II 5 luglio 1943 il generale Paolo Puntoni, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, registrava nel suo Diario: «Sua Maestà è del parere che, anche arrivando alla sostituzione di Mussolini, il fascismo non si possa abbattere di un colpo. Bisognerebbe in vece modificarlo gradatamente fino a cambiargli fisionomia in quegli aspetti che si sono dimostrati dannosi per il Paese».
Fino all’ultimo casa Savoia, preparando il colpo di Stato del 25 luglio, aveva esitato sulla opportunità di disfarsi dell’opera del «cavalier Benito Mussolini» e gli stessi congiurati che parteciparono alla seduta del Gran consiglio del 24 luglio, completamente inconsapevoli della realtà del Paese (pur se confusamente consci dalla primavera 1943 che la situazione politica e militare stava precipitando), si illudevano di poter scampare al disastro con pochi mutamenti di superficie. Dunque: la volontà di «nulla» cambiare e un’incredibile e paralizzante paura dei tedeschi rappresentarono i caratteri con cui il governo di tecnici e militari guidato da Pietro Badoglio affronta i quarantacinque giorni dell’estate 1943, dall’arresto di Mussolini alla dichiarazione dell’armistizio e al rovesciamento delle alleanze.
Troppo spesso si è giudicata «casuale» e «sconclusionata» la linea politica gestita da Badoglio in quel mese e mezzo, non rivelando coerenza e chiare finalità nelle linee di comportamento e di governo. Certo, in riferimento ai reali interessi nazionali e alle esigenze popolari, palesemente espresse nelle manifestazioni, ciò che appare dei provvedimenti badogliani può sembrare senz’altro estremamente «confuso» e contraddittorio. E si potrebbero avanzare giudizi anche peggiori, in quanto appare ben evidente la mancanza di una precisa volontà nell’affrontare i due nodi centrali del momento (guerra e alleanza con la Germania nazionalsocialista) facendo ricorso all’unico strumento possibile per una soluzione radicale: chiedere e costruire un rapporto di fiducia con le masse popolari. Ma, come ha scritto Ruggero Zangrandi, proprio in ciò, «nella sua essenza negativa, risiede la mostruosa coerenza della politica badogliana», nel temporeggiare, barcamenandosi tra fascisti e antifascisti, nel tenere a bada i tedeschi con la menzogna e le masse popolari con la violenza, nel cercare di imbrogliare gli anglo-americani puntando sull’astuzia (o meglio su un’elementare «furberia») e sull’intrigo. Una linea estremamente coerente nella speranza di riuscire a imbrogliare un po’ tutti e così di salvare il più possibile di quanto il fascismo aveva lasciato «di buono».
Un governo fantasma
La compagine governativa, designata dal re il 27 luglio, doveva rappresentare per Badoglio un docile strumento per perseguire tale disegno, una semplice facciata che si prestasse a coprire, senza eccessive pretese, le scelte di fondo continuiste del Maresciallo d’Italia e della monarchia.
Nessun «uomo nuovo». Su sedici ministri, oltre un terzo era costituito da rappresentanti delle forze armate (cinque generali e un contrammiraglio, e fra di essi il generale Favagrossa che rimaneva alla direzione del ministero per la produzione bellica da lui gestito, prima come sottosegretario poi come ministro, fin dall’inizio del conflitto mondiale); i direttori generali dei ministeri di Grazia e giustizia, delle Finanze e dei Lavori pubblici venivano «promossi» al rango superiore, mentre il responsabile della Banca d’Italia assumeva la direzione del ministero per gli Scambi e le valute. Senatori e ambasciatori, che avevano raggiunto tali posizioni durante il ventennale regime, completavano il quadro governativo. Un passaggio dei poteri indolore e asettico, una linea evidente di continuità degli apparati dello Stato, una scarsa autonomia politica del Governo, resa evidente non solo dai nomi, scelti per indicare il proseguimento di linee precedenti, ma anche confermata dalla stessa attività del Consiglio dei ministri nel suo complesso. Le scelte di fondo, il dibattito politico, le proposte per la soluzione dei problemi principali non varcarono mai la soglia del Consiglio; nemmeno della questione più grave e più delicata (se e come uscire dalla guerra) si fece mai parola in quella sede. La diarchia dittatoriale Mussolini-Vittorio Emanuele fu sostituita da una nuova «accoppiata» autoritaria, Badoglio-Vittorio Emanuele, che continuò l’accentramento del potere e proseguì, come prima, a voler decidere i destini del Paese.
