La storia dell’8 settembre come disfatta militare – raccontata su Patria Indipendente da Claudio Vercelli – rende più chiara la storia generale di quel giorno e di ciò che lo generò. Il crollo militare enfatizza il crollo dello Stato e delle istituzioni e contribuisce in modo decisivo a spiegarlo. Così come la storia della pur breve e disperata resistenza militare all’invasore nazista sviluppatasi l’8 settembre e in alcuni, pochi, giorni successivi, è assai significativa per comprendere come il popolo italiano, nella sventura, abbia ritrovato un nuovo senso di appartenenza nazionale: dalle ceneri dell’8 settembre nacquero la Resistenza e una nuova patria. Un nuovo modo di essere italiani, che per molti significò la prosecuzione degli ideali rivoluzionari del Risorgimento rimasti inattuati. Emerge dagli articoli di Vercelli così come dal resoconto, sempre su Patria Indipendente, dell’iniziativa dell’Anpi di Genova – Sestri Ponente.
La coscienza di cosa fosse stato il fascismo, la cui scelta di entrare in guerra nel 1940 era all’origine della catastrofe, innescò una reazione contro l’invasore nazista, intrisa di solidarietà civile, che fu inaspettata. “Lo scatenarsi di un tendenziale bellum omnium contra omnes – ha scritto Claudio Pavone – trovò un contrappeso nell’aiuto che disinteressatamente si prestavano persone tra loro sconosciute”. Si pensi all’aiuto ai soldati sbandati: ognuno ebbe il suo abito civile. La fiducia nel prossimo fu davvero un punto di appoggio. All’inizio si trattò di un impegno personale, l’ancoraggio politico mancava ancora. Ma un’Italia nuova stava nascendo.
Anche nelle Forze armate possiamo cogliere lo sfaldamento e la reazione a esso: lo sfascio degli alti comandi e la resistenza militare di reparti lasciati senza ordini. Quasi un miracolo, nella situazione data. Anche i militari fecero scelte molto diverse, in base alla propria coscienza. Vercelli ha fornito il quadro riguardante i nostri due milioni di militari: in gran parte, 700 mila, furono deportati in Germania, ma quasi tutti si rifiutarono di combattere a fianco dei tedeschi, solo 100 mila si resero disponibili, dopo un duro inverno di prigionia, a lavorare per la Germania; un’altra parte decise di combattere insieme agli Alleati, nel Sud d’Italia; una terza parte diede vita da subito alla Resistenza nei territori occupati; una componente si appartò e non fece alcuna scelta; una parte minoritaria, infine, si schierò con i nazifascisti.
La Spezia, città nella quale dal novembre 1942 fu spostato da Taranto, per meglio proteggerle, il grosso delle forze di battaglia della Marina, è un punto di osservazione privilegiato per comprendere questi fenomeni. Se ne è discusso nel convegno “8 settembre 1943-2023”, organizzato l’8 settembre scorso dal Comitato Unitario provinciale della Resistenza della Spezia, dal Comune e dalla Provincia.
L’8 settembre i soldati tedeschi erano tutti piazzati: l’Italia era già stata occupata ad agosto, senza che il governo Badoglio avesse reagito. La città era circondata. Doveva essere difesa dalla Quinta Armata dell’Esercito, diretta dal generale Mario Caracciolo, che si distinse per la volontà di resistere all’invasore, nonostante che gli ordini superiori contenessero un insanabile conflitto di obiettivi.
La sera dell’8 settembre il capo del Comando supremo generale Vittorio Ambrosio lasciava ai comandanti dell’esercito piena libertà di “assumere nei confronti dei tedeschi quell’atteggiamento che apparirà meglio adeguato alla situazione”. Da un lato l’ordine diceva: “tutte le truppe di qualsiasi arma dovranno reagire immediatamente et energicamente et senza speciale ordine at ogni violenza armata germanica et della popolazione in modo da evitare di essere disarmati e sopraffatti”, mentre la frase successiva suonava: “Non deve però essere presa iniziativa di atti ostili contro i germanici”. Caracciolo fu coinvolto in uno scontro, mentre si trasferiva da Orte a Firenze, vittorioso proprio per gli ordini immediati da lui dati.
