Scrive Hegel, nella sua “Astuzia della ragione”, che le azioni compiute da singoli individui per la gloria personale possono assolvere una funzione progressiva dal punto di vista storico-generale senza che chi le compie lo voglia o, a volte, ne sia neppure consapevole.
Antiche reminiscenze di filosofia del diritto che riemergono mentre il presidente del Consiglio Conte, sceso in sala stampa del Consiglio, ultimo tra i capi di Stato e di governo, spiega ai corrispondenti il ruolo fondamentale del governo italiano nell’arrivare a quel compromesso che ha infine determinato la leadership dell’Unione europea dei prossimi anni.
Il punto di partenza è un ragionamento semplice: l’Italia, Paese fondatore, terza economia della UE ed uno degli Stati più popolati, non poteva accettare un’Europa decisa dall’asse franco-tedesco. L’ipotesi di un olandese e di una danese (Timmermans e Vestager), o ancora di un candidato di un Paese dell’est era impossibile da tollerare, perché proposta come un pacchetto dalla consueta alleanza tra Macron e Merkel. Era necessario quindi un intervento per spostare le scelte, che l’Italia ha condotto assieme ai cosiddetti “Paesi di Visegrad”, notoriamente piuttosto euroscettici ma vicini ad una parte dell’attuale maggioranza di governo romano.
Veto quindi sul nome del candidato socialista Timmermans, colpevole di essere stato proposto dai tedeschi e dai francesi innanzitutto. Operazione di alto livello, con cui i responsabili italiani riportano il nostro Paese al centro di negoziati ottenendo un brillante risultato: l’elezione di Ursula Von der Leyen, “preferita” della signora Merkel, alla presidenza della Commissione europea (una tedesca) e di Charles Michel – primo ministro belga sfiduciato, francofono, francofilo, in ottimi rapporti con il presidente Macron – alla presidenza del Consiglio Europeo e dell’Eurogruppo.
Riuscendo così un capolavoro che vede anche la sostituzione di Draghi con M.me Lagarde (francese, direttamente dal Fondo monetario internazionale alla Bce) e l’annunciata nomina di Timmermans quale Primo vicepresidente della Commissione, presumibilmente con un portafoglio economico e finanziario.
Cui si aggiunge, tra le beffe, anche il successo del socialista italiano David Sassoli al Parlamento europeo, avendo già soddisfatto il gruppo dei Popolari europei con la Commissione e quello dei Riformatori (ex Alde) al Consiglio.
Dettagli non marginali. Innanzitutto perché aver posto il veto al nome del Commissario che sarà probabilmente chiamato ad esaminare l’eventuale necessità di una prossima procedura d’infrazione contro l’Italia non è esattamente la mossa più astuta che si potesse fare.
Certo, i commissari lavorano nell’interesse dei 500 milioni di europei e non hanno stati d’animo, certo, l’aplomb olandese è noto. Ma, guarda caso, Timmermans è cresciuto a Roma… Non sia mai che oltre ad aver acquisito una passione giallorossa abbia anche assimilato qualche goccia di italianissimo gusto per il risentimento.
In secondo luogo, riuscire a far eleggere un deputato socialista – ed in più del Pd – allo scranno più alto di Strasburgo può considerarsi machiavellico. Nessuno, la sera delle elezioni, avrebbe mai soltanto osato evocare questa possibilità. Era impossibile, fuori da ogni logica. Ed invece, grazie allo sforzo italico per cambiare le cose, abbiamo non solo una tedesca, una francese e un francofilo ai vertici, ma pure due socialisti: lo spagnolo Borrell, che rimpiazza la Mogherini nel ruolo di Alto Rappresentante per la politica estera, e l’italiano Sassoli.
Come si dice a Bruxelles: Chapeau!
Vista una parte dei retroscena, merita un rapido approfondimento la biografia di almeno uno degli attori principali, perché è attraverso la sua storia che si potrebbe immaginare il profilo dell’Europa che (forse) verrà.
Terza di sette figli, Ursula Albrecht, maritata Von der Leyen, la candidata alla Presidenza della Commissione europea, è la figlia dell’ex presidente della Bassa Sassonia e conosce bene le realtà della capitale belga ed europea, per esserci nata ed aver trascorso gran parte della sua infanzia proprio a Bruxelles, dove suo padre era funzionario della Commissione europea e dove lei frequenta la scuola europea dal 1964 al 1971.
Quando il padre entra in politica, la famiglia torna in Germania; Ursula si diploma al liceo scientifico e studia archeologia, prima di cambiare rotta e dedicarsi all’economia, che segue a Gottinga, a Münster e alla prestigiosa London school of economics and political science. Percorso variegato, che la porterà, infine, a laurearsi nel 1987 in Medicina. Un anno prima aveva sposato un collega medico, Heiko Von der Leyen, con il quale – tra l’87 e il l’99 – ha sette figli. Nel ‘92 si trasferisce a Stanford, in California e rientra in Germania nel 1996, come assistente di ricerca presso la Medical school di Hannover, nel dipartimento di epidemiologia.
Eletta locale per la Cdu – partito cristiano democratico – nel 2001, il 2 febbraio 2003 è deputata al Parlamento della Bassa Sassonia e un mese dopo diventa ministro degli Affari sociali, delle donne, della famiglia e della salute dello stesso Land. Il suo mandato si distingue per l’applicazione del rigore economico; è lei che cura la privatizzazione degli ospedali pubblici, che sospende le indennità pubbliche per i non-vedenti e che sostiene a spada tratta ‘moderne’ politiche della famiglia (così le descrive la Cdu) con il motto “Solo se si fanno più bambini, i sistemi sociali rimangono accessibili e si ri-dinamizza la crescita economica”.