L’Archivio centrale dello Stato non ha conservato alcuna traccia dei verbali delle riunioni del Consiglio dei ministri del Governo Badoglio. Si potrebbe (malignamente?) supporre una non casuale scomparsa di quei documenti, anche se la situazione caotica determinatasi nella capitale dopo l’8 settembre non esclude la possibilità dell’assenza di qualsiasi volontà nella distruzione. La documentazione comunque sopravvissuta e certamente incompleta lascia tuttavia presumere che le riunioni del Consiglio furono soltanto due: la prima, il 27 luglio e una successiva il 5 agosto. Una terza, prevista per il 9 settembre, non si tenne a causa delle vicende seguite all’armistizio.
A prescindere dal numero delle riunioni collegiali del Consiglio, resta comunque la qualità delle decisioni prese per rendersi conto del reale peso politico lasciato a esso e, d’altra parte, una serie di provvedimenti erano già stati varati prima della costituzione formale del Governo, come la liberazione di una parte dei detenuti politici (esclusi i comunisti e gli anarchici), l’assorbimento della Milizia fascista nell’esercito, la cosiddetta «circolare Roatta», sulla quale torneremo.
Le delibere prese dal Consiglio dei ministri a partire dal 27 luglio disposero lo scioglimento del Partito nazionale fascista, del Gran consiglio del fascismo, della Camera dei fasci e delle corporazioni (non si toccò il Senato e si garanti l’elezione di una nuova Assemblea quattro mesi dopo il termine del conflitto); furono sciolti anche l’Istituto di cultura fascista e l’Associazione fascista delle famiglie caduti in guerra. Inoltre fu dichiarato decaduto il Tribunale speciale per la difesa dello Stato (ma le sue prerogative passarono quasi integralmente ai Tribunali militari…), fu cambiata la denominazione ai ministeri delle Corporazioni e della Cultura popolare, si abolì il saluto romano, si modificarono i biglietti di banca facendovi eliminare i fasci, si abrogarono le leggi contro il celibato (ma non la legislazione razziale introdotta nel 1938: non bisognava «insospettire» i tedeschi). Furono, infine, dichiarate decadute la Carta del Lavoro e la Carta della scuola e il 31 luglio fu annunciato il richiamo alle armi dei quadri fascisti che, per motivi politici, ne erano stati esentati (segretari e vice segretari federali, fiduciari di fabbrica, squadristi funzionari del PNF).
Molte di tali disposizioni restarono sulla carta (non si trova alcuna traccia dei decreti esecutivi per i richiamati alle armi), ma, in complesso, la serie delle delibere, amplificate e propagandate dalla stampa, avevano chiaramente l’unico scopo di dare l’impressione di un rapido e deciso smantellamento di tutto l’edificio costruito in vent’anni di fascismo e dovevano convincere l’opinione pubblica di essere finalmente tutelata, di riacquistare diritti e libertà in un quadro politico che doveva apparire in rapida evoluzione. E, per questa funzione, lo strumento e i mezzi utilizzati furono gli stessi che avevano caratterizzato l’azione del regime per la «conquista del consenso»: propaganda e repressione. II Minculpop mantenne un attento e oculato controllo sulla stampa.
A mezzanotte del 25 luglio i prefetti sono invitati a impedire che i quotidiani escano con notizie «non confacenti alle direttive politiche del governo». Il 27 il ministro Fornaciari ordina il sequestro di quei giornali che «eccitino comunque spirito pubblico». Il 28 il ministro Rocco istituisce un servizio di censura preventiva sulle notizie da pubblicarsi. Carlo Ludovico Ragghianti ricorda le precise «direttive di ordine generale» inviate ai direttori dei quotidiani: bisognava «evitare critiche ad uomini e fatti del passato regime» e non sollecitare la soppressione di quelle istituzioni fasciste che, «secondo le decisioni del Consiglio dei ministri, possono continuate a funzionare»; era proibito «insistere sul tema della liberazione dei detenuti politici», mentre occorreva «usare il massimo riguardo verso gli alleati tedeschi». Ma, soprattutto, si ordinava di … «suscitare un senso di fiducia nell’avvenire», e cioè nell’opera e nelle decisioni della nuova amministrazione dello Stato.
Stampa sera del 26-27 luglio fu così sequestrata perché pubblicava un appello unitario dei partiti antifascisti che chiedevano una «pace immediata». II prefetto di Venezia bloccava la nomina di Armando Gavagnin alla direzione del Gazzettino, trattandosi di un «antifascista irriducibile».
