Può capitare che persone o istituzioni chiamate, proprio per la loro missione o alto incarico, a farsi garanti di un principio generale di obiettività e di equilibrio, in determinate circostanze si lascino andare a giudizi e valutazioni che appaiono guidati, più che dalla necessaria ponderazione, da un frettoloso desiderio di assecondare quelli che sembrano essere gli orientamenti prevalenti nel senso comune o, più probabilmente, risultano più congeniali alle forze politiche che si prevede possano essere maggioritarie in un prossimo futuro.
È forse questo il caso, poco edificante, della circolare 10 febbraio 2022, Giorno del ricordo – Opportunità di apprendimento sottoscritta dal capo del Dipartimento del sistema educativo di formazione e istruzione del ministero dell’Istruzione. Il documento si lancia spericolatamente in una serie di considerazioni che sembrano fatte apposta per assecondare una determinata interpretazione degli eventi che vengono celebrati in occasione della Giornata del Ricordo. Non è un mistero che questa ricorrenza sia diventata da tempo un terreno di contesa tra quanti, nel mondo delle istituzioni, della formazione e della ricerca storica cerchino, anche da posizioni divergenti, di trarne un’occasione per approfondire la conoscenza di eventi particolarmente drammatici, e quanti, a destra dello schieramento politico, ne facciano invece un pretesto per acquisire una peraltro caduca visibilità, rispolverando una frusta ideologia sciovinista, nostalgica e animata da un incontenibile razzismo antislavo.
Lo schema perseguito dalla destra è assai semplice: chiunque non si allinei a una lettura dei tragici eventi dell’area alto-adriatica nel periodo compreso tra il 1943 e la metà degli anni 50 basata sull’equiparazione tra Shoah e foibe è un negazionista e/o un riduzionista, e in questa duplice categoria sono inclusi i numerosi e autorevoli studiosi che hanno contribuito a ricostruire gli atti di efferata violenza perpetrati dalle forze armate e dagli apparati di sicurezza jugoslavi, e ritengono che quegli stessi atti siano stati mossi da un intento diverso da quello della pulizia etnica, rispondendo piuttosto a una pluralità di motivazioni non riconducibili esclusivamente all’animosità contro gli italiani, pure diffusa tra le forze armate jugoslave (e non senza qualche valida ragione).
Partendo da queste premesse, anche in occasione dello scorso 10 febbraio sono stati riproposti schemi argomentativi atti a suscitare più emotività che ragionamenti. Tra gli altri, come ogni anno, è si è ripresentato il mantra, caro a Lega e Fratelli d’Italia, per cui chi (senza peraltro negare la dimensione del massacro, ma cercando di ricondurlo a una valutazione meglio articolata) ritiene priva di fondamento l’equiparazione tra Shoah e foibe vuole sottintendere l’esistenza di “morti di serie A e morti di serie B”: un goffo tentativo di confondere i due livelli della pietas dovuta a tutte le vittime della violenza politica e/o razziale e quello della comprensione delle circostanze e della ragioni per le quali quella violenza prese corpo.
Questo modo di argomentare, peraltro, dimostra che sono proprio coloro che ogni anno, puntualmente, ripropongono questi discorsi, a fare un uso strumentale del lutto e del dolore. È appena il caso di ricordare che la scelta del 10 febbraio per la celebrazione della Giornata del Ricordo non è casuale, poiché comporta una contiguità cronologica con il Giorno della Memoria del 27 gennaio che la destra ha sfruttato abilmente, da un lato per riproporre surrettiziamente l’analogia tra la Shoah e le foibe, ma dall’altro per prospettare una assai poco lodevole ipotesi di spartizione memoriale che definisce un cupo e cinico perimetro entro il quale alcune tragedie storiche diventano appannaggio di una determinata parte politica, che le evoca per finalità meramente propagandistiche e giudica qualsiasi interpretazione degli eventi non perfettamente allineata alla stregua di un inaccettabile sconfinamento in un’area riservata.
Ma dato che negli anni non è stato possibile trovare un solo studioso, un solo ricercatore incline a leggere gli eventi del settembre del 1943 e del maggio 1945 nell’area istriana e giuliana in termini di progetto genocidiario o di pulizia etnica, l’ultima spiaggia è di trasformare in verità incontrovertibile ciò che è stato ampiamente confutato dagli storici. Di qui, il progetto di legge promosso da Fratelli d’Italia che estende le sanzioni previste per il negazionismo della Shoah al cosiddetto “negazionismo delle foibe”. Ed ecco costruito il teorema: la legge afferma che gli eventi più o meno propriamente accomunati sotto l’espressione “foibe” furono un genocidio, e questa è la verità storica di Stato: chi non vi si allinea, a qualsiasi titolo, viene considerato un negazionista, e conseguentemente sanzionato. Già oggi, in alcune regioni amministrate da maggioranze di centro-destra sono state approvate mozioni che vincolano gli organi competenti a negare contributi finanziari o spazi pubblici a chi sostenga, sull’argomento, tesi storiografiche non gradite da chi governa.
