Io lo chiamo un 25 luglio qualunque; non certo perché mi riferisca ad una giornata come le altre, in cui non sia successo nulla di eccezionale, anzi! ma perché nella sua eccezionalità fu comune, o simile, nella piccola realtà in cui vivevo, un piccolo paese d’alcune migliaia d’anime, a quello che conobbero migliaia di altre piccole realtà in tutta Italia.
La notizia del «dimissionamento» del cavalier Benito Mussolini venne diffusa, si sa, con l’usuale voce stentorea dell’annunciatore, dai microfoni della radio; e subito fu, via via, tra la gente, stupore, gioia, entusiasmo, rabbia. Le parole del comunicato sembravano troppo semplici, troppo fredde e calibrate, inidonee ad essere portatrici d’un messaggio di tal peso; i sentimenti che esse suscitavano – ma no: scatenavano – erano travolgenti: un colpo secco e sordo aveva infranto un nero cristallo e ora i pezzi cadevano a terra risuonando, crepitando e stridendo e attraverso la breccia sembrava di sentire irrompere un gran fiotto d’aria pulita e di intravedere un domani – ma proprio domani, il giorno dopo, in termini di calendario – diverso.
Non ero che un ragazzo e la scuola che avevo frequentato era stata – inevitabilmente – la scuola fascista, che mi aveva anche, ad un certo momento, catturato con i suoi riti di divise, saluti, inquadramenti, gerarchie: il moschetto giocattolo, il pugnale alla cintola, il grado sulla manica della divisa, le manifestazioni vocianti – nello spontaneismo organizzato – sotto i consolati delle “demo-pluto-social-massocrazie” invocando guerra e affermando la superiorità della civiltà imperiale funzionavano egregiamente come allettamento e appagamento di istinti che l’uomo sembra portare con sé fin da bambino. Ma, per fortuna mia e che certo non fu data a tutti, avevo potuto godere d’un’altra scuola che, a mano a mano che andavo crescendo e facendomi più riflessivo e meno superficiale, aveva avuto il sopravvento. In famiglia, la prudenza e la paura non avevano sopito e nascosto la critica e l’avversione alle quotidiane sopraffazioni del regime; ma, soprattutto, il bar gestito dalla zia, il «Caffè del Mercato», con i suoi grandi archi ornati di vite canadese e il giardinetto dai tavolini di marmo delimitato dai vasi di cemento, aveva costituito per me la scuola alternativa. La dominava la prestigiosa e solenne figura d’un vecchio avvocato dalla barba ormai bianca, che era stato tra i fondatori del Partito Socialista alla sala Sivori di Genova nel lontano 1892, poi valoroso ufficiale d’artiglieria alpina nella prima guerra mondiale, consigliere comunale a Genova, ricchissimo per umanità e cultura. II suo grande impegno politico era stato quello di non mollare d’un millimetro dinanzi all’arroganza fascista, cui opponeva la sua dirittura e la sua statura, anche fisica. Bell’uomo, forbito e facondo nella parola, scendendo al paese dalla sua villa, sempre con un bouquet di fiori appuntato al bavero della giacca che si accompagnava alla cravatta a fiocco, unico e mai dismesso palese segnale di origine e di contestazione rivoluzionaria, non disdegnava di porgere un fiore e uno squisito indirizzo d’omaggio alle bellezze muliebri; ma, a sera, raccolto solitario nel suo grande studio dai mille volumi severi nelle calde rilegature dalle impressioni in oro, trascorreva ore silenziose immerso nella lettura e nella traduzione dei classici greci e latini. Nei confronti del regime imperante, che lo aveva messo al bando, costituiva una sfida perenne, di atteggiamento e di parola. Quando cercarono di piegarlo, minacciandolo di processo e invio al confino, disse semplicemente che la libertà non poteva da alcuno essergli sottratta e si sparò una revolverata in bocca, sopravvivendo soltanto per l’eccezionale vigore fisico di cui era dotato. Trasportato all’ospedale della citta, le visite di cui fu oggetto da parte di amici e di estimatori e di gente che mai l’aveva conosciuto si tradussero in una vera e propria silenziosa manifestazione di antifascismo: sovente penso a quell’episodio che vissi da ragazzo, alla lunga coda di persone che aspettavano di potergli porgere un saluto, quando sento parlare, a proposito e a sproposito, con tanta sicurezza, del consenso popolare al fascismo. Attorno a lui, fedele frequentatore del Caffè del Mercato, un medico, un geometra, un falegname, due commercianti, un poeta, un giornalista; un professore di liceo che già era e più sarebbe stato nella Resistenza uno dei maggiori collaboratori di Ferruccio Parri, un avvocato ex deputato che a Montecitorio aveva messo sotto accusa Mussolini al momento della scomparsa di Matteotti, un prete di grande cultura e di inarrivabile oratoria, due ex confinati politici, uno dei quali sosteneva di dover essere grato al regime fascista perché il soggiorno coatto in un villaggio del sud l’aveva guarito dai reumatismi di cui gli avevano fatto dono le trincee del Pasubio e del Montello.
