La prima serata del Festival di Sanremo ha ospitato, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, una vera e propria lectio magistralis di Roberto Benigni per celebrare i 75 anni dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, preceduta dall’esecuzione, da parte di Gianni Morandi dell’Inno nazionale. Una scena che, a nostro parere, non sarebbe dispiaciuta ai Padri e alle Madri costituenti, ma che implica una scelta forse non del tutto consapevole da parte di chi l’ha proposta.
Affiancare il testo della Costituzione a Fratelli d’Italia, presuppone che i due testi esprimano una sostanziale omogeneità di valori. Si tratta di una considerazione a prima vista banale: Costituzione, inno e bandiera sono per tutti i regimi politici elementi simbolici forti e condivisi; chi li rifiuta si pone automaticamente al di fuori della comunità politica.
Nel caso italiano tuttavia la cosa è complicata non solo dalla distanza nel tempo – il Canto degli Italiani ha appena festeggiato 175 anni – ma dal fatto che i due testi nascono da due eventi storici ben distinti: il Risorgimento e la Resistenza (e la successiva fase costituente).
Affiancare Costituzione e Inno vuol dire quindi affermare l’esistenza di un nesso storico e valoriale tra il Risorgimento, la Resistenza (da cui la Costituzione è nata) e la Repubblica (che sulla Costituzione si fonda).
Si tratta di un’affermazione non da poco perché va a toccare i caratteri ideali e la natura stessa della nostra comunità politica. In altre parole: la Repubblica democratica nata dalla Resistenza e fondata sulla Costituzione può condividere i valori espressi nel testo di Fratelli d’Italia?
Prima di dare una risposta vale la pena guardarlo più da vicino questo inno, di cui cantiamo le parole senza mai davvero pensare a cosa vogliano dire.
Il Canto degli Italiani, nasce infatti come inno di guerra, una guerra di liberazione contro l’oppressore straniero ma con ben poche speranze di vittoria, almeno nell’immediato. Da qui quel senso di lutto e di consapevole tristezza che aleggia su tutto l’inno. Chi lo cantava era ben consapevole del destino che lo attendeva e lo affrontava con quella stessa coscienza e senso del dovere che ritroveremo in tante lettere di partigiani e di condannati a morte della Resistenza.
La natura “bellica” dell’Inno si rispecchia nella comunità che le sue parole disegnano: una band of brothers, paritaria e orizzontale al suo interno, ma fatta da soli uomini. Del resto la guerra è stata a lungo una questione da “maschi”, e la visione virile ed eroica del combattente come unico vero cittadino ha a lungo dominato anche l’immaginario democratico. Basti pensare alla fatica che hanno fatto a farsi accettare con pari dignità, accanto alla Resistenza armata, le resistenze civili o comunque disarmate, dagli internati militari alla protezione di ebrei e oppositori.
Del resto se le donne non ci sono nell’inno – anche se Mameli vi aveva dedicato una strofa poi stralciata – ci furono, non poche e non tutte a cucire bandiere, nel Risorgimento, da Antonietta De Pace a Giuditta Tavani Arquati, da Colomba Antonietti ad Ana Maria de Jesus Ribeiro, meglio conosciuta come Anita Garibaldi (donna e straniera).
E donna – in armi – è l’Italia che cinge il fatidico “elmo di Scipio”, cioè di Scipione l’Africano, un eroe che salva la patria dall’invasione straniera (quella dei Cartaginesi di Annibale) e allo stesso tempo le istituzioni repubblicane, non quello di Cesare conquistatore e dittatore. E non a caso il Risorgimento italiano diventerà un punto di riferimento per le lotte anti-imperialiste e anticoloniali del XIX e del XX secolo. Del resto il Canto degli Italiani è uno dei pochi inni nazionali ‘internazionalisti’, dal “sangue polacco” (di allora) ricordato accanto a quello italiano, a quei “popoli” cui “l’unione e l’amore” – in una strofa assai poco militarista – rivelano “le vie del Signore”.
Ma che tipo di Stato nazionale è quello immaginato da Mameli? Già la biografia del poeta, morto a 21 anni nella difesa della Repubblica Romana, basterebbe a dare una risposta, ma, restando al testo dell’inno, al riferimento a Scipione e alla Roma repubblicana, Mameli accosta, in alcuni celebri versi, una ricostruzione della storia d’Italia, da Legnano ai Vespri, passando per Ferruccio e Balilla, tutta giocata sulla contrapposizione tra un popolo, quello italiano, governato da istituzioni democratiche e repubblicane – i Comuni – e l’oppressore monarchico e straniero. Un’Italia dunque – per riprendere le parole del ‘padre spirituale’ dell’inno, Giuseppe Mazzini, non solo “una e indipendente” ma anche “libera e repubblicana”.
In conclusione allora quale è il rapporto tra il Canto degli Italiani, e più ampiamente il Risorgimento da una parte e la Resistenza e la Repubblica con la Costituzione dall’altra?
La risposta, come spesso capita, è sotto i nostri occhi, in un testo molto conosciuto, forse il più conosciuto e citato tra quanti parlano della nostra Costituzione, il Discorso agli studenti di Piero Calamandrei. Un testo costruito proprio sul dialogo tra le “grandi voci lontane, grandi nomi lontani”, quelle di Mazzini, Garibaldi, Cavour, Cattaneo, e gli “umili nomi, voci recenti”, quelle dei partigiani e di tutte le italiane e gli italiani morti “per riscattare la libertà e la dignità”.
Da quel dialogo è nata la nostra Costituzione.
Pietro Finelli, direttore scientifico della Domus Mazziniana
Pubblicato martedì 18 Aprile 2023
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