Non c’è da sorprendersi: dato che non è più possibile ricorrere al manganello contro i dissidenti in modo generalizzato, si spera di potere un giorno utilizzare l’autorità della legge come una clava contro la libertà della ricerca storica, perché si sa che da quest’ultima non possono venire letture di quegli eventi che assecondino distorsioni a fini propagandistici. Sorprende pertanto che questo ruolo di assertore di una verità storica di Stato venga assunto da un ufficio del ministero dell’istruzione, con un la circolare sopra ricordata.
I molti che si sono levati a contestare questo infelice documento, l’Anpi in prima fila, ne hanno sottolineato il contenuto improvvisato, le analogie forzate, la scarsa conoscenza degli eventi richiamati, concentrandosi soprattutto sulla frase che gli organi di stampa hanno ampiamente diffuso: «il Giorno del ricordo e la conoscenza di quanto accaduto possono aiutare a comprendere che, in quel caso, la “categoria” umana che si voleva piegare e culturalmente nullificare era quella italiana. Poco tempo prima era accaduto, su scala europea, alla “categoria” degli ebrei. Con una atroce volontà di annientamento, mai sperimentata prima nella storia dell’umanità. Pochi decenni prima ancora era toccato alla “categoria” degli Armeni. Eppoi? Sempre vicino a noi, negli anni novanta, vittima è stata la “categoria” dei mussulmani di Srebrenica… Non serve proseguire».
In effetti, non serve proseguire; è sufficiente osservare che in questo testo, nel giro di poche righe vengono date due definizioni della Shoah tra loro diverse: viene indicata prima come effetto della volontà di “piegare e culturalmente nullificare la ‘categoria’ umana degli ebrei” e subito dopo come oggetto di una “atroce volontà di annientamento, mai sperimentata prima nella storia dell’umanità”.
Ora, se le parole hanno un senso, “piegare e culturalmente nullificare una categoria umana” è qualcosa di mostruoso, ma anche di molto diverso dall’annientamento, che fu, in effetti, il fine dell’azione di sterminio condotta dalla Germania nazista contro il popolo ebraico. Sovrapporre i due termini vuol dire creare confusione, poiché si stabilisce un’analogia imperfetta tra fatti diversi. Prima del 1943, fu il fascismo che tentò di piegare e nullificare culturalmente i popoli non italofoni che vivevano nei confini del Regno, anche ricorrendo alla violenza, nella Venezia Giulia, come nel Sud Tirolo e in Valle d’Aosta; ma sarebbe erroneo attribuire al regime fascista una volontà genocidiaria nei confronti degli slavi o delle altre minoranze, poiché i fini perseguiti erano quelli della subordinazione fino all’asservimento e dell’assimilazione forzata, ma non dell’annientamento fisico. I fatti evocati nella circolare ministeriale sono egualmente deprecabili dal punto di vista morale, ma vanno tenuti separati dal punto di vista dell’indagine storica, dato che la condanna etica di per sé non risolve il problema della comprensione di eventi che per essere intesi vanno esaminati nella loro singolarità, come ha saggiamente puntualizzato il ministro Bianchi.
Diceva Benedetto Croce che filosofare è distinguere, e se questo è vero, ciò significa che distinguere non è negare, ma comprendere. Negare che le vicende riconducibili al termine “foibe” abbiano corrisposto a una logica di pulizia etnica non vuole dire negare che furono commessi degli atti criminali, e tanto meno rinunciare a un lavoro di indagine che indichi con chiarezza vittime e carnefici. Un lavoro, sia detto per inciso, che la destra non ha mai mostrato di volere veramente intraprendere.
Utili e da meditare, a questo proposito, le pagine della relazione della Commissione storica italo-slovena:«(…) i giuliani favorevoli all’Italia considerarono l’occupazione jugoslava come il momento più buio della loro storia, anche perché essa si accompagnò nella zona di Trieste, nel Goriziano e nel Capodistriano ad un’ondata di violenza che trovò espressione nell’arresto di molte migliaia di persone, parte delle quali venne in più riprese rilasciata – in larga maggioranza italiani, ma anche sloveni contrari al progetto politico comunista jugoslavo – in centinaia di esecuzioni sommarie immediate, le cui vittime vennero in genere gettate nelle ‘foibe’ e nella deportazione di un gran numero di militari e civili, parte dei quali perì di stenti o venne liquidata nel corso dei trasferimenti, nelle carceri e nei campi di prigionia (fra i quali va ricordato quello di Borovnica) creati in diverse zone della Jugoslavia. Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l’impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo Stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell’avvento del regime comunista, e dell’annessione della Venezia Giulia al nuovo stato jugoslavo. L’impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario, che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l’animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani».