L’originale cenacolo si riuniva per parlottare, forse sognare, ricordare altri tempi, esprimere fiducia e speranza. La zia Angelitta, semplice e modesta, ma decisamente «iniziata», faceva buona guardia e curava quel caro gruppo di «sovversivi» come fossero stati divinità, portatori dell’unico verbo credibile. Facevano buona guardia, naturalmente, anche i fascisti, irritati di non poter intervenire più direttamente poiché prudenza e scaltrezza non mancavano di assicurare la dovuta copertura; allora inviavano il maresciallo dei carabinieri – una pasta di uomo pieno di rispetto e cortesia che provvedeva alla forzata bisogna con tante scuse e sbuffi, chiudendo gli occhi e allargando le braccia – a imporre di tappezzare il locale di avvisi più ridicoli che drammatici: «qui non si parla di politica o di alta strategia», «lavorare e tacere», «taci, il nemico ti ascolta» e baggianate simili, o a imporre di tanto in tanto, con notevole frequenza, la chiusura del Caffè per un paio di giorni. Ma il «covo di vipere» continuava la sua esistenza. Di prima mattina, quando ancora non albeggiava, Giangialin, il geometra ex confinato, attraversava il paese fischiettando provocatorio il «Tipperary» ed era il primo avventore; sui tavolini, i quotidiani erano La Stampa di Torino, che inalberava sulla testata il motto “Frangar non flectar” e appariva, quindi, per gente che mai davvero si era piegata, simbolico e prezioso, al di là del contenuto del giornale e della sua fedeltà o meno al motto stesso, e l’Osservatore romano, l’organo vaticano sul quale gli “acta diurna” e le sintetiche notizie sul conflitto e dall’estero, facevano giustizia di tanti troppo bugiardi bollettini. Ci fu un tempo, ricordo, in cui venne l’imposizione di dotarsi della stampa di regime: dopo ampia consultazione, la scelta coatta non favorì Il Popolo d’Italia mussoliniano, bensì preferì il cremonese II Regime fascista di Farinacci, non certo per simpatia verso il figuro, ma perché in quel momento egli sembrava guidare, anche se facinorosamente e velleitariamente, una certa faida all’interno del partito fascista.
In questo clima, ascoltando attento, imparai presto quel che certo a scuola non veniva insegnato: seppi dei soprusi, della violenza, dell’ingiustizia; la parola libertà ebbe un senso; la storia cominciò ad essere interpretata in maniera ben diversa da come la proponevano i testi scolastici; la ribellione, insomma, cominciò a prudere, se non già a germogliare.
Nacquero così le prime rivolte, spontanee, non collegate ad alcun movimento organizzato e per ciò stesso, mi pare, a riandarvi oggi con la memoria, più preziose nella loro sincerità. Quando la Germania hitleriana invase la Norvegia, in due realizzammo, su un pannello di pasta litografica, un centinaio di volantini (vi era riprodotto, copiato da francobolli di collezione, il rampante leone norvegese e l’accompagnavano parole di sdegno per l’aggressione e invocazioni di libertà) e li distribuimmo di soppiatto, prima dell’inizio delle lezioni, in tutte le aule del liceo genovese che frequentavamo, suscitando grande scalpore e tensione e minacce, prive, per fortuna nostra, di conseguenze essendo stati sufficientemente abili nel non lasciare traccia. E molti momenti dei «sabati fascisti», tra una militaresca marcia e l’altra, furono avventatamente dedicai a spiegare come e perché quegli strapotenti alleati d’oltralpe fossero in realtà violenti prepotenti che la storia, anche quella dei nostri padri che avevano vissuto la guerra delle trincee, del Piave e del Carso, sempre ci aveva opposto nemici e come e perché quando si montava la guardia d’onore al monumento ai Caduti (così grande e brutto e sproporzionato nella funerea e incredibile figura del soldato caduto disteso come sull’attenti, al fianco la bandiera, enormi piedi giganteschi irreali puntati al cielo, e purtuttavia così nobile nel suo significato, con la lunga teoria di nomi di morti e dispersi incisa sul basamento) si doveva pensare al nemico guardando in una precisa direzione.
