Ho visitato Auschwitz e Birkenau in un torrido luglio di qualche anno fa. Avevo occhi famelici di immagini e mente vorace di sapere, volevo immagazzinare ogni particolare, non perdere niente. Avevo, quel giorno, la sensazione che ancora si sentisse odore di bruciato, che ancora echeggiassero i lamenti, che tra i fili spinati di quella triste distesa ancora vagassero fantasmi di uomini con un pigiama a righe.
Auschwitz costituiva per me l’apice di una sorta di viaggio della memoria, che già mi aveva portato – negli anni – ai sacrari militari delle Alpi, al cimitero monumentale di Re di Puglia, alla foiba di Basovizza, al campo di Fossoli, alla Risiera di San Sabba, a Marzabotto, a Sant’Anna di Stazzema e ai ghetti ebraici di Trieste, Cracovia e Praga.
Negli anni passati a scuola (sia da docente sia da dirigente) mi sono sempre preoccupato di sollecitare una riflessione sul passato che fosse problematica: era necessario per capire (tutti insieme) la sostanziale differenza tra il significato dei ricordi, delle testimonianze e il percorso che quelle testimonianze potevano e dovevano avere dentro ogni uomo. Ho ancora nelle orecchie la voce di una mia collega, accompagnatrice di una classe “vivace” del liceo in cui ero preside che al telefono mi disse: “dopo la visita ad Auschwitz i ragazzi sono cambiati. È come se fossero diventati, all’improvviso, più responsabili, più maturi. Alcuni, poi, sono diventati addirittura silenziosi”.
Non poteva essere diversamente. Me ne ero reso maggiormente conto in quella giornata estiva di qualche anno fa. La trasformazione discendeva dagli sguardi spiritati delle foto in bianco e nero degli internati, dalle bacheche con i vestiti da uomo, da donna e da bambino, o con le innumerevoli scarpe appaiate e spaiate, le valigie grandi e piccole; le raccolte di oggetti di uso giornaliero, come rasoi, pennelli da barba, spazzolini per i denti, fasciatoi, giocattoli, pettini, o le sette tonnellate di capelli già pronti per l’imballo da avviare alla produzione di tessuti negli stabilimenti della Baviera.
Sembrava quasi di doversi difendere dalle esalazioni dello Zyklon B, di dover evitare il camice vagante del dottor Mengele e di respirare con fatica tra le cappe di anneriti camini, dove ancora “il fumo saliva lento”, come cantava Francesco Guccini proprio nel brano Auschwitz.
La memoria era diventata evento a carattere pubblico per dei visitatori accaldati, come lo poteva essere per una classe di studenti o per un gruppo di viaggiatori spinto da sete di conoscenza. Era riuscita, la memoria, a costruire una coscienza pubblica, a rinsaldare la consapevolezza di un vuoto tra un prima e un dopo. Quella memoria era servita (e serve) a farci domande su noi stessi, per eliminare il mondo degli spettatori, quelli che non si schierano da nessuna parte: gli indifferenti così odiati da Gramsci.
Ovvio, perciò, che il 27 gennaio, il Giorno della Memoria, debba necessariamente costituire un’opportunità culturale e civile, uno dei modi possibili di affrontare una tragedia che riguarda l’umanità passandola al setaccio delle microstorie, al cui centro ci sono sentimenti, sistemi di relazioni, legami e conflitti, intrecci e passioni. Insomma: la vita, una questione di democrazia, un valore prescrittivo, una metafora della condanna di dittature e razzismo.
Spesso, però, quando si fanno i conti con uno smunto bagaglio culturale, si corre il rischio che il passato possa essere utilizzato in chiave politica, o meglio, faziosa.
Così il Giorno della Memoria – ma anche ogni altra data del calendario civile – finisce con l’essere svuotato di significato, specie se vissuto per infoltire il mondo di chi resta alla finestra o per creare (anche inconsapevolmente) uno squilibrio forte fra l’evento e la conoscenza storica. E questo capita, maggiormente, quando la politica (con la p minuscola) si impossessa di un simbolo e, contravvenendo a un piano sia etico che culturale, macina gli anniversari a guisa di appuntamenti standardizzati, evitando una riflessione critica sul passato e assumendo, con il ruolo di decisore dei destini umani, anche quello delle scelte di senso cognitivo.
Il 27 gennaio è un’occasione memoriale che riguarda tutti noi ma che rischia di essere sminuita e ridotta a mera commemorazione di defunti o – peggio ancora – assunta a dovere istituzionale (in disequilibrio con il diritto di conoscere la storia, gli uomini, gli eventi, i sentimenti), che niente ha a che vedere con la memoria attiva, quel costante insegnamento-monito per i vivi.
Nel 1983, appena finito di leggere Se questo è un uomo, Monica Perosino, una undicenne torinese, scrisse a Primo Levi per chiedergli: “perché nessuno ha fatto niente per fermare lo sterminio degli ebrei? Tutti i tedeschi, quindi, erano cattivi?”. Lo scrittore, testimone e sopravvissuto, rispose con molta lucidità: “Piuttosto che di crudeltà, accuserei i tedeschi di allora di egoismo, di indifferenza e soprattutto di ignoranza volontaria, perché chi voleva veramente conoscere la verità poteva conoscerla, e farla conoscere, anche senza correre eccessivi rischi”.
L’ignoranza è una piaga gravissima della società contemporanea. Piaga purulenta è, poi, l’ignoranza volontaria a cui fa riferimento Levi, che sempre denota mancanza di maturità e di impegno sociale, politico, culturale e civile. Ma l’ignoranza volontaria, quasi sempre, fa star bene chi ne è portatore, perché azzera i conti o evita addirittura di far regolare i conti con un piccolo bagaglio culturale. Quello stesso piccolo bagaglio culturale che – soprattutto se si fa coincidere il Giorno della Memoria con un’occasione di vetrina – finisce col non far comprendere che lo sradicamento di una comunità si compie, soprattutto, con le bugie di comodo, con le verità parziali, con le complicità e con i silenzi.
Ciro Raia, presidente provinciale Anpi Napoli
Pubblicato giovedì 27 Gennaio 2022
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