L’Accordo del Venerdì Santo, firmato alle 17.30 del 10 aprile 1998, corona un tormentato processo negoziale volto a chiudere il lungo conflitto noto come Troubles (“disordini”) che aveva insanguinato per circa 30 anni le sei contee dell’Irlanda del Nord e, in misura minore, la Gran Bretagna e la Repubblica d’Irlanda.
Le origini del processo di pace che porterà alla firma dell’Accordo di Belfast (come è stato chiamato ufficialmente) sono da cercare nella complessa trama di contatti informali e segreti avviati alla fine degli anni 80 fra i leader dei due principali partiti nazionalisti (Partito Social Democratico Laburista, SDLP, e Sinn Féin, SF) e, soprattutto, in quelli intercorsi fra gli apparati di sicurezza britannici e l’IRA, l’Esercito Repubblicano Irlandese, iniziati addirittura nei primi anni 70.
Il segnale più importante dell’incoraggiamento dato da Londra al dialogo fra John Hume (allora segretario del SDLP) e Gerry Adams (Sinn Féin) giunge il 15 dicembre 1993 quando, nella Dichiarazione di Downing Street, il governo britannico guidato da John Major mette nero su bianco, fra le altre, un’affermazione impegnativa: il Regno Unito non ha “interessi egoistici, strategici o economici” sull’Irlanda del Nord. Questa importante dichiarazione congiunta, firmata dai capi di governo di Londra e di Dublino, pone al centro del futuro processo di pace due principi fondamentali: quello del diritto all’autodeterminazione degli abitanti dell’isola d’Irlanda e quello del consenso, in base al quale l’unificazione fra Nord e Sud sarà possibile soltanto con il consenso della maggioranza dei cittadini delle Sei contee. Un altro segnale importante è la volontà dichiarata da Londra di coinvolgere stabilmente la Repubblica d’Irlanda nel percorso negoziale.
All’apertura del governo britannico risponde l’IRA con una decisione storica: il cessate il fuoco che, annunciato il 31 agosto 1994, entra in vigore alla mezzanotte dello stesso giorno. Un mese e mezzo dopo, una decisione analoga viene annunciata da un organismo di coordinamento delle milizie armate filobritanniche (i cosiddetti lealisti, termine che denota la fascia più radicale della comunità unionista). I due gruppi principali, UVF e UDA, non hanno tuttavia una vera rappresentanza politica. Toccherà al principale partito unionista di allora, l’Ulster Unionist Party (UUP) decidere se e come convincere la propria comunità di riferimento ad accettare il cammino indicato da Londra e Dublino. Questo sarà possibile solo dopo l’estate del 1995 con il cambio al vertice dell’UUP e l’insediamento del nuovo leader, David Trimble.
Il resto è storia nota: 18 mesi sostanzialmente persi fra richieste all’IRA di aggiungere il termine “permanente” alla dichiarazione di tregua e l’insistenza sulla messa fuori uso delle armi, fino alla rottura del cessate il fuoco e alla nuova offensiva armata da parte dei repubblicani. Il ritorno degli attentati sul suolo britannico, con le esplosioni del 9 febbraio nei docklands di Londra (2 morti e 100 feriti, nonostante un preavviso di 90 minuti con una parola d’ordine nota alle autorità, e 150 milioni di sterline di danni) e del 15 giugno a Manchester, dove il centro città viene devastato da quella che, si dirà poi, è stata la bomba più potente esplosa in Gran Bretagna dalla fine della Seconda guerra mondiale. Qui non si registrano morti, ma ben 200 feriti e 700 milioni di sterline di danni. Quindi il nuovo cessate il fuoco dell’IRA, entrato in vigore il 20 luglio 1997, e il rinnovato attivismo del governo britannico, guidato da due mesi dal laburista Tony Blair. E, soprattutto, la spinta decisiva impressa da Washington attraverso un Inviato speciale nell’Irlanda del Nord, il senatore George Mitchell, che giocherà un ruolo decisivo nei delicati negoziati che porteranno alla firma dell’Accordo del Venerdì Santo.
Poco più di un mese dopo la firma, l’Accordo viene ratificato dal voto popolare, con due referendum molto partecipati a sud e a nord del confine (nei quali il Sì al trattato passa rispettivamente con il 94,4 e il 71,1 per cento).