D’altra parte il processo di defascistizzazione restava un fenomeno più legato alle apparenze e alla propaganda degli organi di stampa che una realtà tenacemente perseguita e non solo in relazione ai gangli vitali degli apparati dello Stato. Solo le più macroscopiche incrostazioni del fascismo venivano rimosse e venivano cancellate le più appariscenti (ma certo meno importanti) creazioni del regime, vantando e sbandierando ogni intervento come un fondamentale passo avanti nella via della democratizzazione. In realtà neppure lo scioglimento della Milizia fascista fu attuato. Solo il 26 agosto Badoglio convocò una riunione (di cui non si conoscono comunque i risultati) con la quale si proponeva di affrontare «il problema della riorganizzazione finale» della MVSN. Quanto a fascisti e squadristi che avrebbero dovuto essere richiamati immediatamente alle armi, sappiamo che, al 18 agosto, nessun provvedimento esecutivo era stato emanato. In entrambi i casi va osservato che solo in parte le misure annunciate vennero eseguite, quando si trattò di sottrarre militi e fascisti alle reazioni popolari e di garantirne l’incolumità personale, specialmente nelle zone di Milano, Torino, Bologna e Firenze.
La repressione
La decisione del re di garantire il colpo di Stato attribuendo i pieni poteri alle forze armate (conservate con la struttura e i comandi costituitisi durante il regime) consentì un rafforzamento del potere d’intervento dei militari nella direzione dello Stato, anche indipendentemente dalla presenza di Badoglio alla presidenza del Consiglio dei ministri. Pochi personaggi (Ambrosio, Sorice e Senise) mantennero in pratica le redini del potere dopo l’arresto di Mussolini.
Particolarmente importante (ma raramente messa in evidenza dagli studiosi) fu l’attività, in gran parte non del tutto controllata dal ministero, del capo della polizia Carmine Senise, pronto ad intervenire tempestivamente sulle varie realtà locali e a provvedere con tutti i mezzi al mantenimento dell’ordine pubblico, in ogni caso mostrandosi un attento e preciso «esecutore» delle reali intenzioni (espresse o sottintese) di casa Savoia, ma spesso portatore di iniziative largamente autonome, forse dettate dalla lunga esperienza maturata, sempre come capo della polizia, negli anni precedenti.
Alle 20,30 del 25 luglio Senise telegrafava ai prefetti la «applicazione piani OP» (ordine pubblico: militarizzazione del territorio nazionale) e il 27 precisava: «occorre far rispettare tutti costi ordinanze autorità militari … anche se si debba ricorrere uso armi». E ancora, il 3 agosto: «Si fa presente particolare pericolosità della propaganda comunista che est stata iniziata verso militari perché facciano causa comune con masse popolari et non sparino su folle dimostranti».
D’accordo con il ministero dell’Interno (egemonizzato da Senise), agì quello della Guerra con disposizioni analoghe che trovarono chiara espressione nella cosiddetta «circolare Roatta» del 26 luglio. Roatta, partendo dal presupposto che «poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue in seguito», osservava come «qualunque pietà et qualunque riguardo nella repressione sarebbe delitto». Di fronte alle manifestazioni popolari «i reparti devono assumere et mantenere grinta dura». Basta con «i sistemi antidiluviani, quali i cordoni, gli squilli, le intimazioni et la persuasione», ma «si proceda in formazione di combattimento et si apra fuoco a distanza, anche con mortai et artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche».
Contemporaneamente il Capo di Stato Maggiore, Ambrosio, provvedeva a rafforzare la presenza delle forze dell’ordine nelle zone dove immediatamente apparve più difficile contenere l’entusiasmo popolare e la politicizzazione delle manifestazioni di massa; divisioni di rinforzo furono avviate a Torino, Milano, Genova e Bologna, mentre la repressione armata toccava livelli notevoli sin dal pomeriggio del 26 luglio, raggiungendo l’apice il giorno 28 con le stragi di Bari e di Reggio Emilia (dove si ebbero rispettivamente 17 morti e 36 feriti e 9 morti e 30 feriti). Complessivamente nei primi tre giorni successivi al 25 luglio l’ordine pubblico fu garantito con 65 morti e 269 feriti, mentre oltre 1.200 furono gli arresti. Dal 28, inoltre, i Tribunali militari entrarono in funzione con severe ed «esemplari» condanne. Solo a Torino i processati furono 437; 398 furono condannati a oltre 429 anni di carcere. La centralità del ruolo dell’esercito durante i 45 giorni badogliani appare evidente dall’importanza attribuita alla sua funzione repressiva nei confronti delle manifestazioni popolari e dell’antifascismo (in particolare della classe operaia), assieme ad un progressivo tentativo di controllare ed esautorare il governo, cui si sarebbe voluto riservare solo l’ordinaria amministrazione. Contemporaneamente si avvertiva il tentativo di «recuperare» i fascisti onesti, sollecitato in maniera esplicita dallo stesso re che, ancora il 16 agosto, accusava Badoglio di «eccessi antifascisti».
