La Resistenza nella pianura ravennate, a differenza di quella classica “in montagna”, non ha forse avuto adeguata (e meritata) conoscenza, nonostante la sua estensione e la quantità e qualità della sua presenza, come testimoniano il numero dei partigiani a patrioti, dei caduti, dei decorati, le città decorate, e il lascito nella memoria collettiva diffusa e nella organizzazione politica e sociale per un lungo tempo, almeno fino alla fine della “prima repubblica”.
Essa ebbe caratteri di marcata peculiarità, se non altro per il fatto di essere organizzata e combattuta in un contesto ambientale del tutto diverso da quello “classico”.
La scelta di insediare la resistenza armata in modo diffuso e sistematico nella pianura ravennate non discese solo dalla necessità militare di reagire e trovare alternative al disastro dell’8a Brigata Garibaldi in Appennino a Pasqua del 1944.
Essa discese innanzitutto da una scelta politica e sociale: fare leva sulla composizione demografica e sociale del ravennate, fondata essenzialmente sull’agricoltura, su una fortissima presenza di braccianti ma anche di contadini e mezzadri, in una miriade di paesi, nuclei sparsi, borghi, casolari, per farne “l’acqua in cui far vivere il pesce” della resistenza armata. A questo si aggiungeva anche l’idea – tutta politica – di tradurre a guerra finita il legame popolazione-partigiani in un duraturo insediamento politico.
Questa composizione sociale forniva al contempo molti dei combattenti stessi, che erano in buona parte braccianti, coloni, talvolta contadini, e poi muratori, spesso anch’essi insediati nei centri della campagna.
La scelta di combattere in pianura ebbe da subito un triplice ordine di conseguenze: di organizzazione e di tipologie di azione, di rapporto con la popolazione civile, di ruolo della politica e dei rapporti politici, anche in riferimento alle problematiche e alle aspirazioni sociali delle popolazioni.
La pianura non offre ripari, la struttura dovette quindi partire da questo dato ineludibile, anche perché le uniche “basi logistiche” erano in realtà le case dei contadini, o meglio rifugi sotto, sopra, accanto a tali case. Si organizzò dunque in modo estremamente articolato: gruppi di due tre quattro uomini, squadre di due tre gruppi, GAP di tre o quattro squadre, e così via fino ai distaccamenti (sei in tutta la provincia) fino a costituire la 28ma Brigata, che non a caso fu tutta una “Brigata GAP”. Unica eccezione a tale capillarità fu il Distaccamento che si insediò nelle paludi a nord di Ravenna, che operò dall’estate del ’44 come un vero reparto militare. Le azioni dovettero tenere conto di tale struttura e dunque se esse non furono mai grosse operazioni militari, la loro quantità fu notevolissima, rendendo permanentemente insicura per il nemico una vasta porzione di territorio, specie quando esso divenne dall’estate ’44 la retrovia di un fronte che sul versante adriatico si stava avvicinando. Questa articolazione capillare lasciò poi una traccia duratura nel modo stesso di organizzarsi dei partiti (specie del Pci) nel dopoguerra e segnò per molto tempo la vita e l’identità di paesi, borghi e nuclei.
Il secondo complesso problema fu il rapporto con la popolazione civile. I combattenti – qui più che in ogni altra esperienza – dipendevano in tutto e per tutto dai civili: il rifugio, la complicità, il cibo, le informazioni, i collegamenti tra un gruppo e l’altro. Senza la solidarietà passiva e attiva di una larga parte di popolazione la Resistenza in pianura non sarebbe durata una settimana. Anche questo ha fornito un lascito duraturo, nei legami umani e politici, nella memoria individuale e di gruppo.
Questa situazione aveva un vantaggio: i combattenti non erano degli estranei, erano spesso parenti, compagni di lavoro, vicini di casa, dei civili in mezzo a cui vivevano. Conoscevano bene i luoghi in cui combattevano e le mille risorse di un territorio in apparenza inospitale.
Ma avevano un enorme carico di responsabilità, poiché rischiavano non solo per sé stessi, ma facevano rischiare anche coloro che li ospitavano, li sfamavano, li informavano, cioè persone e famiglie a loro non estranee, anzi assai vicine.
Ciò sottopose spesso i combattenti e i comandi ad atroci dilemmi. I dilemmi della guerriglia (combattere e provocare rappresaglie o non combattere ma venir meno al proprio compito) furono qui enfatizzati fino al parossismo.
