Nel 1975, in uno dei convegni celebrativi del trentesimo anniversario della Liberazione, Claudio Pavone ebbe a sostenere che “la Resistenza [era] stata pressoché unanime, nelle sue prese di posizione esplicite, nel rivendicare decentramento e autonomie locali”. A distanza di molti anni, questo giudizio mantiene intatta la sua validità e offre un buon punto di partenza per una riflessione sul tema del regionalismo nell’ordinamento repubblicano, in occasione della ricorrenza, quest’anno, delle leggi di attuazione dell’ordinamento regionale: la legge 17 febbraio 1968, n. 108 (Norme per l’elezione dei consigli regionali a statuto normale) e la legge 16 maggio 1970, n. 281 (Provvedimenti finanziari per l’attuazione delle regioni a statuto ordinario). C’erano voluti, dunque, ventidue anni per arrivare finalmente all’elezione dei Consigli regionali – malgrado l’VIII disposizione transitoria della Costituzione avesse assegnato il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della Costituzione stessa per procedere all’elezione dei Consigli regionali – con un insieme di norme destinate, peraltro, a subire non poche critiche per l’eccessiva prudenza e per la palese propensione a non intaccare in modo significativo le competenze dello Stato centrale, e a deludere pertanto le aspettative di quanti si attendevano dalla realizzazione dell’ordinamento regionale una svolta nel senso della democratizzazione del sistema politico e un incentivo alla partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica.
A prescindere dal loro contenuto, con l’emanazione delle leggi del 1970 si completava, almeno sul piano formale, il processo di attuazione normativa della Costituzione, bloccato dai governi centristi nel corso della prima legislatura repubblicana, attuato con una certa riluttanza dalle forze politiche di maggioranza, a partire dall’insediamento, nel 1956, della Corte costituzionale, e portato a termine dai governi di centro sinistra, con l’attuazione delle Regioni, e, sempre nello stesso anno, con la legge di attuazione delle disposizioni costituzionali in materia di referendum.
La lunga durata del processo di realizzazione dell’ordinamento regionale può dunque apparire una parziale smentita dell’affermazione di Claudio Pavone, e fare pensare che l’adesione agli ideali autonomistici da parte delle forze politiche antifasciste non fosse poi così ampio e convinto.
Per comprendere meglio questa questione, occorre considerare che, ancor prima della guerra di Liberazione, l’opzione autonomistica era stata fatta propria dalle diverse correnti antifasciste anche come reazione alle manifestazioni di statalismo e di centralismo che avevano caratterizzato il fascismo al governo, e che si erano tradotte nello smantellamento delle autonomie locali e della sostituzione, a partire dal 1926, degli organi elettivi comunali con il podestà nominato dal Governo, che accentrava in sé i poteri del sindaco, della giunta e del consiglio. Peraltro, regionalismo, autonomismo e federalismo erano stati temi molto presenti nel dibattito politico del primo dopoguerra, anche se articolati in forme e con finalità differenti: il Partito popolare era dichiaratamente regionalista, e attribuiva alle Regioni in primo luogo una funzione di garanzia dell’autonomia della società civile nei confronti dell’invadenza di uno Stato che, peraltro, la Santa Sede continuava a considerare un usurpatore delle proprie prerogative temporali; su un altro versante, le ideologie autonomistiche presenti in seno al movimento combattentistico, ispirate al pensiero di esponenti dell’interventismo democratico come Gaetano Salvemini e Oliviero Zuccarini, sottolineavano la necessità di smantellare l’elefantiaco apparato burocratico sorto con la guerra e di trasferire numerose funzioni di governo a enti regionali costituiti su una base di larga rappresentatività che avrebbe dovuto promuovere la democratizzazione del sistema politico e promuovere la partecipazione soprattutto degli ex combattenti: uno svolgimento importante di questa corrente di pensiero fu costituito dall’esperienza del Partito Sardo d’Azione che, soprattutto per impulso di Emilio Lussu, anch’egli esponente dell’interventismo democratico, volle essere soprattutto espressione delle aspirazioni democratiche e di giustizia sociale degli ex combattenti, per lo più pastori e contadini. Lussu, peraltro, portò la sua ispirazione federalista e più tardi socialista, in seno al movimento di Giustizia e Libertà, che fece del principio autonomistico uno dei cardini del suo programma, intendendo in tal modo esprimere una netta cesura nei confronti della precedente tradizione liberale che non aveva saputo e non aveva voluto contrastare l’involuzione accentratrice dello stato moderno: in tale processo, infatti, esponenti di primo piano di GL, come Gaetano Salvemini e soprattutto Silvio Trentin, avevano individuato una delle principali se non la principale matrice dei fascismi europei.
