In occasione del 50° anniversario della strage di piazza Fontana abbiamo parlato col professor Carlo Fumian, classe 1951, ordinario di Storia contemporanea e Storia globale presso l’Università di Padova, Dipartimento di scienze storiche, geografiche e dell’antichità, presidente del Centro Ateneo per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, esperto sugli anni della strategia della tensione e su quelli successivi. Una conversazione a tutto campo sulle stragi, i depistaggi, i processi, il coinvolgimento di uomini delle istituzioni.
Innanzitutto, professor Fumian, che cosa si intende con «strategia della tensione»? Si tratta di una trovata giornalistica o c’è una verità storica? O forse è preferibile l’espressione di Angelo Ventrone «strategia della paura»?
In un certo senso all’origine fu una «trovata giornalistica»: addirittura pochi giorni prima della strage, il 6 dicembre 1969, uscì un articolo di Leslie Finer sul settimanale inglese Observer, in cui si definiva «strategia della tensione» il progetto di una svolta autoritaria, in Italia spalleggiata dai colonnelli greci e dalla CIA, preparata da atti terroristici. Ad ogni modo, paura o tensione poco cambia, ciò che conta è la strategia. In Italia si è combattuta, nel quadro della Guerra fredda, una «guerra non ortodossa al comunismo» che vede in prima fila come esecutori le cellule venete di Ordine Nuovo di Freda e Ventura accanto ad altri gruppi di estrema destra, come Avanguardia Nazionale; alle loro spalle, con ruoli diversi, gruppi di poteri occulti interni e internazionali, dall’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno ai servizi segreti civili e militari, alti gradi delle Forze armate, servizi segreti stranieri… Chiariamo però che richiamarsi ai poteri occulti non significa evocare fumose spiegazioni complottistiche. Essi sono specifici soggetti contraddistinti dal combinato disposto di segretezza, contropotere e illegalità dell’azione, secondo l’acuta definizione datane fin dal 1983 da Angelo Ventura (ora in “Per una storia del terrorismo italiano”, Donzelli, Roma 2010, p. 140). Poteri occulti sono ad esempio i servizi segreti italiani o stranieri quando agiscono fuori o contro l’ambito d’azione determinato legalmente (anche se riservatamente) dal governo; la grande criminalità organizzata; associazioni segrete come la Loggia P2 di Licio Gelli; e ovviamente le formazioni terroristiche clandestine.
La difficoltà interpretativa è quella di dare voce a tutti questi attori, vederne convergenze e divergenze, ricostruire l’unitarietà sostanziale degli intenti senza cadere nella trappola del complottismo, cioè leggere la sequenza delle stragi italiane tra 1969 e 1980 come il frutto di una diabolica Spectre che tira le file di una miriade di burattini. Diavoli e peccatori in questa storia sono tanti e spesso in lotta fra loro.
In estrema sintesi, la strategia che sia le indagini dei magistrati sia la ricerca storica hanno individuato è semplice: destabilizzare l’ordine pubblico per ristabilire l’ordine politico in chiave autoritaria, ossia sterilizzare il pericolo di una deriva di sinistra del sistema politico italiano. L’obiettivo finale non era dunque il colpo di Stato (che rimane comunque il sogno dei gruppi neofascisti e di alcuni settori delle forze armate, che i servizi strumentalizzano abilmente), bensì quello di una «stabilizzazione conservatrice» in senso filoatlantico.
Si può dare, quindi, una interpretazione storica unitaria degli attentati stragisti e no?
C’è un filo che lega tutte le stragi, a parte il caso singolare di Peteano, che vale come cartina di tornasole, per complesse vicende molto ben spiegate da Calogero. Nel libro le ritroviamo tutte, accanto ad altri momenti chiave della strategia: Pietro Calogero affronta le stragi di Piazza Fontana, Peteano e della questura di Milano, oltre al golpe Borghese; Leonardo Grassi quella dell’Italicus, Claudio Nunziata discute il progetto stragista, Giovanni Tamburino ripercorre le vicende della Rosa dei Venti e del «golpe bianco» di Edgardo Sogno, Giuliano Turone il nodo della P2-destra eversiva, Vito Zincani la strage della stazione di Bologna e infine Giampaolo Zorzi si sofferma su quella di Piazza della Loggia.
