È un potente esercizio storico quello del libro “VIII Zona. Pratiche di Resistenza e reti clandestine a Roma”, curato dagli storici Riccardo Sansone e Anthony Santilli, edito da Anppia, l’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti, che “agisce per mantenere viva la memoria storica di questa lotta collettiva che animò gli antifascisti per tutto il ventennio della dittatura, per testimoniarla e raccontarla affinché non vada perduta o manipolata. Con questo intento è nato il presente volume” scrive il presidente, Paolo De Zorzi.

Tutte le foto sono tratte dal volume

Potente perché fornisce nuova luce alla storia del protagonismo dal basso: quelli che erano “fantasmi”, negati nella dimensione sociale, culturale, fino a quella urbana, prendono corpo e parola, si fanno soggetto e conquistano un ruolo propulsivo per liberare sé stessi e la società nel suo complesso. E lo fa con inedite memorie orali: da quelle custodite all’Archivio sonoro del Circolo Gianni Bosio, alle altre registrate negli anni dagli autori dei contributi, dalle memorie dei vecchi abitanti delle borgate, testimoni diretti delle rappresaglie nazifasciste e delle epiche azioni della Resistenza locale, alle testimonianze raccolte in archivi privati finora inediti, che impreziosiscono la narrazione.

Una delle più originali e contemporaee kermesse per conoscere la storia nei luoghi dove accadde

Potente perché ha avuto la straordinaria capacità di trasformare il territorio da oggetto di studio a soggetto produttore di storia in “un processo condiviso di scrittura del proprio passato e del ruolo da questi assunto nel panorama cittadino e nazionale” con l’interessante e partecipato festival “Bella Storia-Narrazioni di strada”, da cui deriva il volume: collettivi, associazioni, ricercatori indipendenti del sistema accademico, professionisti dello storytelling, “indefessi custodi delle memorie locali” che si sono riuniti a più riprese in un costante confronto con storici “di professione”.

Creando un mosaico di contributi eterogenei tanto quanto le sfaccettature della Resistenza che raccontano. “Non si tratta semplicemente di costruire un’équipe di lavoro – scrivono Sansone e Santilli nell’introduzione del libro pubblicato in occasione dell’80° anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, del rastrellamento del quartiere Quadraro e della Liberazione di Roma – bensì di estendere il lavoro collettivo ad attori sociali solitamente ai margini della produzione storiografica tradizionale, che tuttavia vantano un patrimonio di conoscenze del e sul territorio, pressoché unico”.

Roma, via del Pigneto 31, a metà degli anni 20 apre un’osteria con cucina, i tenutari sono una giovane coppia giunta da Olevano Romano nel 1922: Arcangelo Milana e la sora Maria (nella foto)

Siamo nell’VIII Zona, tra le più attive della Capitale, quando il movimento clandestino la divise in quadranti per l’organizzazione della Resistenza: Torpignattara, Villa Certosa, Pigneto, Quadraro, Centocelle, Alessandrino, Borgata Gordiani e Quarticciolo. Quartieri periferici a Sud-Est della Città che vivono sin da prima del 1943 profonde interconnessioni, dovute soprattutto alla mobilità sociale degli abitanti, interconnessioni che durante l’occupazione si moltiplicano in modo esponenziale per il febbrile attivismo degli occupanti e dei protagonisti della Resistenza.

Sono anni in cui la zona diventa meta dei grandi flussi migratori interni, favorendo in questo modo la formazione di un nuovo sottoproletariato urbano. Ad alimentare nel tempo questo imponente fenomeno sociale sono le reti di conoscenza e di sostegno esistenti tra conterranei che promuovono l’ospitalità per i propri compaesani. Organismi informali di mutua assistenza che crescono all’ombra di uno Stato fascista forse troppo impegnato a glorificare sé stesso. Pugliesi, calabresi, lucani, campani, molisani, ciociari e siciliani, e anche toscani, si ritrovano quindi a convivere e condividere aree extra-urbane mal collegate e con pochi servizi.