In realtà, gli «eccessi antifascisti» di Badoglio si limitavano a una serie di espedienti puramente demagogici attraverso i quali tentava di neutralizzare le spinte del comitato romano delle opposizioni guidato da Bonomi (più vicino, e quindi più «pericoloso», anche se più «moderato» di quello milanese) e dei singoli partiti antifascisti, in modo da meglio condurre le proprie scelte generali. D’altra parte la debole influenza che potevano avere i partiti antifascisti in quel regime di semiclandestinità che ne sottoponeva i leaders al continuo pericolo di arresti, aiutava Badoglio a poco concedere, e quel poco con estrema lentezza.
Questo appare in particolare evidenza a proposito della lenta, contrastata ed incompleta liberazione dei detenuti politici, già annunciata il 27 e il 29 luglio (con l’eccezione di anarchici e comunisti e di quanti avessero commesso delitti contro lo Stato, cioè la maggioranza assoluta). La stessa liberazione degli ebrei veniva limitata a coloro che non avessero commesso azioni di «particolare gravità». Nel corso del mese di agosto la minaccia di uno sciopero generale avanzata da Roveda, Buozzi e Grandi sembrò sbloccare la situazione. Badoglio non promise comunque un’amnistia, ma «garantì» la liberazione dietro domanda. A partire dalla seconda meta del mese cominciarono così ad uscire dal carcere i politici «più pericolosi», anche se parecchie migliaia di detenuti (soprattutto quelli delle province orientali, ma non solo) restarono, grazie a tale procedura, incarcerati e non pochi furono catturati e in qualche caso deportati dai nazisti dopo l’8 settembre.
L’antifascismo
Lo stesso ministro dell’Interno nell’aprile 1943 aveva affermato che i partiti antifascisti avevano ripreso «una certa influenza sulla massa della popolazione». D’altra parte proprio gli scioperi del marzo avevano dimostrato una notevole possibilità di mobilitazione popolare su obiettivi economici e anche politici. Nonostante ciò è difficile definire quale effettiva capacità di intervento e di direzione nelle manifestazioni successive al 25 luglio ebbero i partiti antifascisti, la cui struttura organizzativa andò rinsaldandosi ed espandendosi territorialmente dal nord al centro soltanto nel corso della semiclandestinità permessa da Badoglio.
Durante l’agosto 1943 i comunisti (e, in parte, anche i socialisti e gli azionisti) raggiunsero una discreta efficienza organizzativa in gran parte delle province centro-settentrionali del paese, anche se la presenza di gruppi attivi influì direttamente nelle manifestazioni delle principali città della Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia e Toscana fin dallo stesso 26 luglio.
Un aspetto particolare va comunque ricordato: la nascita quasi immediata, sin dall’ultima settimana di luglio di comitati unitari (composti dai cinque principali partiti, oltre che da formazioni politiche senza alcun seguito successivo). Si trattava certamente di una quasi naturale continuazione di quei contatti e di quegli incontri fra antifascisti che si erano moltiplicati negli ultimi mesi del 1942 e soprattutto agli inizi del 1943 e chiaramente tali Comitati, dai nomi più diversi e dalla composizione più varia, tendevano più a riprodurre l’adesione delle individualità antifasciste presenti nelle singole località, che non quella di reali gruppi organizzati con chiare e consapevoli linee politiche. Spesso i Comitati si trovarono, proprio a causa della composizione e della non rappresentatività di gran parte dei loro membri, su posizioni moderate di fronte alle manifestazioni di piazza (fecero eccezione Milano e Bologna) e in numerose occasioni si posero come elemento di mediazione invitando gli scioperanti alla calma per non «provocare» le reazioni dell’esercito e delle forze dell’ordine, a volte, anzi (come nel caso del Comitato modenese) giustificandone l’operato. Ma già all’interno di tali Comitati (soprattutto in quello romano) cominciavano ad apparire quelle diversità di posizioni – diversificando in genere i tre partiti della sinistra dagli altri – che in parte ne avrebbero limitato le possibilità di intervento anche nei mesi successivi. Da un lato le posizioni divergenti impedivano o diminuivano le capacità di intervenire su Badoglio per condizionarlo, dall’altro lato la sopravvivenza dei comitati unitari era necessaria per poter, sia pure minimamente, avere qualche voce che sarebbe stata negata ai singoli partiti.