Le due divisioni preposte alla difesa di Spezia, la Rovigo e le Alpi Graie, al comando del generale Carlo Rossi, poterono dar vita solo a episodi isolati. Ma riuscirono a ritardare l’avanzata dei tedeschi, facendo fallire il loro intento di catturare le navi italiane. È vero che il 9 settembre a mezzogiorno la città passò sotto il pieno controllo dei tedeschi, e che i soldati sbandarono. Ma, come emerge in molti studi sia sull’Esercito che sulla Marina, all’inizio le divisioni, soprattutto le Alpi Graie, ressero quel tanto che consentì alla flotta di partire. La disfatta dell’Esercito ci fu il 9 settembre, e si concluse definitivamente la sera del 10. Leggiamo il testo del 2015 di Giuliani Manzari, dell’Ufficio Storico della Marina: “Il piano [della Marina] fu rapidamente attuato senza interferenze tedesche, grazie anche alla resistenza opposta dagli sparuti reparti delle […] divisioni alpina, Alpi Graie, e di fanteria, Rovigo che, pur senza ordini precisi, cercarono di contrastare l’azione tedesca, condotta dalle divisioni di fanteria 65ª e 305ª, riuscendo a ritardarne la marcia verso La Spezia, contribuendo, in tal modo, a far fallire l’attacco tedesco inteso a impadronirsi delle navi italiane”.
In quella situazione era chiaro che non c’era alcuna possibilità di uscire vittoriosi dalla lotta contro i tedeschi: già il 9 settembre anche La Spezia era sotto il loro pieno controllo. Ma tanti militari, in Italia e all’estero, preferirono osare. Il valore morale e civile della loro scelta è enorme. E in qualche caso diede un contributo decisivo: come per la flotta. La salvezza di gran parte delle nostre navi, che riuscirono a riparare nelle acque controllate dagli Alleati, fu importante non solo perché nella guerra contro il nazifascismo il naviglio italiano avrebbe potuto essere utile, diversamente dalle forze possedute da Esercito e Aeronautica, ma anche perché dimostra ciò che si sarebbe potuto fare da parte dell’Esercito. E perché dimostra che nella Marina si fece ciò che mancò per le altre armi: l’emanazione di disposizioni di condotta dopo l’armistizio da parte del governo Badoglio, che in gran parte furono rispettate.
L’uomo chiave della Marina in quegli anni fu l’ammiraglio Raffaele de Courten, ministro dal 1943 al 1946. Ai primi di agosto era ancora fino in fondo anti angloamericano, così come Carlo Bergamini, comandante delle forze navali di stanza alla Spezia. Ed entrambi furono, all’inizio, violentemente contrari all’armistizio. L’opzione dell’autoaffondamento, per non consegnare la flotta agli Alleati, rimase aperta fino all’ultimo, e oltre un centinaio di navi andarono perdute. Il 7 settembre sera de Courten e Bergamini propendevano ancora per questa opzione. De Courten si convinse della necessità dell’armistizio l’8 settembre sera, mentre Bergamini resisteva. Fu persuaso nella serata: “le navi ti sono state affidate dalla Patria”, gli disse de Courten, che sperava ancora di convincere gli angloamericani a fare entrare le navi in porti nazionali e non angloamericani, tentando quindi di ignorare una parte delle norme armistiziali.
Forse la partenza della corazzata Roma avvenne troppo tardi, nella notte tra l’8 e il 9. L’aviazione tedesca affondò la nave nel pomeriggio del 9, al largo dell’Asinara. I caduti furono 1.353, Bergamini compreso.
È rimasto in vita un unico superstite della tragedia, lo spezzino Gustavo Bellazzini. Sabato 9 settembre, ottant’anni dopo, alla bella età di 102 anni, ha partecipato alla manifestazione al largo di Porto Torres, in cui è intervenuto il Presidente della Repubblica. Gli ho parlato per telefono il 7 settembre sera, dopo che era appena arrivato ad Alghero. Si è raccomandato ancora una volta di non disperdere la memoria. Tante volte ho ascoltato le sue parole: “Avevo ventidue anni, ero imbarcato come fuochista. La prima bomba, poi la seconda, la nave era distrutta. Mi lanciai in mare quando ormai l’acqua era arrivata al trincarino, nuotai per uscire dai gorghi. Raggiunsi una nave della scorta a duecento metri di distanza. Fui recuperato a bordo. Io sono qui ma il mio cuore è rimasto laggiù”.
Mattarella, nel discorso del 9 settembre, ha detto: “Da quel 9 settembre del 1943 prese inizio il riscatto nazionale, la lotta di Liberazione. Ad opera dei militari internati nei campi di concentramento in Germania, ai quali venne negato lo status di prigionieri di guerra. Dei martiri di Cefalonia. Dei combattenti nei Balcani e nelle isole del Mediterraneo. Dei reduci dalla Russia e dall’Africa. Da tutti loro si levò la condanna nei confronti di un regime che si era unito al nazismo, tradendo i valori autentici del popolo italiano. Si levò dai soldati e dai giovani che, rifiutando di servire il governo collaborazionista di Salò, salirono in montagna, costituendo le prime formazioni armate”. Il Presidente ha ancora una volta rammentato chi siamo e da dove veniamo. Furono, per la Marina, pagine drammatiche.