Tra loro anche i coniugi militanti socialisti – e per questo sorvegliati dall’Ovra, la Polizia fascista – Giuseppe Sapienza e Maria Giudice per permettere alla figlia Goliarda Sapienza, futuro talento letterario, di frequentare il corso dell’Accademia di arte drammatica diretta da Silvio D’Amico.

Da uno dei racconti a fumetto del libro

“È in queste borgate che la Resistenza trova la sua base di massa — scrive Walter De Cesaris nella prefazione — possiamo parlare della Resistenza come lotta costituente, non solo nel significato ovvio della conquista della Costituzione repubblicana, ma anche in quello della presa di parola di una nuova soggettiva sociale, della costruzione di un’identità politica e un profilo culturale. In altre parole, potremmo dire, la definizione di una nuova coscienza di sé e di una nuova narrazione della società che, dall’esperienza della Resistenza, si proietta nella costruzione di una nuova democrazia partecipata, come leva di processo di riscatto civile e sociale”.

È un quadrante strategico per le truppe tedesche che si attestano nel Cassinate, nel basso Lazio, trasformando la consolare Casilina e la ferrovia Roma-Napoli nelle principali arterie di rifornimento per il fronte della Linea Gustav da una parte, che dall’altra diventano quindi oggetto di azioni di sabotaggio dei Gruppi di Azione Patriottica (Gap), direttamente dipendenti dal Comitato di Liberazione Nazionale, contro i reparti tedeschi, nonché bersaglio di bombardamenti da parte dell’esercito anglo-americano. Tipografie in cui si stampano volantini e giornali clandestini, falegnamerie dove si producono i famigerati chiodi a quattro punte, contatti radio, assalto ai rifornimenti tedeschi per distribuirli alla popolazione affamata dalla guerra, case adibite a nascondiglio di perseguitati o di armi. Tutto in questa zona era coinvolto nella lotta di Liberazione che vede le formazioni clandestine collaborare fra loro ed essere aiutate anche da uomini delle forze della Repubblica Sociale Italiana, come il nucleo Polizia dell’Africa Italiana, nonché dall’Istituto Sanatoriale Bernardino Ramazzini, al Quadraro, mette in salvo tutti coloro che sono ricercati dalle SS grazie all’aiuto delle suore. Avvenimenti raccontati in prima persona da chi in quegli anni era solo un bambino in un profondo capitolo curato da Serena Giorgi.

Con la giacca, il partigiano Angelo Nazio

Il ruolo dei partigiani andò comunque oltre la Liberazione di Roma del 4 giugno 1944: “In un momento di vuoto istituzionale, di trasporti fatiscenti, di assenza di comunicazioni, noi eravamo l’unica struttura che poteva assicurare il minimo delle azioni possibili – racconta il gappista Angelo Nazio, intervistato dal presidente dell’associazione Centocelle, Andrea Martire – E così portavamo le persone dai dottori, facevamo consegne, portavamo conforto e competenze. Un’azione davvero sociale che non è stata riconosciuta, secondo me. E che veniva portata avanti in pratica da tutte le sigle gappiste”. Questo è un altro aspetto della Resistenza poco indagato che rende il libro significativo per la cultura antifascista, a cui si aggiungono, nell’intreccio della dimensione pubblica e privata, le preziose storie di Remo Ponzo, curata dalla giornalista Cecilia Ferrara, di Tigrino Sabatini, Commissario Politico del Movimento Comunisti d’Italia – meglio conosciuto con il nome del suo giornale Bandiera Rossa – restituendogli “la grandezza che la Storia, con la S maiuscola, ha fin qui trascurato” ed operaio dell’ex Snia Viscosa, dove “il suo nome campeggia all’ombra di un glicine lillà”, scrive Alessandra Conte che ne ha ricostruito la biografia.