Comunque la strategia non parte con Piazza Fontana, risale almeno alla metà degli anni sessanta, senza dimenticare tutti gli attentati preparatori del 1969, anch’essi in gran parte compiuti dalla cellula veneta di Ordine nuovo. A Padova il 18 aprile 1969, tre giorni dopo la bomba neofascista che devasta lo studio del rettore dell’Università Enrico Opocher, si svolge una riunione segreta in cui viene messa a punto la strategia che culminerà con la strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. Vi partecipano Franco Freda, Giovanni Ventura e altri due personaggi, uno appartenente ai servizi segreti (probabilmente l’agente Z, Guido Giannettini) e l’altro identificato da un testimone in Pino Rauti, leader di Ordine nuovo, che potrà comunque addurre un alibi. Il testimone sarà fatto espatriare dai servizi (SID) in Spagna, dopo che la coraggiosa inchiesta avviata a Treviso da Pietro Calogero e Giancarlo Stiz porrà sotto i riflettori la cellula veneta. Pochi giorni dopo la riunione, si scatena l’offensiva terroristica con gli attentati di Milano e sui treni, che culmina con la strage del 12 dicembre.
Nel dicembre del 1971 Calogero e Stiz arrivano alla cassetta di sicurezza di una banca di Montebelluna, cointestata a madre e zia di Giovanni Ventura. Trovano un documento fondamentale: un lungo rapporto del 1969 riconducibile ai servizi segreti (in particolare allo stesso Giannettini), in cui si elabora una strategia di «ritorno al centrismo», i cui punti verranno tutti realizzati: la fine del centro-sinistra provocata dall’uscita dei socialdemocratici di Mario Tanassi da Partito socialista, la vittoria di Flaminio Piccoli al congresso democristiano, il cambio dei vertici RAI e il controllo «moderato» di alcuni quotidiani, e infine l’avvio di una sequenza di atti terroristici da imputare alla sinistra per spingere l’opinione pubblica a richiedere energiche misure di difesa dell’ordine e di contenimento del Partito comunista.
Concludendo, l’eccezionale durata dell’ondata terroristica (e dei processi correlati) in Italia è la più banale ma anche la più convincente prova dell’esistenza di una strategia fondamentalmente unitaria, anche se a più teste. Si pensi proprio a Piazza Fontana: in fondo, l’inchiesta di Calogero e Stiz, e successivamente dei loro colleghi milanesi, aveva pressoché individuato con chiarezza e dovizia di prove i responsabili, ma come sappiamo venne sabotata. La «partita» poteva chiudersi rapidamente risparmiando all’Italia centinaia di lutti e immani sofferenze, se alle spalle di questi magistrati (e dei loro colleghi di Milano) ci fosse stato uno Stato non inquinato.
Da questo libro emerge il profilo di uno Stato italiano che comunque riesce a punire, almeno parzialmente, i responsabili delle stragi: è così? Da storico, si può dire che – in fondo – l’Italia democratica tiene di fronte alle spinte eversive di destra e che non sempre, per citare il Rino Gaetano di Aida, «sotto i fanali l’oscurità»?
Vero. L’Italia uscirà dall’emergenza terroristica (di destra e di sinistra) nel sostanziale rispetto delle regole processuali e delle libertà democratiche. Ma quanta fatica e quanti sacrifici! Senza alcuna retorica dobbiamo essere grati ad un pugno di magistrati e uomini delle forze di polizia che ha eroicamente condotto indagini estremamente difficili e rischiose per scoperchiare il verminaio del terrorismo neofascista, scoprendo amaramente che al vertice della strategia delle bombe vi erano uomini e apparati di quello stesso Stato che avrebbe dovuto proteggere la vita di cittadini inermi, la democrazia, la Costituzione. Altri sono morti e qualcuno, come Emilio Alessandrini, che moltissimo aveva contribuito alle indagini su Piazza Fontana, falciato con tragica ironia da bande armate del terrorismo rivoluzionario di sinistra.
Questo vale anche per il contrasto al terrorismo rivoluzionario insurrezionalista del «partito armato», come giustamente – e orgogliosamente – hanno dimostrato Armando Spataro e Gian Carlo Caselli nel libro curato da Marc Lazar e Marie-Anne Matard-Bonucci (“Il libro degli anni di piombo. Storia e memoria del terrorismo italiano”, 2010).