Nelle memorie di de Courten e nelle ricostruzioni storiche c’è tutto il dramma e la sofferenza di quelle ore. Il ministro scrisse della “manifestazione più chiara dello spirito di dedizione alla Patria che ha animato tutto il personale della Marina”. Le scelte furono sofferte, e attuate con contraddizioni: ma la sostanza fu questa. Il 63% della flotta seguì le regole armistiziali.
Chi parla di “morte della patria” non tiene conto non solo del patriottismo dei primi antifascisti e dei popolani che raccoglievano le armi abbandonate, magari ancora senza uno scopo preciso, ma anche della forma peculiare di patriottismo espressa da gran parte della Marina.
Certamente vi furono, nella Marina, forze contrarie all’armistizio. La più significativa, la X Mas di Junio Valerio Borghese, con sede al Muggiano della Spezia, passò al servizio dei tedeschi e si rese responsabile di crimini orrendi contro i partigiani e i civili che li sostenevano.
Ma il capitano del Crem, Renato Mazzolani venne alla lotta partigiana da quella stessa caserma del Muggiano dove operava Borghese. All’inizio del 1944 nacque il Fronte Clandestino della Marina, autore di numerosi sabotaggi. Mazzolani fu componente militare del Cln e comandante delle Sap, Squadre di azione patriottica, nel golfo. Il 20 dicembre 1944 cadde nelle mani dei nazifascisti. Sottoposto a due mesi di torture, il 20 febbraio 1945 si impiccò in cella per non parlare. Il gruppo Sap assunse il suo nome. Il 23 aprile 1945, sulla base delle direttive del Comando della IV Zona operativa, le Sap composte da uomini della Marina occuparono alla Spezia tutti gli uffici pubblici, prima che arrivassero gli Alleati e i partigiani dai monti.
La Marina ha costruito nel dopoguerra una visione della propria storia di istituzione “apolitica”, fedele alla bandiera e allo Stato. Ma c’è Stato e Stato: c’è lo Stato fascista alleato del nazismo e c’è lo Stato democratico nato dalla Resistenza che sconfisse nazismo e fascismo. È interesse stesso della Marina che questa distinzione appaia con maggiore nettezza. Ha ragione Claudio Vercelli: “Comunque si volessero vedere le cose, una frattura non più ricomponibile avrebbe diviso da allora in poi la storia stessa delle Forze armate, ovvero tra un prima e un dopo. Arrivando, sia pure in forme ibridate, quindi scarsamente leggibili ed interpretabili con i soli occhiali dell’ideologia di parte, fino ai giorni nostri. La scarsa lealtà agli ordinamenti costituzionali di una parte delle ricostituite Forze armate italiane dal 1945 in poi, si inscrive infatti in questa irrisolta ambiguità. Tale poiché il nodo di una piena fedeltà alle nuove istituzioni (democratiche, repubblicane e costituzionali) di contro al riconoscersi in un ruolo eversivo degli ordinamenti libertari, costituisce a tutt’oggi ancora un nodo irrisolto della storia del nostro Paese”.
Dobbiamo impegnarci perché l’ottantesimo della Lotta di Liberazione avvii una riflessione su come sciogliere del tutto questo “nodo irrisolto”. Va riconosciuta fino in fondo la “frattura”. Come ha detto Mattarella, il 9 settembre iniziò la lotta per “una nuova Italia”, che ricostituì “quella unità nazionale che il fascismo aveva spezzato”. Non ci fu mai un “fascismo buono”, nemmeno quello della Regia Marina.
Giorgio Pagano, storico, sindaco della Spezia dal 1997 al 2007, copresidente del Comitato provinciale Unitario della Resistenza della Spezia in rappresentanza dell’Anpi. È autore di numerosi libri, tra cui per Edizioni Cinque Terre: Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia (con Maria Cristina Mirabello); Sebben che siamo donne. Resistenza al femminile in IV Zona operativa, tra La Spezia e Lunigiana (con Maria Cristina Mirabello); Sao Tomè e Principe. Diario do centro do mundo; Eppur bisogna ardir. La Spezia partigiana 1943-1945; Non come tutti; Ripartiamo dalla polis; La sinistra la capra e il violino. Per Castelvecchi ha pubblicato Africa e Covid-19. Storie da un continente in bilico. Ha curato per ETS la pubblicazione del libro di Dino Grassi Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista, uscito nei giorni scorsi
Pubblicato martedì 12 Settembre 2023
Stampato il 03/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/anniversari/un-unico-sopravvissuto-allaffondamento-della-corazzata-roma/