Solo uno dei principali partiti nordirlandesi si oppone e chiede un No al referendum: è il Partito Unionista Democratico (DUP), che anche grazie a questa iniziale posizione critica vedrà una crescita di consensi che gli permetterà di superare l’UUP e imporsi come il principale partito di riferimento della comunità unionista/protestante. L’attuale leader del DUP, Jeffrey Donaldson, lascia l’UUP nel 2004 dopo aver cercato inutilmente di fermare la linea trattatista del segretario David Trimble e averne chiesto senza successo le dimissioni. Ci vorranno quasi 10 anni e un secondo trattato promosso dai governi di Londra e di Dublino (Accordo di Sant’Andrea) per convincere il DUP ad aderire al processo di devoluzione e alle istituzioni consociative di Belfast.
Il processo di pace
Un processo di pace conclude un conflitto. È lecito quindi chiedersi che tipo di conflitto sia stato quello che passa sotto il nome di Troubles. Una delle motivazioni espresse sin dagli anni 90 dai repubblicani che decisero di non seguire l’IRA sulla strada della pacificazione era che quel processo di pace, per come era stato pensato e attuato, avrebbe istituzionalizzato la narrazione “tribale” dei Troubles. In effetti, questo è stato uno dei bocconi amari che la dirigenza dominata da Gerry Adams e Martin McGuinness ha dovuto ingoiare. È paradossale (e illuminante) che il titolo ufficiale del documento (“Accordo di Belfast”) e il più diffuso “Accordo del Venerdì Santo” vengano alternati scientemente dagli organi di informazione come gesto di rispetto delle diverse sensibilità delle due principali comunità dell’Irlanda del Nord, “la protestante e la cattolica”.
Il nocciolo del conflitto non è stato certo una lotta fra “verde e arancio”, come si sente ripetere spesso in questi giorni sui mezzi di informazione (anche irlandesi e britannici), bensì una guerra a bassa intensità combattuta fra i guerriglieri repubblicani e l’apparato di sicurezza costituito da polizia locale (la RUC) ed esercito britannico. I lealisti, UVF e UDA e gruppi minori, hanno sempre svolto il ruolo di manovalanza per rappresaglie e poco più (negare la storica collusione fra paramilitari lealisti e apparato di sicurezza britannico è diventato sempre più difficile; pochi ormai ci provano). Questa lettura del conflitto non è, va detto, accettata universalmente. Né si vuole qui negare il peso della tradizionale divisione politico-religiosa che ha contraddistinto il nord-est dell’Irlanda dal XVII secolo in poi. Tuttavia, la storia di quel decennio cruciale, gli anni 60, e l’analisi attenta delle cifre delle vittime qualcosa dicono; e sono piuttosto chiari. La Gran Bretagna non fu certo all’altezza della sua tradizione democratica e si dimostrò poco attenta, quando non del tutto sorda, alle lecite richieste di riforme che venivano dalla pacifica mobilitazione per i diritti civili che prese il via nella prima metà degli anni 60. Londra, invece di richiamare l’allora governo locale di Belfast al rispetto degli standard minimi di democrazia che sarebbe stato lecito aspettarsi da una provincia del Regno Unito (nonché d’Europa), lasciò sostanzialmente mano libera all’UUP, salvo intervenire (quando il danno era ormai fatto) con misure che furono inevitabilmente bollate come “troppo poco, troppo tardi”.
Le cifre delle vittime: ai gruppi paramilitari repubblicani vanno ascritti 1951 dei circa 3200 morti totali del conflitto fra il 1969 e il 1993; i lealisti sono responsabili di un numero pari circa alla metà di questo, 947. Tuttavia le vittime “civili” della violenza repubblicana sono state 497, ovvero il 25,5% del numero totale dei morti da loro provocati; nel caso dei lealisti, le vittime “civili” sono 804, pari all’84,9 per cento del totale di morti a loro attribuito. Volendo inoltre separare gli omicidi “settari” (laddove la vittima è stata colpita esclusivamente per la sua appartenenza religiosa o “etnica”) dalle vittime casuali, il numero di protestanti uccisi dai paramilitari repubblicani per ragioni “settarie” corrisponde a 157 (il 7,7% del totale), mentre la cifra corrispondente di vittime cattoliche della violenza lealista (747) è pari al 78,8% del totale. È interessante notare che dei 354 morti causati dalle forze di sicurezza (polizia ed esercito), ben 180 sono vittime “civili”: una percentuale del 50%, cioè quasi il doppio del dato relativo ai gruppi paramilitari repubblicani.
