Si è aperta una nuova fase, quella del neofascismo in grigio. Non è un gioco di parole. È il riconoscimento che l’arcipelago di gruppi, partiti, movimenti che si rifanno a vario titolo alla destra radicale, in Italia come nel Continente europeo e, in immediato riflesso, anche in altre parti del mondo, soprattutto a partire dagli Stati Uniti, ha mutato più aspetti della sua fisionomia. Non propriamente dei contenuti della propria proposta politica, che rimangono essenzialmente i medesimi, rivendicando come soluzione alla crisi delle democrazie sociali e liberali il ritorno di sistemi autocratici e antipluralisti. Senz’altro invece, del modo in cui tali formazioni politiche si pongono rispetto alle società in cui si trovano ad operare. Non è un camuffamento, trattandosi semmai di qualcosa di molto più complesso. Sanno infatti adattarsi alle circostanze. Non solo per opportunismo bensì per calcolato mimetismo.
Come lo fu, a suo tempo, lo stesso Mussolini nel suo operare dentro la crisi che la Grande guerra aveva scatenato in Europa. Senz’altro criminale ma abilissimo nell’intercettare lo smarrimento del tempo. Poiché il fascismo sa essere anche questo: non un’ideologia organica bensì la capacità di cogliere il disagio diffuso, dandogli un nome, fingendo facili soluzioni e creando poi consensi intorno a se stesso.
Non è una qualità strettamente politica bensì una competenza sociale: quand’anche la ottenga ricorrendo alla manipolazione, rimane il fatto che ciò avviene con il convinto assenso di un buon numero di persone. Che non cedono in ragione della violenza ma compiacendosi di come essa possa costituire la facile “soluzione” di problemi altrimenti difficili.
Non basta quindi denunciarne l’artificio. Poiché una delle lezioni della storia più recente (ed anche della cronaca corrente) è che dinanzi allo smarrimento dettato dal cambiamento, la ricerca di un rifugio, fosse anche solo illusorio, prevale su qualsiasi altro ordine di considerazioni. In questo, la storia, per così dire, si ripete per davvero. E si replica laddove ai poteri democratici si contrappongono, sostituendosi ad essi, quelle oligarchie che utilizzano le istituzioni per promuovere i loro interessi, fingendo che essi corrispondano anche alle esigenze della collettività. In genere, un tale processo degenerativo si basa sul plebiscitarismo, che consiste essenzialmente nell’offerta di una falsa democrazia diretta, senza intermediazioni, dove gli individui vengono completamente privati della capacità di fare valere le proprie ragioni. Convincendoli tuttavia che le cose stiano andando ben diversamente.
La vittoria di Donald Trump nel 2015, e il suo ripresentarsi per un secondo mandato, non segna la fascistizzazione degli Stati Uniti bensì il declino della credibilità dei democratici (identificati con un establishment estraneo ai bisogni delle collettività locali) insieme al logoramento delle istituzioni federali e alla crisi della base sociale dei due grandi partiti. Trump ha senza ombra di dubbio dei tratti fascistoidi ma il fascismo come tale, storicamente, non si riduce alla personalità del leader politico che lo rappresenta. Soprattutto, l’attuale presidente uscente non è un politico a tutto tondo; semmai, percependo la crisi degli apparati di potere americani, è interessato ad occupare il campo della politica per meglio adoperarsi nel senso del business.
Trump ha quindi volto a sua favore la crisi del Grand Old Party dopo la fine dell’età di Bush. Il riferimento alla sua figura, nell’ordine del discorso che andiamo facendo, serve per rafforzare il concetto per cui ciò con cui ci si deve confrontare non è la riproposizione del passato ma l’adattamento di diffuse posizioni illiberali e antidemocratiche allo scenario contemporaneo.
Basti ancora aggiungere che il fascismo classico non è neoliberale bensì statalista, non è isolazionista ma interventista ed imperialista, non è individualista bensì nazionalista ed etnicista. Il tratto d’unione tra queste diverse posizioni, ad oggi, è il ritorno del suprematismo, ossia il convincimento che ci sia un gruppo etno-nazionale destinato a dominare il resto della società. Trump raccoglie quindi il risentimento dei bianchi e il loro desiderio di rivincita dinanzi al concepirsi, in maniera crescente, come minoranza svantaggiata. Così facendo incarna un modello di pensiero che è in sintonia con i tempi correnti. Basti ancora aggiungere che l’attuale presidente non cerca di identificarsi con la massa, semmai chiedendo alla collettività di identificarsi in lui, secondo un modello tipicamente televisivo.
La specificità americana è solo una delle diverse cartine di tornasole su cui lavorare. Ci torneremo sopra da subito, non prima, però, di avere preso di petto un’altra questione fondamentale, ossia il fatto che la sfida dettata dal nuovo fascismo, quello che si sta rigenerando anche a rischio di mettere in discussione buona parte dei suoi vecchi capisaldi, va comunque raccolta. Ovvero, non si può continuare a cercare di fare fronte al mutamento in atto, e alle sue mistificazioni e manipolazioni da parte di un nutrito drappello di forze illiberali, continuando ad usare gli strumenti, come anche i pensieri, del passato. Altrimenti, la sconfitta è dietro l’angolo. Non ritornano le camicie nere, si chiudono progressivamente gli spazi della democrazia partecipativa. Se queste sono le premesse, l’antifascismo deve quindi riformulare gli indirizzi del suo operato politico.