Meno attenti alla dimensione autonomistica si rivelarono i partiti di ispirazione socialista, anche se non bisogna dimenticare che nelle tesi approvate al III Congresso del PCd’I a Lione (tesi redatte in prima persona da Antonio Gramsci) si parlava di repubblica socialista federativa, quale espressione a livello istituzionale dell’alleanza tra il proletariato del Nord e i contadini del Mezzogiorno, e nel Psi non mancarono certo convinti sostenitori del federalismo, anche se con uno sguardo rivolto più alla dimensione internazionale che alla dimensione interna, come nel caso di Eugenio Colorni, che partecipò in prima persona alla stesura del Manifesto di Ventotene.
Con la Liberazione e l’avvio dei lavori dell’Assemblea Costituente il dibattito sull’assetto autonomistico del nuovo ordinamento democratico si fece più stringente e, addentrandosi nel merito delle questioni ad esso sottese, consentì di rendere più visibili gli schieramenti, fortemente condizionati anche dall’evoluzione del quadro politico interno.
Non è questa la sede per ricostruire nel dettaglio il dibattito sull’istituzione delle Regioni in seno all’Assemblea Costituente: basterà qui ricordarne i tratti essenziali, e soprattutto quanto essa fosse, fin dall’inizio, condizionata dai rapporti di forza fra gli schieramenti politici. Infatti, data la sconfitta elettorale del Partito d’Azione (gli eletti in quel partito, peraltro, costituirono un gruppo parlamentare denominato “Autonomista”), l’opzione più decisamente federalista risultò nettamente minoritaria, anche perché, in realtà, tale termine, nel dibattito corrente dell’epoca, aveva assunto un significato non coincidente con quello classico di una unione di stati che devolvono a un governo federale una parte delle loro prerogative di sovranità, per assumere quello, ben differente, di un regionalismo rafforzato, caratterizzato, in sostanza, dal conferimento agli enti regionali di una potestà legislativa esclusiva su alcune materie. Tale, peraltro, sembrava l’orientamento originario del partito cattolico, e il relatore in seno alla II Sottocommissione dell’Assemblea, Gaspare Ambrosini, un giurista democristiano che già in passato aveva studiato i sistemi costituzionali federali europei, era sembrato orientato in questo senso, incontrando però l’opposizione, oltre che delle destre liberali e qualunquiste, attestate a difesa dello stato unitario, anche e soprattutto dei due partiti di sinistra, Pci e Psiup. Entrambi i partiti ritenevano che le Regioni avrebbero dovuto avere funzioni solo amministrative, e paventavano la possibilità che l’attribuzione di una potestà legislativa esclusiva all’ente regionale potesse tradursi in una disarticolazione della funzione di indirizzo politico e, conseguentemente, che i governi locali, cadendo nelle mani di forze retrive, potessero avvalersi dei loro poteri per ostacolare o rallentare l’attuazione delle riforme di struttura, nell’industria, nel credito e nell’agricoltura, alle quali le forze politiche di sinistra attribuivano un ruolo centrale nel processo di democratizzazione e modernizzazione del Paese.
Si trattava, peraltro, di posizioni suscettibili di profondi mutamenti: già nel 1945, poco dopo la fine della guerra, un osservatore attento come Carlo Arturo Jemolo aveva segnalato un affievolimento degli entusiasmi autonomistici all’interno dello schieramento antifascista, ma due anni dopo, quando, nel giugno 1947, l’Assemblea Costituente esaminò il Titolo V della II parte della Costituzione, dedicato alle Regioni, le posizioni si erano ulteriormente precisate. Su molte revisioni e su molti ripensamenti, peraltro, aveva pesato non poco l’evoluzione del quadro politico. Occorre infatti considerare che la discussione finale in Assemblea sul titolo V iniziò dopo la formazione del IV Governo De Gasperi, un monocolore democristiano, e il conseguente passaggio all’opposizione di comunisti e socialisti. Come partito di maggioranza relativa e come forza di governo, la Dc, nell’assumere come elemento qualificante della propria politica la problematica della continuità dello Stato e nell’assumere la rappresentanza dei soggetti che se ne erano fatti sostenitori, affievolì fortemente l’originaria impostazione regionalistica, facendosi carico anche della contrarietà ad essa manifestato dai vertici della burocrazia e della magistratura, che già nel corso delle inchieste pubbliche precedenti la convocazione dell’Assemblea Costituente, avevano manifestato la loro propensione per un decentramento di tipo burocratico e amministrativo, correttivo ma non alternativo all’assetto centralistico ereditato dall’ordinamento liberale e poi da quello fascista. Spinti all’opposizione, i comunisti e i socialisti da un lato riconsiderarono la funzione di contrappeso che i governi regionali avrebbero potuto svolgere, ponendosi come limite al potere centrale, ma dall’altro trovarono nel ridimensionamento dell’opzione regionalista all’interno del partito cattolico il presupposto per una convergenza che fu poi realizzata nel corso della discussione in Commissione e in Assemblea: il risultato fu un assetto regionalistico contenuto, che, escludendo una potestà legislativa esclusiva, attribuiva alle Regioni a statuto ordinario una potestà legislativa limitata ad alcune materie, tassativamente elencate nel testo della Costituzione, e concorrente con quella dello Stato, in quanto esercitata nel limite dei principi dettati da leggi nazionali, le cosiddette norme quadro. Alle Regioni – dotate di un consiglio elettivo, di una giunta esecutiva e di un presidente e regolate da uno statuto approvato con legge del Parlamento – era altresì concessa una potestà normativa di attuazione delle leggi dello Stato che disponessero in tal senso, ed erano loro attribuite le funzioni amministrative per tutte le materie per le quali era prevista la potestà legislativa concorrente, nonché per quelle assegnate con delega statale.