E, a proposito di storia, non si può non svolgere qualche altra osservazione su un altro passaggio della circolare. Leggiamo: «Che significa ricordare? Pensatori di tutti i tempi hanno riflettuto sul significato della parola che, di per sé, può già costituire occasione di riflessione critica con gli studenti. Riportare al cuore. Ricordare è, implicitamente, narrare il passato. E la narrazione, per sua natura, risente della rielaborazione della storia. Questa rappresenta inevitabilmente il sovrapporsi, alla realtà accaduta, del sentire dei narratori. Un sentire che deve essere rigoroso. Altra cosa dal relativismo soggettivo».
Il tono ampolloso non basta a nascondere la confusione di idee che contraddistingue questo passaggio. Anche qui, una piccola enciclopedia delle idee confuse: da un lato, infatti, si allude alla soggettività (e alla parzialità) della memoria, e dall’altro si afferma che “la narrazione risente della rielaborazione della storia”. Le due cose non stanno insieme: il testimone, colui che narra facendo esercizio di memoria, costruisce inevitabilmente una narrazione soggettiva, parziale, condizionata dal fatto di richiamare nel presente eventi passati. E quindi il narratore-testimone enfatizza tutto quanto possa giustificare il suo comportamento, rimuove dal racconto – più o meno volontariamente – singoli eventi o personaggi. Non a caso, gli storici convengono che la memoria è una fonte preziosa ma che va maneggiata con cura, sottoponendola a un’attenta critica preliminare a ogni ulteriore utilizzazione. È nell’esercizio della memoria, dunque, che la soggettività può tradursi nel “sovrapporsi alla realtà accaduta del sentire dei narratori”. Non nella storia, che istituzionalmente diffida del sentire dei narratori. Quest’ultimo, dunque, non è mai “rigoroso”, proprio perché è un “sentire” e, in quanto tale, riconducibile alla soggettività del racconto: il rigore è piuttosto un attributo proprio della ricerca storica, che narra sì, ma mentre narra interpreta, cioè fornisce chiavi di lettura degli eventi, chiavi che derivano dalla critica e dal puntuale raffronto delle fonti.
Poiché una circolare integra anche una funzione di indirizzo, c’è da chiedersi come, dal guazzabuglio sopra richiamato, un docente potrà trarre spunti per spiegare ai propri alunni la differenza tra storia e memoria. E poiché quando si parla di storia si parla anche di obiettività, non si può non rimarcare, nell’elenco delle iniziative e delle fonti da consultare posto in calce alla circolare, l’assenza dei materiali prodotti dagli istituti per la storia del movimento di Liberazione, che, insieme alle associazioni degli esuli – talvolta in dissenso, talvolta d’intesa con questi ultimi – hanno svolto una meritevole opera di riflessione e di studio degli eventi qui trattati, come di recente ha ricordato uno dei più autorevoli e obiettivi studiosi della storia dell’area alto-adriatica, Raoul Pupo.
Tanto per fare un esempio, non c’è cenno, tra le opere richiamate al termine della circolare, al Vademecum per il Giorno del ricordo, redatto dall’Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea del Friuli-Venezia Giulia, un testo che ha incontrato ampi consensi tra gli studiosi e che senz’altro risponde ai criteri di obiettività e scientificità confusamente invocati nella circolare stessa.
Ma ancora più eclatante è il fatto che non si faccia riferimento al documento conclusivo dei lavori della Commissione storica italo slovena (relazione commissione mista) promossa dal ministero degli Affari esteri della Repubblica italiana insieme all’omologo dicastero sloveno. Per non parlare dell’assenza di indicazioni degli scritti di Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Gloria Nemec, Elio Apih, Jože Pirjevec, Marta Verginella, solo per citare autrici e autori noti per la loro autorevolezza quanto per la loro obiettività.
La lettura delle loro opere risulterebbe utile a tutti, in particolare ai docenti, ma da essa trarrebbero ancor maggiore giovamento i solerti ma distratti estensori delle circolari ministeriali. Quanto meno, in futuro, eviterebbe loro di fare brutte figure.
Pubblicato lunedì 14 Febbraio 2022
Stampato il 24/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/primo-piano/giorno-del-ricordo-quando-le-idee-sono-poche-e-confuse/