Il salto verso la politica nazionale avviene nel 2005, quando la cancelliera Angela Merkel la chiama a Berlino per diventare ministro della Famiglia e lancia una politica basata sullo sviluppo degli asili nido, per permettere alle donne tedesche di conciliare meglio la vita lavorativa e il loro ruolo di madri. Nel dicembre del 2013 diventa ministro della Difesa, prima donna a occupare questo incarico in Germania. La sua gestione crea qualche malumore all’interno delle Forze armate, per i tentativi di eliminare i riferimenti alla storia militare recente e per la decisione d’inviare truppe e droni in Donbass, a sostegno del locale governo sostenuto da elementi considerati filo-nazisti.
Curriculum interessante, che deve frullare nella testa di molti il pomeriggio del 2 luglio, mentre il nome circola con sempre maggiore insistenza a Bruxelles. La scelta della Cancelliera della sua protetta scatena un putiferio a Berlino. Innanzitutto in casa democristiana, dove la Csu – la parte bavarese dell’alleanza – non può digerire che il candidato originale, quello che si è presentato alle elezioni come destinato ad andare alla Commissione, sia messo da parte per qualcun altro. Ovviamente Manfred Weber, il candidato appunto, appartiene alla Csu mentre Ursula è iscritta alla Cdu (partito della Merkel) dal 1990. E poi tra i socialisti, che considerano la scelta di mandare a Bruxelles una “che non si è manco candidata” (parole carpite in sala stampa a un funzionario della Spd, il partito socialdemocratico tedesco) una vera e propria truffa. C’è baruffa nell’aria sino alle 18, telefonate frenetiche tra Berlino, Bruxelles e Strasburgo, dove il Parlamento ha addirittura deciso di rimandare l’elezione del suo presidente aspettando le nomine proposte dal Consiglio e dove l’intera famiglia socialista è sul piede di guerra. E poi l’accordo. Che vede l’astensione della Merkel al voto dei Capi di Stato e di governo e spiana la strada a un socialista spagnolo e a uno italiano.
La dottoressa Von der Leyen dovrà ora ottenere la fiducia del Parlamento perché la sua nomina sia effettiva. Compito non facile, nonostante il lungo percorso già affrontato. Da una parte perché gli eurodeputati non hanno per nulla apprezzato il modo in cui si è arrivati sino qui, poi perché i Verdi si sono sentiti tagliati fuori da un processo che avrebbe dovuto vederli quarta forza della maggioranza ed infine perché anche i socialisti, nonostante l’inaspettata nomina di David Sassoli alla Presidenza, non hanno certo fatto salti di gioia per la scelta di qualcuno che pare incarnare l’immagine del rigore e delle pulsioni liberiste che hanno fatto deviare l’Europa dal cammino originale.
Le leggende metropolitane narrano che la candidata abbia affermato, ai tempi della crisi greca, che “non avevano che da vendersi qualche isoletta per ripagare il debito”, così come che l’approccio mercantilista della futura potenziale presidente della Commissione mettesse a disagio perfino un falco come Schäuble, ministro delle finanze tedesco, noto per il suo rigore.
C’è un ultimissimo dato, riservato agli adepti dei segreti dei palazzi brussellesi, che potrebbe frapporsi tra l’ex ministro della difesa e l’esecutivo UE: si chiama Martin Seylmar ed è il potentissimo Segretario generale della Commissione. Ex Capo di Gabinetto di Jean-Claude Juncker, da lui promosso con un procedimento talmente opaco da portare il Parlamento a chiederne le dimissioni, Seylmar ha fatto campagna – anche in modo piuttosto aperto – per il premier croato Andrej Plenković.
49 anni, leader di Hdz – il partito conservatore e nazionalista fondato da Franjo Tudman – il Primo ministro croato ha visto il suo nome apparire improvvisamente nel novero dei potenziali candidati alla presidenza della Commissione una volta saltata l’opzione Timmermans. Alternativa scartata immediatamente al Consiglio, essenzialmente per un motivo, ovvero l’origine della proposta… Seylmar, appunto. Che sa perfettamente che, essendo tedesco e vicino alla Merkel, sarebbe costretto a lasciare il posto di Segretario Generale se Von der Leyen fosse confermata, secondo il principio che il numero uno e il numero due della Commissione non possono avere la stessa nazionalità. Quale sarebbe la migliore opzione per conservare un posto di grande potere? Semplice, evitare che la nazionalità del prossimo presidente sia la stessa del Segretario Generale.
Jean Quatremer, storico corrispondente da Bruxelles del quotidiano francese Liberation e uno dei più fini conoscitori delle segrete stanze, suggerisce che l’ultimo colpo di coda del delfino di Juncker sia stato quello di mettere a disposizione della potenziale presidente uno staff di fedelissimi. Suoi fedelissimi, ovviamente.
Il Parlamento europeo comincerà a esaminare la candidatura proposta dal Consiglio lunedì 15 luglio. Come in quei romanzi d’appendice in cui i colpi di scena possono accadere sino alla penultima pagina, consiglierei di non dare nulla per scontato.
Filippo Giuffrida, presidente Anpi Belgio e vicepresidente Fir
Pubblicato venerdì 12 Luglio 2019
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