I limiti posti all’esercizio della potestà legislativa regionale erano comunque tali da sventare la possibilità che la divaricazione tra indirizzo politico nazionale e indirizzo locale potesse andare oltre un certo limite; il raccordo tra le autonomie e lo stato era altresì assicurato mediante organi di controllo di legittimità degli atti, a livello statale per le regioni e a livello regionale per i comuni e le province, nonché dalla figura del Commissario di Governo, insediato in tutte le regioni e deputato a sopraintendere alle funzioni amministrative esercitate dallo Stato e al coordinamento con quelle delle regioni. Al Commissario spettava altresì vistare le leggi regionali. Questo modello, che Emilio Lussu ebbe ironicamente a definire appartenente alla famiglia del federalismo allo stesso modo in cui i gatti possono ritenersi appartenenti alla stessa famiglia dei leoni, deluse ovviamente la ridotta pattuglia parlamentare dei federalisti, che avevano sperato in un ordinamento della Repubblica fortemente segnato in senso autonomista. Né i loro auspici trovarono migliore realizzazione negli statuti delle cinque Regioni a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige), approvati dall’Assemblea Costituente dopo il varo della Costituzione. L’esigenza di dotare alcune Regioni di uno statuto speciale di autonomia aveva, per la verità, forti motivi di carattere storico e politico: per le regioni di confine, infatti, occorreva risarcire le componenti linguistiche non italiane di un ventennio di italianizzazione forzata, condotta dal fascismo in spregio alle aspirazioni di autonomia di quelle popolazioni, e tale da alimentare forme di separatismo e di irredentismo che si sperava di attenuare con la concessione di statuti di autonomia rispettosi dei diritti delle minoranze. Anche per le due isole maggiori, il governo centrale aveva dovuto impegnarsi nel senso della concessione di forme speciali di autonomia per prevenire le spinte centrifughe, particolarmente forti in Sicilia, dove un movimento separatista inizialmente non privo di una ispirazione antifascista si venne progressivamente trasformando in uno strumento nelle mani degli agrari e della mafia; in Sardegna, infine, occorreva dare finalmente uno sbocco istituzionale a una tradizione non separatista, ma fortemente autonomista, che, diversamente dalle altre aree del mezzogiorno, aveva avuto nel primo dopoguerra una espressione politica con la formazione del già ricordato Partito Sardo d’Azione, e che malgrado il fascismo e la guerra, mostrava di avere ancora radici ben salde nell’Isola.
Anche gli Statuti di autonomia, approvati con legge costituzionale e oggetto di una discussione parlamentare veloce e distratta da parte di una Assemblea Costituente ormai prossima allo scioglimento, non apportarono le novità sperate: a una potestà legislativa primaria su un numero limitato di materie, ulteriore rispetto alla legislazione concorrente e alle funzioni legislative delegate dal centro riconosciute alle regioni a statuto ordinario, si accompagnava un assetto istituzionale tale da configurare più che una dialettica interistituzionale tra soggetti portatori di una propria progettualità politica, un progetto di cogestione del potere tra governo locale e governo centrale, non particolarmente adatto a promuovere quell’avvicinamento dei cittadini alla gestione della cosa pubblica che i sostenitori del regionalismo indicavano come l’elemento qualificante della trasformazione in senso autonomistico dello Stato.
L’ordinamento regionale, con tutti i suoi limiti e con le perplessità che ne accompagnarono il varo, era così delineato e la citata VIII disposizione transitoria della Costituzione assegnava il temine di un anno per la convocazione dei consigli regionali, e, di conseguenza, per la preliminare adozione da parte delle Camere della relativa legge elettorale.
Ne sarebbero trascorsi ventidue, tra rinvii, accantonamenti e ostruzionismi di maggioranza. Tra il 1948 e il 1970, si si verificò uno dei casi più eclatanti di “congelamento” di una disposizione costituzionale, e si dovette attendere la crisi del centrismo e la formazione dei primi governi di centro-sinistra prima che essa, peraltro con molta prudenza e con molte riserve, si avviasse verso la sua prima attuazione.
Pubblicato venerdì 6 Marzo 2020
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