I veri protagonisti dei 45 giorni furono così le masse che diedero luogo a manifestazioni, in gran parte «spontanee» (ma nate in quelle zone in cui la presenza organizzata della sinistra era sufficientemente avanzata), mentre alcuni partiti politici, specialmente quello comunista, riuscirono a costruire o allargare rapporti positivi con i movimenti popolari e a «politicizzarne» le rivendicazioni, rafforzando un dialogo che mai era venuto meno negli anni più duri del regime e ponendo le basi per quel rapporto di fiducia che avrebbe dato esiti largamente positivi dopo l’8 settembre, quando si trattò di costruire la lotta di liberazione nazionale.
Le prime manifestazioni, avvenute già nel corso della notte del 25 luglio, sono spontanee e di massa, esprimono la gioia popolare per l’arresto di Mussolini e si esprimono con sistematiche invasioni delle sedi fasciste e distruzione dei simboli del regime. Ma già dal 26 le manifestazioni assumono un aspetto diverso per la presenza organizzativa di comunisti, socialisti e azionisti che, con la stampa o con comizi improvvisati, riescono a suggerire parole d’ordine o ad affiancare scioperi operai alle manifestazioni di «generico» entusiasmo. La fine della guerra, l’aumento delle razioni alimentari e la liberazione dei detenuti politici rappresentano le parole d’ordine (politiche ed economiche) più diffuse. La stessa presenza degli antifascisti più noti alla testa dei cortei fa scattare la reazione governativa: le manifestazioni non vengono più giudicate come un appoggio ed un consenso dal basso al colpo di Stato del re e di Badoglio, ma cominciano a rappresentare un chiaro momento di «sovversivismo». Soprattutto la presenza della classe operaia sembra essere giudicata estremamente pericolosa, come elemento più politicizzato e di più difficile controllo.
Non è facile misurare il rapporto effettivo fra le parole d’ordine lanciate dai partiti e il «tono» più politico delle manifestazioni nate a partire dal pomeriggio del 26 luglio, anche se una profonda influenza e innegabile.
Le reazioni del governo, l’intervento della polizia e dell’esercito, lo stato d’assedio, le fucilazioni e gli arresti non fecero che scavare un solco fra manifestanti e autorità dello Stato e, nonostante una prima fase di incertezza dei partiti che ritenevano di poter strappare concessioni a Badoglio senza ulteriori spargimenti di sangue, dal 16 agosto riprendevano gli scioperi e le fabbriche del nord diventavano protagoniste dirette delle pressioni per obiettivi questa volta direttamente ed esplicitamente politici: contro la «guerra fascista».
II fallimento di Badoglio
Ottenere un’uscita dal conflitto indolore per il potere politico ed economico che aveva sostenuto il fascismo e che ora tentava di perpetuarne i metodi di governo: era questo l’obiettivo di fondo del re e di Badoglio, sia pure perseguito dai due con tattiche diverse: rigidamente conservatore quello, più duttile e disposto a qualche minore compromesso con l’antifascismo, questo. II re (e i militari) intendevano reprimere alla radice ogni sia pur minimo «pericolo comunista». Badoglio era più disposto ad affiancare ai tradizionali interventi repressivi alcune «aperture» mediatrici (tipica a tale proposito la nomina di Commissari alle confederazioni sindacali scelti fra gli esponenti dell’antifascismo, al fine di usare, nei confronti degli scioperanti, la tattica del convincimento e non solo quella dello stato d’assedio). E, sempre per strumentalizzare il «fronte interno», proseguiva l’attività demagogica dei provvedimenti governativi, regolarmente gonfiati dalla stampa quotidiana. Si provvede a cambiare i prefetti (che sostanzialmente restano però gli stessi, mutando solo la sede), a nominare una commissione d’inchiesta contro gli illeciti arricchimenti (che verrà confermata in toto dalla Repubblica sociale italiana), si nominano commissari all’Enpas e alla Siae, si preannunciano (2 settembre) mutamenti all’Eiar.