Cosa possono imparare gli storici dalle sentenze e dai materiali dei processi? Tra giudici e storici ci sono dei punti in comune, già ne parlava in un suo saggio Calamandrei. Uno storico, forse, può cogliere meglio una continuità laddove i processi sono frammentati e stralciati in più parti?
Come giustamente nota Angelo Ventrone nella sua introduzione a “L’Italia delle stragi”, è bene che gli storici si liberino presto di alcuni radicati pregiudizi nei confronti delle fonti giudiziarie. Che non sono solo sentenze, ma quel coacervo di fonti, composto da interrogatori, testimonianze, documenti, perizie (ahimè tutti di faticoso reperimento, se non ancora digitalizzati) che agli storici sono essenziali – se lette criticamente – non per «rifare i processi» ma per ricostruire contesto, protagonisti, modalità e strategie dell’offensiva terroristica che per più di un quindicennio, nel rigido quadro della Guerra fredda, sconvolse l’Italia, cerniera geopolitica cruciale e «ventre molle» dell’Alleanza Atlantica. Non usarle è rinunciare al buon metodo storiografico, un po’ come ridursi a scrivere la storia delle relazioni internazionali ignorando le fonti diplomatiche, o la storia economica trascurando dati e statistiche.
Personalmente vedo il punto di incontro del lavoro tra storici e magistrati non sul piano di una qualche «funzione giudicante» ma su quello dei documenti. Molti investigatori, sui cui tavoli non giungevano mai le informazioni in possesso dei Servizi, hanno dovuto lavorare «trasversalmente» interpretando la documentazione sequestrata o considerata comunque rilevante. Oltre a trovare le prove dovevano ricostruire il movente, e quello spesso si trovava – anche in modo straordinariamente esplicito – nei documenti dei gruppi eversivi e dei loro protettori-suggeritori.
Ragionando di ricerca storica, a me pare che dalle considerazioni dei magistrati contenute nel libro che stiamo commentando si possa estrarre una pista di ricerca interessante. Mi riferisco all’anticomunismo. Tema che per i magistrati non ha rilevanza penale, ma per lo storico è importantissimo. È profondamente errato sottostimare la forza del «sentire anticomunista» di quegli anni: ampi apparati dello Stato erano pervasi da una così ferrea ostilità al comunismo da far loro dimenticare la Costituzione, come candidamente ammetterà nel 1997 un capo dei servizi segreti nostrani, il generale Maletti, che giustificava il proprio operato perché nessuno aveva spiegato loro che «dovevano difendere la Costituzione». Il che invita ad una sorta di ricerca «prosopografica», una biografia collettiva degli individui che nei lunghi anni settanta avevano in mano le redini dei Servizi, della Polizia, dei Carabinieri, e così via. Sarà facile vedere come molte di queste carriere sono in continuità con esperienze professionali anche importanti che affondano le radici nel tardo fascismo e nella Repubblica sociale italiana, o che comunque le loro carriere sono legate all’intensità del loro convinto e partecipe «fervore» anticomunista. Vi era insomma una pletora di attori istituzionali «naturalmente» predisposti a collocare la missione anticomunista al centro del loro agire, infischiandosene della Costituzione e pronti a far sopportare al Paese il «male minore» di vittime innocenti (banali danni collaterali in una guerra santa al comunismo). Marcello Guida, questore di Milano nel 1969 e rigido fautore della pista anarchica, era stato vicedirettore del confino fascista di Ponza e poi di Ventotene; Federico Umberto D’Amato, potentissimo capo dell’Ufficio affari riservati del Ministero dell’interno, nato nel 1919, era stato un agente dell’OSS (Servizio di spionaggio americano durante la seconda guerra mondiale) e poi perno strategico della NATO e iscritto alla loggia P2; nel 1965, in perfetto stile «strategia della tensione», aveva predisposto l’operazione «manifesti cinesi», una campagna di disinformazione in cui si servì di Stefano Delle Chiaie, esponente di spicco di Avanguardia Nazionale, e di Delfo Zorzi, di Ordine nuovo. Nel 1996, durante una perquisizione ordinata dal giudice Mastelloni nella casa di D’Amato, dopo la sua morte, si trovarono circa 150.000 fascicoli e perfino il quadrante di un timer utilizzato da Franco Freda per l’attentato al treno Pescara-Roma del 9 agosto 1969. Ben strano souvenir. E potremmo continuare, magari ricordando Edgardo Sogno (di lui e del «golpe bianco» si occupa nel libro Giovanni Tamburino). In un discusso libro-intervista Sogno ricordò che, pur avendo guadagnato una medaglia d’oro al valor militare per la sua attività di partigiano e pur essendo stato membro della Costituente, il suo odio per il comunismo era cento volte superiore alla sua avversione al fascismo.
