che in carcere mi hanno sequestrato e che ho dovuto riscrivere da capo. Poi sto lavorando a un libro di caricature che racconta quello che ho vissuto in prigione e ciò che ho disegnato. Continuerò a fare le cose che facevo prima; poi voglio andare in Rojava (la regione del nord est della Siria liberata dai curdi durante la guerra all’Isis, ndr) e fare lì dei lavori con i ragazzi. In futuro non voglio raccontare soltanto i curdi ma quello che accade nel mondo. Come artisti e come giornalisti dobbiamo intervenire ovunque e dobbiamo lavorare su tanti temi. Oggi io vorrei viaggiare e girare il mondo, vedere quello che accade anche fuori dalla mia terra.
Quando ha capito di essere una curda in Turchia, cioè parte di una minoranza perseguitata?
L’ho capito subito perché quando sono nata già c’era il movimento curdo, perciò sono cresciuta conoscendo la mia identità prima di arrivare a scuola (cioè quando i bambini di madrelingua curda si trovavano all’improvviso a dover parlare un idioma del tutto sconosciuto ovvero il turco, unica lingua riconosciuta dalle autorità, ndr). Quando avevo quattro anni è stato ucciso mio zio davanti a casa da parte di paramilitari, Hizbollah turchi. Quando ero bambina e partecipavo con la famiglia a manifestazioni sono stata portata in caserma e davanti ai giudici perciò sapevo bene di essere una curda.
In Italia ci sono formazioni neofasciste che organizzano raduni, concerti; di recente ci sono stati sequestri di armi da guerra di gruppi che si ispirano ai nazisti; la presenza online di formazioni che si ispirano a ideologie condannate dalla storia e che adescano ragazzi è cospicua. In molti però pensano che il fascismo sia solo un fenomeno che appartiene ormai ai libri di storia. Lei che ha vissuto sulla propria pelle da giornalista e da artista lo squadrismo di stampo fascista, la censura, il divieto di manifestare, la violenza verbale e fisica come spiegherebbe a un ragazzo italiano che cos’è il fascismo?
Direi a questo ragazzo che il fascismo esiste e che il popolo curdo lo vive quotidianamente però in maniera indiretta perché questo tipo di ideologia ti arresta, ti mette in difficoltà, cancella la tua memoria piano piano. Gli italiani hanno vissuto questo tipo di comportamenti e di azioni quasi cento anni fa, il popolo curdo le vive ancora oggi, quindi sentiamo il fascismo sulla nostra pelle. Per esempio in Europa le politiche di stampo neofascista stanno avanzando molto velocemente, però il fascismo non è un’opinione, non si può definire come un’idea pubblica. A Berlino dieci giorni fa i neofascisti hanno organizzato un concerto e una manifestazione molto grandi e tante persone hanno manifestato contro di loro. Oggi certo il fascismo è diverso rispetto al tempo di Mussolini e Hitler perché non ci sono i carri armati nelle strade d’Europa, non bombardano le città però ci sono politici che decidono del corpo delle donne, di come le donne devono agire, devono vestirsi, quale religione devono seguire e questa è una forma di fascismo. Contro questo dobbiamo lottare, contro questa forma più subdola di fascismo.
Antonella De Bias, giornalista e saggista. È stata redattrice del settimanale La Rinascita della sinistra. È coautrice e curatrice di Curdi (Rosenberg & Sellier 2018)
Pubblicato venerdì 26 Luglio 2019
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