Non è facile trasmettere la memoria delle stragi nazifasciste in Italia. E, spiega Marco De Paolis, Procuratore generale militare che in poco più di vent’anni è riuscito a ricostruire 450 casi, istruendo 18 processi con la condanna di 60 criminali di guerra nazisti per le stragi nei confronti di militari e civili italiani, anche una mostra come “Nonostante il lungo tempo trascorso”, visitabile al Sacrario delle Bandiere delle Forze Armate fino al prossimo 30 settembre, può essere fondamentale: perché forse proprio i ragazzi e i bambini potranno meglio capire cos’è accaduto negli anni di guerra da parte degli occupanti tedeschi, ma anche dei repubblichini fascisti della Rsi, trasmettendo i sentimenti provati alla generazione più disattenta a queste memorie, quella dei quaranta-cinquantenni. E resta sullo sfondo la domanda: perché l’Italia ha voluto così facilmente dimenticare o trascurare queste tragedie?
Procuratore De Paolis, una mostra interattiva è sicuramente più fruibile dai giovanissimi. Ma nella scuola di queste stragi si parla poco, e nelle famiglie la trasmissione della memoria si sta facendo sempre più rara… quindi, è a loro che ci si rivolge?
Diciamo che, riprendendo il motto di una scuola di salvamento nautico toscana “Papà ti salvo io!”. Insegnare ai bambini la memoria è come l’educazione nautica: loro la apprendono e magari la si riesce a far arrivare ai genitori. Devo dire che i più giovani, anche dai quindici ai vent’anni, li vedo più interessati della generazione dei loro genitori. Non è un caso che nelle centinaia di colloqui che ho avuto con sopravvissuti alle stragi o loro familiari, abbiamo notato come loro stessi avessero avuto più facilità a parlarne con i nipoti che non con i propri figli. E peraltro nei processi dei primi anni Cinquanta c’erano testimoni adulti, che in qualche modo hanno partecipato; chi era un bambino, invece, con l’insabbiamento di questi fatti negli anni 60 e oltre, ha deciso di tacere, non si parlava più di stragi se non con la retorica delle commemorazioni, delle cerimonie. Quelli che erano bambini, invece, sono cresciuti e hanno cominciato a ricordare in maniera diversa. Erano maturi, quasi anziani quando hanno iniziato a parlarne. Spesso, ripeto, più facilmente con i nipoti o i bambini delle scuole.
Nella sua esperienza ha incontrato superstiti e familiari di stragi tremende, da Sant’Anna di Stazzema a Marzabotto, da Vinca a Civitella: che sentimenti, che emozioni le hanno espresso?
Per chi c’era, e quindi mi riferisco ai superstiti, c’era tanto dolore. Composto, prevalentemente, ma un dolore, un segno indelebile che marca queste persone, togliendo loro il sorriso. I superstiti che già è una situazione diversa dai familiari chi c’era nella strage, lì non c’è tanta rabbia, c’è tanto dolore, composto, prevalentemente , che è un segno indelebile che marca queste persone, togliendo loro il sorriso. Enrico Pieri, che ha perso 11 familiari a Sant’Anna di Stazzema, non l’ho mai visto sorridere. Ma c’è anche l’atteggiamento di quanti non capiscono cosa sia accaduto, perché non c’è nulla da capire. C’è una teste di Marzabotto che aveva allora 16 anni, che parlando delle vittime dice: “che cosa mai avranno commesso per meritare questo”. Uno smarrimento dovuto alla incapacità e impossibilità di delimitare questa esperienza così devastante”.
Ogni strage viene raccontata nella mostra con documenti, fotografie, ma anche materiali interattivi. Dietro c’è il suo lavoro di ricerca e ricostruzione di questi fatti tremendi: c’è stata una vicenda che l’ha colpita più delle altre?
Non c’è stata una strage che mi abbia colpito più di altre, quando pensavo di aver raggiunto il massimo, ce n’era un’altra con le stesse caratteristiche. Forse potrei dire Sant’Anna, non il primo processo bensì il più grande… ma sbaglierei.