Valerio Fiorentini, ucciso alla Fosse Ardeatine

Intenso anche l’omaggio dedicato a Valerio Fiorentini, comandante dei Gap del Partito Comunista di Torpignattara, approfondito dal ricercatore Aldo Benassi grazie ai documenti inediti conservati dalla figlia Celeste. Fiorentini, insieme ai gappisti Aldo Ferri e Clemente Scipioni, fece parte dell’azione che vide l’esecuzione del commissario di polizia Armando Stampacchia, un fedelissimo al regime che contribuì ai rastrellamenti di ebrei e di operai sfruttati indegnamente per i lavori forzati. Fu l’unico esempio di attacco diretto e pianificato contro un tutore dell’ordine nella Roma occupata, a dimostrazione che da queste parti la lotta era durissima. Al momento dell’arresto i due gappisti riuscirono a scappare, pagando in seguito con il carcere e uscendo indenni dal processo – dopo che l’intera catena di comando dell’organizzazione militare del PCI testimoniò assumendosi la responsabilità dell’attacco – mentre Fiorentini venne prima torturato in via Tasso e poi fucilato alle Fosse Ardeatine insieme ad altri 335 antifascisti il 24 marzo 1944. “La cosa più importante, però – scrive Luca Saletti in una lettura fine delle fonti archivistiche e delle carte processuali che ha permesso di ricostruire la complessa vicenda – è che, comunque la si ricostruisca, questo non sposta di una virgola il fatto che l’uccisione del commissario Stampacchia fu indubitabilmente un’azione legittima, inquadrata nella lotta partigiana”.

Pastificio Cuminetti

Il libro “VIII Zona. Pratiche di Resistenza e reti clandestine a Roma” continua ad essere potente anche nella narrazione dei luoghi dell’antifascismo, come le osterie, di cui parla lo scrittore Honoré de Balzac, secondo il quale esse erano «il parlamento del popolo», nonché spazi di discussione politica: “il Fascio Operaio di Bologna – ci ricorda Guido Farinelli in uno dei contributi inclusi nel volume – viene fondato nel 1871 all’interno della trattoria-albergo Le tre zucchette. Lo stesso Partito Socialista nasce nell’osteria di salita Pollaiuoli di Genova nell’agosto del 1892 quando Turati, Prampolini e la Kuliscioff decidono di rompere con gli anarchici e convocare nello stesso luogo i delegati che aderiscono alla loro mozione”. Tra le mura di un’osteria dell’Ottava Zona, nota come “da Gigetto”, vengono uccisi tre soldati tedeschi dal famoso Gobbo del Quarticciolo – figura molto nota in questo quadrante di Roma – Giuseppe Albano, e dei suoi due compagni Franco Basilotta e Giovanni Farinelli Ricci, entrambi del Quadraro. Era il 10 aprile 1944 e una settimana dopo, il 17 aprile, avvenne la rappresaglia nello stesso quartiere denominato “Nido di Vespe” perché sotto di esso vi erano grotte e stretti corridoi che collegavano facilmente i vari quartieri della zona, nascondigli ideali per i partigiani e depositi invisibili di armi. Oltre settecento uomini tra i 15 e i 60 anni deportati come bestiame prima nel campo di lavoro di Fossoli, in Emilia Romagna, poi in Germania come “braccia del Terzo Reich”.

A guidare le operazioni militari è il tenente colonnello Herbert Kappler, comandante della polizia addetta alla sicurezza, meglio noto come “il boia delle Fosse Ardeatine”. Il Comando tedesco ordinerà l’anticipazione del coprifuoco alle ore 16 pomeridiane e nessun tram o autobus potrà raggiungere i capolinea di Quadraro e Centocelle: per sei giorni dall’inizio di quell’aprile 1944, l’VIII Zona è isolata dal resto della città . “Non a caso il termine scelto per identificare l’operazione nazista è Walfisch – scrive lo storico Riccardo Sansone che da anni si occupa della ricerca storiografica del quartiere – quasi a voler significare che tutta la popolazione della borgata, indistintamente dalla sua appartenenza politica, viene vista come un soggetto unico e pericoloso da neutralizzare, da ingoiare in un sol grande boccone come fa una balena con il plancton”.