Fino alla metà di agosto non abbiamo nessuna prova concreta che fosse in animo al re, a Badoglio e all’esercito di rompere l’alleanza con i tedeschi. Le numerose missioni che presero contatto can gli anglo-americani (ma già dal 1942 non erano mancati coloro che «esploravano» le condizioni per un’uscita dell’Italia dal conflitto!) affrontarono l’argomento «resa» solo con cauti sondaggi, senza mai dimostrare un vero impegno né una concreta volontà di trattare le condizioni per una resa o un armistizio. La stessa missione del generale Castellano, che poi giunse effettivamente a firmare la cessazione delle ostilità, partì senza alcuna credenziale, senza documenti ufficiali che autorizzassero alla trattativa o che dimostrassero che si trattava di una iniziativa non personale.
Indubbiamente i grandi scioperi politici di metà agosto valsero a costringere ad affrettare i tempi, a scegliere senza ulteriori indugi e le richieste di pace avanzate da quelle manifestazioni resero palese agli stessi tedeschi che, in ogni caso, l’atmosfera pubblica in Italia non avrebbe comunque permesso un prolungamento all’infinito del conflitto. Dopo il 25 luglio alla proposta di Hitler di procedere manu militari al ristabilimento del fascismo, fu preferita la tattica suggerita dai generali di rafforzare progressivamente la presenza della Wehrmacht in Italia fino a giungere, quasi insensibilmente, all’occupazione del Paese. D’altra parte il progetto di colpo di Stato di Vittorio Emanuele non prevedeva alcuna utilizzazione dell’esercito in funzione difensiva, ma predisponeva per una sua larga utilizzazione esclusivamente per mantenere l’ordine pubblico: il «nemico» era più individuato negli italiani che non nei tedeschi o negli anglo-americani.
Così il 15 agosto la Wehrmacht aveva ormai sotto controllo tutti i settori chiave dell’Italia settentrionale, dopo aver fatto affluire in due settimane sei divisioni e mezzo (all’8 settembre il totale era di otto divisioni, oltre a 120 mila uomini non indivisionati). Secondo Ruggero Zangrandi, solo il 17 agosto il re, Badoglio e Ambrosio decisero di cominciare a trattare veramente con gli anglo-americani. La speranza era che gli Alleati raggiungessero rapidamente Roma, salvando monarchia e governo da qualsiasi rendiconto con i vecchi alleati. Non a caso, neppure a trattative avviate, addirittura neppure dopo la firma dell’armistizio (una settimana prima del suo annuncio ufficiale) ci si preoccupò di elaborare piani militari a sostegno delle operazioni «politiche» in corso.
La dichiarazione dell’armistizio colse alla sprovvista, del tutto impreparati, i comandi periferici. II disastro dell’8 settembre e lo squagliamento dell’esercito non destano quindi alcuna meraviglia, soprattutto dopo tre anni di guerra non sentita e non voluta a livello popolare: le alte gerarchie dell’esercito e l’intera classe dirigente ne furono responsabili fino in fondo.
L’opposizione a Badoglio, largamente diffusa nel Paese dalla metà di agosto, trova anche un primo punto di coagulo nell’accordo fra PCI, PSIUP e PdA del 30 agosto, accordo che aveva come obiettivo una aperta «lotta contro il governo» che non aveva voluto la «radicale eliminazione del fascismo e l’allontanamento delle forze germaniche dall’Italia», ma soprattutto non aveva perseguito «una politica energica e conseguente di pace e libertà». Da parte sua, il partito comunista presentava al governo e al comitato romano delle opposizioni un promemoria che invitava alla lotta armata contro l’occupazione tedesca. Dagli ultimi giorni di agosto i comitati unitari locali avanzavano alle autorità militari formali richieste di armare il popolo, di formare reparti di «guardie nazionali», di apprestare gruppi di civili per la difesa del territorio nazionale.
Le masse popolari stavano ritornando protagoniste delle vicende del Paese. II compito di Badoglio, di garantire una successione tranquilla e indolore al fascismo, era fallito.
II vuoto di potere apertosi con l’8 settembre determinava un confronto dialettico fra le forze più avanzate che sarebbero state protagoniste della lotta di liberazione nazionale e il vecchio potere politico ed economico che tentava di salvare il più possibile della continuità dello Stato e dei tradizionali rapporti di potere.
Luciano Casali, storico
Pubblicato giovedì 20 Luglio 2017
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