La ricerca dei responsabili delle stragi, la denuncia di ciò che era nascosto nell’Armadio della vergogna sembra essersi conclusa, ora è il tempo delle testimonianze e dell’approfondimento storico. Ma davvero non resta altro su cui indagare?
Dal punto di vista giudiziario abbiamo finito, perché indagini non ce ne sono più, poi però se domani dovesse uscire da qualche archivio qualcosa utile agli storici, ben venga.
È vero però che la Germania, non senza fatica e dolore, ha comunque affrontato il suo passato, non ha nascosto né i lager né le responsabilità dei militari delle SS ma anche della Wehrmacht. Lei, peraltro, ha ricevuto un’alta onorificenza tedesca proprio per il suo lavoro di ricerca e denuncia dei responsabili delle stragi. Perché l’Italia non ha fatto altrettanto? Un problema politico o una mancata Norimberga?
Non sbaglia, è così. I tedeschi hanno fatto più di noi: sono andato a Auschwitz più volte con i viaggi della Memoria e lo dicono anche gli ebrei. In Germania parlare oggi di nazismo e fare delle iniziative, come dare onorificenze, lavorare sulla memoria, significa non avere particolari problemi nel farlo, l’opinione pubblica lo accetta. In Italia, ogni cosa che viene organizzata sulla Resistenza e la Liberazione spacca, perché trova consensi da un lato e dall’altra innesca un meccanismo di delegittimazione e ridimensionamento per poter contrastare ciò che si dice a favore. Perché? Probabilmente un po’ di responsabilità c’è anche da parte di chi ha voluto, dopo la guerra, appropriarsi completamente di una pagina della storia dandole una colorazione politica e spingendo l’altra parte a negarla.
In questo panorama c’è anche il lungo silenzio sulla Resistenza dei militari. Pensiamo alle difficoltà che ebbe Alessandro Natta nel pubblicare il suo libro, L’altra Resistenza, sugli internati militari italiani. Nella mostra invece se ne parla molto, vero?
Sì, una delle cose che mi sono piaciute quando il generale Vecciarelli, capo di Stato maggiore della Difesa, mi ha chiesto di fare questa mostra, che deve essere un tassello preliminare per la costruzione di un centro di documentazione sui processi delle stragi, è aver avuto l’occasione di parlare di cose di cui si parla troppo poco, come la Resistenza dei militari, che non potevano essere considerati dei pericolosi sovversivi o militanti comunisti. L’unione di queste forze è un’unione che dovrebbe far riflettere, oggi. Uno dei valori della mostra è proprio il fatto di far conoscere l’attività e la voglia di riscatto dei militari dopo l’armistizio.
La mostra è ricca di materiali e di spunti di riflessione, ma ha una durata limitata: inaugurata il 9 settembre, chiude il 30. Non c’è idea di riprenderla o renderla itinerante?
Purtroppo il covid ha impedito di inaugurarla, com’era previsto, lo scorso 25 aprile. Però ho chiesto al ministro della Difesa Guerini di renderla itinerante, lui si è preso l’impegno di farlo e ci stiamo lavorando, si sta attivando lo Stato maggiore. Per me, che ho impegnato vent’anni di vita e di lavoro su questi temi, sarà un grande onore. E poi, non dimentichiamo che ci sarà, spero in tempi brevi, il centro di documentazione sulle stragi.
Una domanda personale: trovandosi di fronte gli ex nazisti, che persone erano e con che sentimento li ha affrontati?
Ci sono state persone in parte diverse, perché cinquanta o sessant’anni erano passati. Erano quelli che ricevevano gli ordini, ma ho provato un senso di disagio. Ho conosciuto invece pochi di quelli che decidevano perché erano più adulti durante la guerra e negli anni Duemila non c’erano più.
Pubblicato mercoledì 15 Settembre 2021
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