Erano piccole, piccolissime cose e seppi dopo che già in quel tempo c’era chi ben altre azioni compiva, con ben maggior rischio e pagando cari prezzi; ma servirono, almeno, a far maturare nella convinzione più profonda la scelta di campo, senza traumi o equivoci, come per tanti avvenne, specie all’8 settembre, ma come maturazione naturale. E quando raccontavo tali birbonate al «mio» avvocato sotto ai suoi baffi, dietro le parole di prudenza e di amichevole rimbrotto, vedevo trasparire sottile la soddisfazione.
Ecco perché quel 25 luglio la voce radiodiffusa portò in me entusiasmo immediato. Correre alle case dei vecchi amici del «Caffè», gridare la notizia, ricevere i loro abbracci, passare la notte in allegria sfrenata; cercare, anche, i vecchi fascisti, i tronfi gerarchetti, spiarne il viso pavido, lanciar loro qualche insolenza, una minaccia; organizzare le puntate alla casa del fascio, che era allocata in un palazzo antico, bellissimo, dell’epoca dei Fieschi, il cui ombroso androne e le spaziose sale erano divenuti cupi luoghi d’autorità tenebrosa, dove personaggi mediocrissimi s’impalcavano a reggitori dei destini dei singoli e della collettività, imponendo una rigida quanto idiota disciplina fatta soltanto di gesti, rituali, demagogia, slogan (oibò: parole d’ordine; allora le parole straniere erano severamente cancellate, Courmayeur non era forse diventata Cormaggiore e Restaurant non già ristorante ma ristoratore?). Vi andammo in gruppo, tutti giovani, superando agevolmente il blocco imposto da pochi – e non convinti – carabinieri. Accadde quel che accadde ovunque. I ritratti del tiranno si trasferirono dalle pareti al selciato della strada antistante, le parole d’ordine che avevano preteso di marchiarci per la vita – «credere obbedire combattere», «a noi», «duce tu sei tutti noi», «il duce ha sempre ragione» – cancellate, scritte di libertà in loro vece. Scattò quella che poi qualcuno pretese definire spregiativamente furia iconoclasta ed era invece legittima quanto insopprimibile reazione all’abuso che il regime aveva compiuto di imporre ovunque, a proposito e a sproposito; sui palazzi come sui vespasiani, sulle proprie «opere» come su quelle esistenti da millenni, insegne, motti, simboli: che caddero a dozzine, anche nel piccolo paese, nel giorno fatidico. Ricordo il grosso, pesante “fascio” di metallo che reggeva il pennone della bandiera al parco della rimembranza, davanti a quel monumento ai Caduti nobile nella sua banalità artistica. Un «fascio» che mi aveva infastidito da quando alcuni dei vecchi amici del “Caffè del Mercato” (il “mio” avvocato in testa) avevano «mugugnato»: «Che cosa c’entra? Noi siamo stati combattenti (e taluni lo erano stati con grande valore) e siamo antifascisti: quell’insegna è uno sfregio». Lo si divelse, lo si trascino con corde per le vie del paese e faceva un grande baccano di ferraglia sobbalzando sui lastroni di selce, la gente guardava i ragazzini più giovani correvano dietro a noi in improvvisato vociante corteo, lo buttammo nel grande atrio del nobiliare palazzo municipale ove con un basso recinto di tavole era stato da tempo impiantato un punto di raccolta su cui sovrastava il cartello «ferro alla Patria». Poiché il paese, per merito di un gruppetto di scalmanati, nel 1921 era stato tra i primissimi – per la esattezza il terzo, dopo Milano e Sampierdarena – a costituire un «fascio», una piazza centrale portava, per l’appunto, la dedica al «fascio terzogenito di Italia». La targa era alta sulla facciata d’una casa e la si raggiunse con una scala. Proprio sotto di essa, un po’ terreo, ma fermo sulla