Martedì 24 ottobre 1922 a Napoli pioveva, alle sei del mattino era ancora buio e cominciavano ad accendersi luci nelle case. I negozi erano chiusi, tranne i caffè affollati da cui si spandeva sui marciapiedi un aroma denso, e i chioschi dei giornali che esponevano in grande evidenza molte copie del Popolo d’Italia.
Per le strade correvano camion in cui si pigiavano uomini con gagliardetti e manganelli, gruppi di camicie nere arrivavano dai vicoli, dai paesi intorno a Napoli, dalla stazione dove erano giunti i treni speciali. Nel porto sbarcavano i fascisti siciliani, e tutti si diressero verso piazza Plebiscito per la grande adunata. Nei pressi del Museo nazionale da qualche parte cadde una pietra sulla folla in marcia, e in risposta uno sparo alla cieca uccise Carolina Santini affacciata a guardare la sfilata. Aveva ottant’anni.
Mentre la marea nera sfilava per via Roma un debole vento scompigliava le nuvole da cui spuntò indeciso il sole. Alle otto del mattino smise di piovere, piazza Plebiscito era affollata di camicie nere e continuavano ad arrivare le squadre con i labari e i gagliardetti.
Davanti al teatro San Carlo c’erano transenne, dai varchi sorvegliati passarono il commissario regio che a Napoli aveva la funzione di sindaco, alti militari, onorevoli, intellettuali come Benedetto Croce, giornalisti, volti noti, signore della buona società, fascisti di grado superiore. Si disse che erano seimila ma il San Carlo contiene a malapena millecinquecento persone. Comunque era pieno. Alle dieci l’uomo di Predappio con la camicia nera e una fascia tricolore apparve sul palco del teatro per aprire quello che era stato annunziato come il Consiglio nazionale del Partito Nazionale Fascista.
“Siamo venuti a Napoli – disse iniziando il discorso – da ogni parte d’Italia a compiere un rito di fraternità e amore. Sono qui con noi i fratelli della sponda dalmatica tradita, sono qui i fascisti di Trieste, dell’Istria, della Venezia tridentina, di tutta l’Italia settentrionale; sono qui anche i fascisti delle isole, della Sicilia e della Sardegna. Tutti qui ad affermare serenamente, categoricamente la nostra indistruttibile fede unitaria”. E indicò subito i termini del dilemma: il fascismo doveva diventare Stato, perché questo voleva, attraverso le conquiste parlamentari o l’insurrezione? La sua risposta era stata nettamente legalitaria. Aveva chiesto lo scioglimento delle Camere, elezioni immediate con una legge elettorale riformata e cinque ministeri per i suoi, oltre al Commissariato dell’Aviazione: gli Esteri: la Guerra, la Marina, il Lavoro e i Lavori pubblici. Per sé niente, voleva rimanere a capo del Fascismo con le mani libere. Che cosa gli avevano risposto? Nulla!
“Allora, o signori, il problema nei suoi termini storici diventa un problema di forza. Ecco perché abbiamo raccolte e potentemente inquadrate e ferreamente disciplinate le nostre legioni, perché se l’urto dovesse decidersi sul terreno della forza, la vittoria tocchi a noi. Noi ne siamo degni”.
Lo applaudirono. Quanto a tutto l’armamentario statale, continuò, la monarchia sarebbe restata il simbolo sacro della Patria unita e il parlamento, un inutile giocattolo che nulla aveva a che fare con la monarchia, creato per contentare una parte del popolo, non gli sarebbe stato tolto finché si fosse comportato bene. Quanto all’esercito, sarebbe rimasto un’istituzione rispettata e onorata accanto alla vera spina dorsale della nazione, la milizia fascista.
Mentre nel teatro perfino Benedetto Croce applaudiva, oltre le transenne la folla aspettava Mussolini. Al suo arrivo nella piazza si levò un fragoroso “Eia eia eia alalà”, le bandiere sventolarono, si formarono le squadre con i cartelli delle varie provenienze e le camicie nere condotte dal comandante napoletano di zona Aurelio Padovani ripresero a sfilare per recarsi al campo sportivo dell’Arenaccia, dove il capo avrebbe passato in rivista i suoi uomini schierati sul terreno melmoso per la pioggia della notte. In attesa c’era il servizio d’ordine a cavallo e in bicicletta, le transenne bianche delimitavano lo spazio in cui il terreno era diventato intransitabile; i fascisti si riversarono nello stadio e all’inizio tentarono di formare ordinatamente le squadre ma erano troppi, e la massa si mischiò in una sola, indistinta calca nera irta di bandiere. Il capo passò seguito dal suo stato maggiore che si andava affollando sempre di più, fendeva a fatica lo spazio compresso di uomini e da diverse parti gli giungeva il grido: “A Roma! A Roma!”.
Poi si tornò per le strade di Napoli, di nuovo verso piazza Plebiscito dove il capo avrebbe parlato dal palco ornato di palme che lo attendeva davanti alla chiesa di San Francesco di Paola, sotto un grande tricolore senza lo stemma dei Savoia.
Questo secondo discorso aveva tutt’altro tono rispetto a quello del mattino, e Mussolini lo concluse con un’impennata retorica e un messaggio: “Camicie nere di Napoli e di tutta Italia! Oggi, senza colpo ferire, abbiamo conquistato l’anima vibrante di Napoli, l’anima ardente di tutto il Mezzogiorno d’Italia. Ma io vi dico, con tutta la solennità che il momento impone: o ci daranno il governo o lo prenderemo calando su Roma. E io vi dico e vi giuro che gli ordini, se sarà necessario, verranno!”
Prima di lasciare piazza Plebiscito ordinò una spontanea manifestazione di simpatia per l’esercito davanti a palazzo Salerno, sede del comando della Decima Armata, poi l’adunata si sciolse verso il nuovo obiettivo, Roma. Un gruppo di camicie nere passò sotto la redazione napoletana del giornale Il Mondo e forse per abitudine, forse per finire la giornata in gloria, vi entrò sfondando la porta. Spinsero fuori coloro che erano al lavoro, gettarono ogni cosa, mobili, carte e documenti per la strada e si dettero al tripudio di un grande falò. Alle 19,30 giunse a Roma un telegramma del prefetto di Napoli Angelo Pesce: “Manifestazione fascista si è svolta nell’ordine. Nulla da segnalare”.
Quella sera Mussolini nell’hotel Vesuvio, dove alloggiava, riunì il suo Stato maggiore e affidò l’organizzazione e il comando della marcia su Roma a Cesare De Vecchi, Italo Balbo, Emilio De Bono e Michele Bianchi. La notte partì per Milano dove avrebbe atteso le notizie, prudentemente vicino al confine svizzero se il re avesse firmato lo stato d’assedio.
Ma il re era indeciso.
Se avesse firmato, come avrebbe dovuto, lo stato d’assedio per Roma mobilitando l’esercito, i fatti di Napoli gli facevano temere la guerra civile, e ciò lo avrebbe condotto all’abdicazione a favore del cugino, il duca d’Aosta Emanuele Filiberto pronto ad appoggiare il fascismo. D’altra parte con il ritorno all’ordine promesso da Mussolini si sarebbe sbarazzato dei fastidiosi bolscevichi. Non firmò.
Pubblicato sabato 24 Ottobre 2020
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