Secondo lei quali sono le specifiche responsabilità, se non penali almeno storiche e morali, di politici e militari e servizi segreti coinvolti a vario titolo nello stragismo di destra?
Per molti uomini dei servizi segreti, anche di altissimo grado, parlano le condanne comminate per reati anche gravissimi. Penso ad esempio alla condanna all’ergastolo per Maurizio Tramonte, uomo dei Servizi in concorso con il neofascista di Ordine nuovo Carlo Maria Maggi per la strage di Piazza della Loggia. La sentenza del 22 luglio 2016, passata in giudicato il 21 giugno 2017 (Corte di Cassazione, sez. I, presidente Domenico Carcano), offre scorci di assoluta chiarezza, e a dir la verità lascia ammutoliti. Cito un frammento dalla pagina. 471 della sentenza del luglio 2016).: «Lo studio dello sterminato numero di atti che compongono il fascicolo dibattimentale porta ad affermare che anche questo processo – come altri in materia di stragi – è emblematico dell’opera sotterranea portata avanti con pervicacia da quel coacervo di forze […] individuabili ormai con certezza in una parte non irrilevante degli apparati di sicurezza dello Stato, nelle centrali occulte di potere, che hanno, prima, incoraggiato e supportato lo sviluppo di progetti eversivi della destra estrema, ed hanno sviato, poi, l’intervento della magistratura, di fatto rendendo impossibile la ricostruzione dell’intera rete di responsabilità. Il risultato è stato devastante per la dignità stessa dello Stato e della sua irrinunciabile funzione di tutela delle istituzioni democratiche».
Ora, individuare una «responsabilità politica» delle autorità di governo appare del tutto legittimo: il loro laissez faire ha ingenerato in chi agiva illegalmente la convinzione di muoversi con l’avallo e l’approvazione dei vertici politici; al tempo stesso il «lasciare mano libera» si può configurare come una violazione fondamentale dei doveri a cui tali vertici si sono sottoposti con il giuramento di fedeltà alla Repubblica e con la promessa solenne di operare nell’interesse esclusivo della nazione.
Ecco due esempi concreti di tali «responsabilità politiche». 1) La decisione del presidente del Consiglio Aldo Moro – mai revocata dai capi di governo e dai ministri della Difesa succedutisi fino al gennaio 1991 – di apporre il segreto di Stato, con il determinante contributo del sottosegretario Francesco Cossiga, sulle parti della relazione Beolchini e della relazione Manes, del 28 marzo e del 15 giugno 1967 rispettivamente, che documentavano le «deviazioni» del Sifar e di vari ufficiali dei Carabinieri concernenti sia le schedature di massa di esponenti del mondo politico, economico, militare e della società civile, sia la preparazione del piano Solo. 2) La decisione del ministro della Difesa Giulio Andreotti, assunta al termine di una riunione nel luglio 1974 con il generale Gianadelio Maletti, responsabile dell’ufficio “D” del Sid, di emendare («sfrondare il malloppo») le registrazioni dei colloqui effettuati dal capitano Antonio Labruna con alcuni protagonisti del cosiddetto tentato golpe Borghese e di occultare così alla magistratura l’identità di congiurati eccellenti e di primo piano nella strategia della tensione, quali il capo della loggia P2 Licio Gelli, il capo di Avanguardia Nazionale, Stefano Delle Chiaie, e l’ammiraglio piduista Giovanni Torrisi poi divenuto capo di stato maggiore della Difesa.
«Responsabilità politiche» che disegnano uno scenario davvero incredibile, dominato dalla condotta di alti esponenti dell’Esecutivo che, consapevoli o ignari delle conseguenze sull’integrità fisica delle persone e dei riverberi sulle istituzioni, hanno scelto di dare copertura o comunque di non contrastare adeguatamente l’attività illegale e destabilizzante di organi infedeli degli apparati di sicurezza: uno scenario che il tempo trascorso non cancella e non deve cancellare, se si vuole che verità storiche e verità giudiziarie convergano in una consapevolezza collettiva necessaria alla riconciliazione.
Pubblicato venerdì 20 Dicembre 2019
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