Va sottolineato inoltre che la violenza unionista (reazione alle pacifiche manifestazioni per i diritti civili che mettevano in discussione lo statu quo) precede di 3 anni il divampare del conflitto fra l’IRA e le forze di sicurezza. Quando questa divampa, nell’estate del 1969, e sfocia in veri e propri pogrom contro i cittadini nazionalisti e cattolici che vivevano in quartieri a maggioranza unionista, l’IRA si trova completamente impreparata. Il fallimento dell’ultima iniziativa armata indipendentista (la “Campagna contro il confine”, 1958-1962) aveva costretto l’allora dirigenza “militarista” a cedere il testimone a una nuova generazione di repubblicani, fortemente influenzati dal pensiero marxista, i quali decisero di mettere da parte le armi e appoggiare le mobilitazioni per i diritti civili, allo scopo di creare un ampio fronte popolare con il quale proseguire la lotta per l’unificazione dell’Irlanda.
I pogrom anti-irlandesi dell’estate del 1969, tollerati quando non apertamente sostenuti dalle forze di polizia (gli agenti della temuta sezione B-Specials, una vera e propria milizia unionista, parteciparono spesso con entusiasmo alle violenze), determinarono un nuovo cambio di tattica, sfociato alla fine di quell’anno nella scissione dei cosiddetti Provisionals (o Provos), cioè l’ala dell’IRA che condurrà la campagna armata fino agli anni 90 e darà infine la propria adesione al processo di pace.
Il “dividendo della pace”
Sebbene l’Accordo di Belfast abbia centrato l’obiettivo principale, vale a dire il superamento dei livelli di violenza che, per tutta la durata del conflitto, avevano avuto una ricaduta drammatica sulla popolazione nordirlandese (in particolare sugli abitanti dei quartieri urbani e delle aree rurali maggiormente interessati dalle violenze) l’accusa più frequente che viene fatta alla classe dirigente uscita del processo di pace è quella di non aver garantito a cittadine e cittadini il “dividendo della pace”. L’espressione fa riferimento all’espansione economica che ci si attende di norma a conclusione di un conflitto armato e, per come viene spesso intesa, alla promessa di un deciso e diffuso miglioramento nelle condizioni di vita di tutte le fasce sociali, comprese quelle maggiormente toccate dai Troubles (con un’enfasi particolare sui giovani). Rispetto al primo punto, gli economisti sono abbastanza concordi sul fatto che la promessa espansione si è verificata solo in parte, soprattutto a causa di un aumento deludente del tasso di produttività e della difficoltà di riequilibrare il rapporto fra impiego privato rispetto al pubblico (si pensi all’enorme settore della sicurezza legato al conflitto e al relativo “indotto”). Per il resto, nonostante il crollo del numero di posti di lavoro nella produzione sia stato in qualche misura compensato dall’aumento di impieghi nel terziario (soprattutto nel settore delle nuove tecnologie) gli operatori sociali attivi nei quartieri più disagiati e coloro che lavorano a contatto con i giovani lamentano un perdurare delle difficoltà a trovare lavoro e del divario fra i ceti sociali.
Ciò su cui economisti e operatori sociali concordano è che le speranze di vedere un’inversione di tendenza in questa situazione sono legate al ripristino del governo locale, che dell’accordo di Belfast dovrebbe essere il risultato più importante e duraturo.
Il governo consociativo
Sotto questo aspetto, le prospettive al momento non sono rosee. Alle ultime elezioni per l’assemblea legislativa di Belfast, tenutesi il 5 maggio 2022, Sinn Féin si è affermato per la prima volta nella storia come primo partito dell’Irlanda del Nord (con il 29%) e ha conquistato la maggioranza relativa in parlamento (27 seggi) a spese del principale partito unionista, il DUP (ora secondo partito con il 21,3% e 25 seggi in aula). In base al principio del consociativismo, sul quale si basa l’architettura istituzionale uscita dal processo di pace, al principale partito della comunità nazionalista/cattolica spetterebbe quindi la carica di Primo ministro.