sua sedia, stava un vecchio notaio, colonna del fascismo locale i cui esponenti certo tutti superava per cultura e nobiltà: settario nei giudizi, forse colpevole o anche animatore di interventi di polizia nei confronti degli antifascisti, purtuttavia aveva avuto il buon gusto di non mischiarsi alle pubbliche carnevalate dei suoi compagni di fede che palesemente non stimava molto. Fu sprezzante e coraggioso, nell’occasione, senza reagire ma senza fuggire ed evitò, con ciò, qualche gesto inconsulto. Tratta di peso all’interno della casa, la lapide del fascio terzogenito volò in frantumi. Come quella che proclamava un tratto della via Aurelia «via 28 ottobre», la data della cosiddetta «marcia su Roma». La sostituimmo con una grande targa di cartone che la ribattezzava «via 25 luglio». La si vedeva dalla finestra di casa e nei giorni seguenti scrutavamo per osservare se era ancora integra. Nessuno la toccò, sino al tragico – e glorioso – 8 settembre. In quei primi giorni, di tanto in tanto qualcuno si fermava e appendeva fiori ai chiodi con cui l’avevamo fissata. Fascisti, in giro, salvo il vecchio notaio, non se ne vedevano più. Le “cimici” all’occhiello (com’è noto, il distintivo fascista, un po’ per la forma, più per il suo simbolo di parassita succhia sangue s’era guadagnato il nomignolo di cimice) erano scomparse.
Permaneva una grande ventata d’entusiasmo, ma quella frase del bollettino badogliano «la guerra continua» aveva steso un velo di incertezza e preoccupazione.
Non ricordo che giungesse eco delle parole di Duccio Galimberti a Cuneo («sì, la guerra continua, ma contro i tedeschi»), eppure tutto si mosse sin da allora: ai primi d’agosto già stavamo setacciando, su incarico del movimento clandestino di «Giustizia e Libertà», le località più recondite della riviera per stabilire ipotetici punti d’approdo di «commandos» alleati.
(da Patria Indipendente n. 12-13 del luglio 1983)
Qualche nota biografica sull’autore, Roberto Bonfiglioli.
Subito dopo l’8 settembre 1943 si unisce a un gruppo di giovani antifascisti raccoltisi a Recco (sua città natale) attorno ad Aldo Bianco, assumendo lo pseudonimo di Ruby. Agisce nella zona fino al maggio 1944, mantenendo i collegamenti tra i diversi ambienti antifascisti. Entra poi a fare parte della formazione “Giustizia e Libertà”, che operava sulle montagne alle spalle di Chiavari, sotto il comando di Antonio Zolesio (Umberto Parodi), dislocata tra il fiume Trebbia, Aveto e la Val Fontanabuona, con epicentro nel paese di Barbagelata.
A fine maggio viene arrestato dalla Gnr e sottoposto a pesanti interrogatori. Nel tragitto verso la Casa dello Studente di Genova riesce a fuggire e a tornare alla sua formazione. Ripresosi dalle violenze subite, partecipa alla liberazione di prigionieri politici ed ebrei rinchiusi nel campo di Calvari. Nuovamente arrestato in novembre da reparti della Divisione Monterosa, anche questa volta riesce a fuggire, raggiungendo la 5ª Armata americana sul fronte delle Apuane. Arruolatosi nel nuovo esercito italiano, fa parte del Gruppo di Combattimento “Cremona”, impegnato con l’8ª Armata britannica sul fronte dell’Adriatico. Partecipa ai combattimenti del Po di Primaro, alla Battaglia del Senio e alla liberazione di Chioggia e Venezia.
Nel dopoguerra ricoprì la carica di vicesindaco e assessore alla cultura a Recco.
È stato, nell’Anpi, presidente provinciale di Genova, segretario nazionale e prezioso condirettore di Patria Indipendente.
Pubblicato sabato 25 Luglio 2020
Stampato il 21/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/anniversari/25-luglio-1943-cronache-di-paese/