“Il nostro gappista non vive dentro un ambiente militare ed eroico come il partigiano della montagna, bensì egli è immerso nella massa e ne subisce gli influssi e i sentimenti. In particolare tutti i nostri gruppi sono dislocati nella campagna, per lo più presso i contadini e dopo le ultime feroci rappresaglie tedesche i contadini sono terrorizzati e si rifiutano formalmente di tenere presso di loro quei gappisti che avessero intenzione di fare qualcosa contro i tedeschi.”
È un brano del rapporto del comandante della 28ma GAP (Alberto Bardi “Falco”, mentre Arrigo Boldrini “Bulow” era il comandante di piazza) del 29 agosto 1944 al comando regionale. Vi traspare tutta la drammaticità di quei dilemmi. Poteva succedere, negli stessi giorni, che il comandante di uno dei distaccamenti avesse opinioni molto più certe e radicali: “finché il popolo non soffre, finché il popolo non è rimasto scottato non sapremo farlo scendere sul terreno della lotta. Quindi bisogna agire, agire senza pietà”.
In generale però questa difficile prova venne affrontata dai comandi con equilibrio e questo fu un durissimo ma fecondo addestramento al rapporto non sbrigativo coi civili, alla mediazione, alla valutazione concreta e non ideologica delle situazioni, alla considerazione dei fattori umani anche nelle vicende politiche. Del resto a conti fatti il rapporto con la popolazione civile risultò sostanzialmente integro, come testimonia il consenso politico ed elettorale avuto poi dai partiti maggiormente impegnati nella lotta armata.
Questo è un altro lascito duraturo che l’esperienza resistenziale ha fornito a molti quadri politici, sia quelli nati direttamente dall’esperienza resistenziale sia a coloro che si sono formati e sono cresciuti alla scuola dei primi. Almeno fino alla generazione di quadri che “hanno fatto il ’68”.
La composizione sociale si tirava dietro altrettante aspirazioni e spesso altrettanti contrasti. Se gli agrari erano la controparte per eccellenza da decenni (anzi da secoli), ed erano diventati “il nemico” per la loro compromissione col fascismo e poi con la repubblichina, i rapporti tra braccianti e contadini e mezzadri erano stati spesso segnati da alleanze contro gli agrari, ma anche da violenti contrasti sociali e politici prima e subito dopo la prima guerra mondiale. Si può anzi dire che tali contrasti (spesso sanguinosi in una terra intrisa di violenza come la Romagna) furono uno dei varchi in cui si inserì più agevolmente il primo fascismo. Anche perché il contrasto sociale aveva un immediato corrispettivo politico: socialisti (forti tra i braccianti) contro un potente partito repubblicano (forte tra mezzadri e contadini).
Ferite vecchie ma spesso ancora aperte. Il gruppo dirigente della Resistenza (prevalentemente comunista) si pose da subito – e con notevole anticipo rispetto ad una maturazione “nazionale” di tali tematiche – il problema di ricostruire e rinsaldare il rapporto del proletariato agricolo con quella specie di “ceto medio” agricolo (assai povero, in verità) che erano i mezzadri e i contadini. Non solo per la basilare ragione che erano contadini quelli che ospitavano i partigiani, ma anche per ragioni squisitamente politiche, che guardavano già ad un dopoguerra da giocarsi non su una prospettiva insurrezionale ma di conquista del consenso.
Così, durante i mesi della lotta armata si costruirono numerosi momenti di collaborazione, di rivendicazione delle ragioni di braccianti e mezzadri verso gli agrari, con la presenza effettiva o prospettata delle armi dei gappisti. Si posero anche le basi di rivendicazioni e accordi per il miglioramento dei rapporti agrari che trovarono sbocco in accordi subito dopo la liberazione di Ravenna, e nell’aprile dei ’45, e poi nel ’46 col noto “lodo de Gasperi”.
Non mancarono anche in questo campo contrasti e contraddizioni, come ad esempio quelli relativi alla parola d’ordine di non trebbiare il grano, per sottrarlo alle requisizioni tedesche. Una parola d’ordine che provocò un moltiplicarsi delle azioni gappiste in tutto il territorio, ma anche lacerazioni politiche gravissime tra i partiti del CLN e contrasti con quei coltivatori con cui si volevano viceversa ricostruire rapporti positivi. Alla fine, si riuscì a trovare senza perdere la faccia una via d’uscita da qualcosa che rassomigliava ad un vicolo cieco. Un empirismo che teneva insieme parole d’ordine generali con una conduzione pratica più duttile e attenta al concreto svolgersi degli eventi.