All’ingranaggio collettivo della memoria del rastrellamento del Quadraro si aggiunge un tassello importante, rappresentato dal diario di Alfredo Marcelli, curato da Maria Anna Tomassini, e di quello di Michele Ascoli, rastrellato con il cognato quel 17 aprile perché nascosto nel quartiere con la famiglia dopo la razzia del Ghetto. Avviato verso la Germania senza che i nazisti scoprano la sua ebraicità, sarà uno dei pochi che ritorneranno a casa. Entrambi descrivono il contesto e conducono i lettori e le lettrici dalla storia personale alla cornice socio-politica nazionale. Storie che ampliano la narrazione “sull’aspetto umano di quell’epoca che, forse, dalle fonti ufficiali non trapela pienamente”, arricchite anche con linguaggi espressivi freschi, come le graphic novel di Claudio ‘Nevskj’ Civitella e di Giulia D’Ottavi che raccontano la storia di Adolfo Bonfanti, altro uomo rastrellato che riuscì a saltare da quel treno per unirsi alla lotta partigiana sulla Linea Gotica, le vicende di Anselmo Fadda, detto Er Fantino, il primo partigiano del Quadraro giustiziato da un plotone di esecuzione e quella di Maria Andreani, caso emblematico dell’apporto femminile alla Resistenza riportato nel volume come potente esercizio storico.

Potente perché la “narrazione forzatamente omogenea della resistenza femminile” viene qui ribaltata in un cambio di prospettiva che solo di recente ha iniziato a tenere conto delle singole specificità. Cuoche, lavandaie, contadine, riparatrici in casa, domestiche a ore, “cicoriare” che rifiutarono il dover attendere, da angeli del focolare, che la guerra finisse e che i loro mariti tornassero a casa. In fondo, era quello il ruolo a loro destinato. Nella ricostruzione dei fili biografici di Fraolina Alivernini, Elena Balzoni, Zeffirina Maiolati, Maria Ciappetta e moltissime altre dell’VIII Zona emerge che molto è stato taciuto: al di là del ruolo di “maternage di massa”, ovvero nutrendo e rifocillando i partigiani, come farebbero con dei figli in pericolo, “melassa sentimentale” in cui la Resistenza femminile ha stagnato per decenni, queste partigiane maneggiarono armi, trasportandole, nascondendole, a volte possedendone una. Pur non svolgendo azioni armate dirette, le partigiane furono costantemente a rischio di arresto dai nazi-fascisti. Senza il loro lavoro logistico, difficilmente si sarebbe potuta mettere in pratica la lotta partigiana armata.

“Il monopolio della violenza armata è stato uno degli strumenti del dominio di genere, ma anche il cardine dell’accesso alla cittadinanza politica”, spiega Eva Muci la cui tesi di laurea fa parte dei contributi del volume. Le armi sono lo strumento che garantisce l’esercizio del potere nella difesa della propria patria. In un contesto di disparità di genere, c’è chi ha diritto a possederle e chi, come le donne, no. Riconoscere alle donne la possibilità di esercitare la violenza armata avrebbe significato riconoscere un’uguaglianza di genere. Per questo, si parla di “tabù della donna armata”. Una narrazione quella della Resistenza romana, che spesso ha minimizzato il ruolo avuto dalle centinaia di donne della periferia che nei valori antifascisti si ritrovano per prime, prima ancora che il fascismo cada e per molto tempo a lottare.

Tutti questi contributi non sono altro che tessere lucenti che formano un’unica immagine, dimostrando come l’unità vera sia frutto della somma del molteplice, proprio come la Resistenza. Perché il valore di quell’impegno – umano, civile, politico – continui a vivere nelle nostre coscienze. Anzi, in una coscienza condivisa.

Mariangela Di Marco, giornalista