Va ricordato infatti che, diversamente dai normali ordinamenti istituzionali basati sulla comune dialettica fra maggioranza di governo e opposizione, le istituzioni devolute di Belfast si basano sul principio del power-sharing (consociativismo), che impone la condivisione della gestione della cosa pubblica fra i due schieramenti principali all’interno dell’Assemblea (in questo caso, unionisti e nazionalisti).
Tuttavia il DUP, che 3 mesi prima delle elezioni aveva ritirato il proprio Primo ministro e determinato la crisi di governo in segno di protesta nei confronti del cosiddetto Protocollo per l’Irlanda del Nord, ha deciso di proseguire il boicottaggio delle istituzioni locali e impedire così l’insediamento del nuovo esecutivo. Il Protocollo per l’Irlanda del Nord, eredità spinosa della disinvolta gestione del dopo-Brexit dell’ex premier britannico Boris Johnson, prevede misure atte a garantire i controlli doganali sulle merci in transito dalla Gran Bretagna (potenzialmente a rischio di passaggio nella Repubblica d’Irlanda, cioè nell’Unione europea) senza ripristinare un “confine rigido” fra Nord e Sud (che potrebbe riaccendere tensioni e mettere a rischio il processo di pace). A questo scopo, il Protocollo impone che questi controlli abbiano luogo nei porti di arrivo, creando de facto un “confine marittimo” fra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito. In una regione in cui i simboli sono estremamente importanti, si tratta di un concetto difficile da accettare per una parte dei politici e dei cittadini unionisti, che lo ritengono una violazione della posizione costituzionale dell’Irlanda del Nord.
Nel corso dell’ultimo anno il governo britannico ha tentato diverse vie per superare la questione del Protocollo e convincere il DUP a nominare un vice Primo ministro da affiancare a Michelle O’Neill (Sinn Féin), ma senza successo. Anche il Windsor Framework (accordo quadro di Windsor), firmato alla fine di marzo dal premier britannico Rishi Sunak e dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen dopo settimane di intensi colloqui tra le parti, non è stato per ora sufficiente a convincere il partito unionista guidato da Jeffrey Donaldson a entrare nell’Esecutivo. A questo punto, è lecito pensare che la vera ragione del continuo boicottaggio delle istituzioni di Belfast da parte del DUP non sia tanto l’opposizione al Protocollo, quanto la riluttanza a ritornare al governo in una posizione di sudditanza (sebbene, dal punto di vista formale, First Minister e Deputy First Minister abbiano esattamente la stessa dignità) rispetto a una Prima ministra repubblicana.
La pace, come la libertà, non è data per sempre. Richiede cura e impegno. Segnali preoccupanti non mancano: lo scorso febbraio un ispettore capo di polizia fuori servizio è stato ferito gravemente da colpi d’arma da fuoco a Omagh, nella contea di Tyrone. L’attentato è stato rivendicato dalla più attiva fra le formazioni repubblicane dissidenti e, fra i fermati dagli inquirenti (particolare inedito e decisamente inquietante) vi sono quattro protestanti. Si tratterebbe di elementi criminali con rapporti di collaborazione con i dissidenti repubblicani, di cui almeno uno con un passato in un gruppo paramilitare lealista. Poco più di una settimana fa il servizio segreto britannico MI5 ha rivisto il livello di allerta per possibili attentati terroristici portandolo da “significativo” a “grave”, il quarto e penultimo in graduatoria.
Diversi anni dopo la storica firma del 10 aprile 1998 uno dei principali artefici dell’accordo di Belfast, il già ricordato George Mitchell, pronunciò una frase che suona come un monito: “Di per sé, l’accordo del Venerdì Santo non ha garantito la pace, la stabilità e la riconciliazione. Li ha soltanto resi possibili”.
Carlo Gianuzzi, Commissione scuola Anpi “Dolores Abbiati” – Brescia
Pubblicato lunedì 10 Aprile 2023
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