Anche i rapporti politici ebbero notevole complessità ed una enorme importanza. Si può dire oggi, riguardando l’insieme dei documenti e dei fatti, che la direzione politica assicurata dai principali partiti e dal CLN fu fondamentale per assicurare all’insieme della Resistenza una sufficiente unità, una buona autorevolezza sia verso i civili che verso gli Alleati, e consentì di costruire un tessuto unitario che – pur con notevoli contraddizioni e battute d’arresto – riuscì a conservare qualcosa di vivo anche oltre il lungo dopoguerra segnato dalla guerra fredda, e a riprendere con maggiore scioltezza negli anni di contrasto alla strategia della tensione e negli anni di piombo.
In particolare per il Pci, fortemente segnato da pulsioni ribellistiche in parte della sua base e anche in parte del gruppo dirigente, la prova della Resistenza fece alla fine prevalere la versione più “togliattiana” di esso, che si espresse poi nel concreto della ricostruzione e nella prova del governo locale e nell’insediamento e nella conduzione di un robusto tessuto cooperativo, imparando a fatica ma alla fine ereditando un lascito molto distante come quello del riformismo socialista e cooperativistico di Nullo Baldini. Il ravennate non fu immune dal difficile processo di passaggio dalla lotta armata alla politica democratica: la “lunga liberazione”, lo strascico di violenze post 25 aprile ci furono, anche pesanti. Ma prevalse la capacità pedagogica e di disciplinamento svolta dal gruppo dirigente, che trasformò il Pci in una forza molto legalitaria, anzi in un certo senso “d’ordine”. Chi scrive può testimoniare tale funzione ad esempio negli anni 70, come decisa ripulsa di ogni forma di estremismo e ribellismo. Certo, insieme a questo, il Pci rafforzò anche una funzione egemonica in un reticolo istituzionale e sociale particolarmente “partitocratico”, che oggi sarebbe non solo impossibile ma anche assolutamente non compreso. L’insieme dei partiti (specie la Dc e il Pri che in Romagna rimase forte fino agli anni 80) parteciparono e condivisero quel sistema anche grazie ad una comune esperienza maturata nei CLN e nella difficile ma positiva convivenza nei tempi della lotta di liberazione.
Quando si parla, come hanno fatto molti storici, di “repubblica dei partiti”, essa non ha esempi più forti e compiuti di quelli maturati in provincia di Ravenna durante la “prima repubblica”.
Che oggi quel sistema, e in primo luogo i partiti di massa, si sia anche qui sfarinato se non dissolto, insegna molto del fatto che anche esperienze così radicate e profondamente vissute e trasmesse non hanno retto alla prova del tempo e del succedersi dei processi, e che dunque insieme al loro grande valore avevano dei germi di fragilità che non vennero (o forse non potevano venire) colti in quell’epoca.
Conclusivamente credo possa dirsi che dalla esperienza della “Resistenza in pianura” ebbe origine un modo originale e caratteristico di intendere la lotta e la convivenza politica, di costruire tempestivamente un modo di vivere la Costituzione secondo una forte sottolineatura del ruolo dei partiti, una concezione molto “partecipata” (ma forse non pienamente “liberale”) di essa. Coi suoi limiti, oggi così evidenti, ma col valore di aver fatto diventare terre e popolazioni un tempo piuttosto riottose un luogo di grande civiltà e di alta convivenza civile e coesione sociale.
Guido Ceroni, presidente dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Ravenna
Ps. Abbiamo ricevuto conferma molto recentemente di una notizia che conoscevamo solo per sentito dire. Nel febbraio del ’45 una delegazione di 10 partigiani e patrioti, quasi tutti ravennati e di diverse tendenze e funzioni, venne ricevuta a Roma da Papa Pio XII. Tra di essi c’erano, per dire, il comandante della 28ma GAP clandestina, il capo del SIM della medesima, la sorella di Zaccagnini, una resistente del Partito d’Azione, un prete, alcuni partigiani del gruppo Corbari. Non c’è che dire: le vie del Signore sono infinite…
Pubblicato venerdì 12 Luglio 2019
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