Sul come, va aperto un franco e ragionevole confronto. Che non potrà risolversi in alcune formule di facciata, in una serie di richiami di circostanza, in mere esortazioni di aderenza ai principi della libertà. Poiché oggi quest’ultima è messa in discussione soprattutto dalla crisi della giustizia sociale. Libertà (quella individuale come quella collettiva) e giustizia (redistributiva, quella per cui la funzione dei moderni sistemi costituzionalisti è strettamente legata alla capacità di garantire coesione collettiva, attraverso la divisione equa della ricchezza prodotta dalla comunità sociale) sono le due gambe di uno stesso corpo. Che non può reggersi in piedi in assenza di una di esse.
Siamo peraltro solo all’inizio di una lunga trasformazione. Se si è depositari di una memoria, quella della Liberazione, che si è trasfusa poi nel costituzionalismo repubblicano e democratico, bisogna quindi avere la determinazione e la forza di capire che l’orizzonte va mutando. L’orizzonte non solo politico, beninteso.
Un militante democratico e antifascista non è tale, fino in fondo, se non coglie nelle trasformazioni, oltre i vincoli che ad esse si accompagnano, anche, e soprattutto, le opportunità. Fare politica non è mai conservare qualcosa di fine a sé ma inserirsi nel flusso dei cambiamenti e cercare di rendere concreti quei valori che sono identificati con la libertà e la giustizia sociale. Di volta in volta. Al riguardo, non esistono scorciatoie. La politica è sempre una sfida, che sembra mettere in discussione ciò che, altrimenti, consideriamo come assodato o, comunque, ovvio.
Detto questo, di cosa stiamo concretamente parlando? Entriamo nel merito, identificando il fuoco del problema. Non stiamo inseguendo i “fascisti” di sempre ma qualcosa d’altro, semmai ben più problematico. Che è quel fascismo di ritorno, tale poiché non se ne è mai andato via, adattandosi alle circostanze del tempo. Non esiste un “fascismo eterno” bensì un modo di pensare fascista che si perpetua nel tempo: avversione per la democrazia, rifiuto della mediazione, obbrobrio per il pluralismo, ossessione per il conformismo e l’omologazione. Tutte posizioni che si rivelano allergiche rispetto al pluralismo: di identità, di genere, di condotte, di pensieri. Si tratta di un fenomeno che ha un andamento carsico. Quando i fatti collettivi vanno bene, è solo la spia di un piccolo malessere. Quando invece vanno male – ed è l’indice dei tempi che stiamo vivendo – allora diventa la punta di un iceberg che ci rivela la precarietà dentro la quale la quale stiamo vivendo. Il fuoco del problema è infatti questo: le trasformazioni che ci stanno conducendo da una società a capitalismo industriale verso una società a capitalismo digitale non solo riproducono ed enfatizzano preesistenti diseguaglianze ma rischiano di farsi moltiplicatrici di ulteriori emarginazioni. Non a caso, a trovarsi nel vortice della crisi, che la pandemia sta accentuando, è quel ceto medio che, con tutti i limiti e i vizi della sua storia, è l’ossatura consensuale dei regimi democratici. Non per virtù, beninteso; semmai per necessità.
Nel momento in cui i processi deliberativi delle nostre società perdono di aderenza e incisività rispetto alla realtà dei molti bisogni di un numero crescente di cittadini, il rischio che avvenga uno scollamento tra questi ultimi e il sistema delle regole è dietro l’angolo. Laddove, non a caso, ritorna qualcosa che mai se ne è del tutto andato dal nostro orizzonte. Obbligato per decenni ai margini del dibattito politico per il suo apparente anacronismo, il neofascismo, nelle sue diverse declinazioni storiche, ha invece riassunto con prepotenza le vesti di uno scomodo convitato dell’età che stiamo vivendo. Si può parlare dell’attualità del fascismo in quanto sistema di rapporti e relazioni sociali per i tempi presenti e a venire. La sua asticella non è rivolta al passato bensì al futuro.
Se le società europee si trasformano dinanzi all’incalzare dei processi di omologazione della globalizzazione, così come di secca riconfigurazione della stratificazione sociale, il neofascismo del presente si propone come il soggetto che intende difendere la “differenza”: nazionale, etnica, in prospettiva razziale. In una tale dinamica, si configura una vera e propria metamorfosi della “questione neofascista”, che da fenomeno circoscritto, ascrivibile a nicchie relativamente identificabili e confinabili, con lo sgretolamento progressivo degli equilibri postbellici, e dei loro sistemi sia di rappresentanza politica che sociale, sta riassumendo vigore e sostanza. Sono la stanchezza delle democrazie sociali, la crisi del liberalismo, risoltosi nell’offensiva liberista, la crescente fragilità delle Costituzioni sociali a offrirgli oggi spazi di azione, di reazione – ma soprattutto di rappresentanza – altrimenti insperati. Non è allora un fenomeno di soli ceti medi alla ricerca di un nome da dare al proprio disagio bensì il segno tangibile degli effetti della disintermediazione: la crisi delle istituzioni pubbliche, dei partiti, dei sindacati, degli organismi che raccolgono le domande della società, trasformandole in richiesta (e riconoscimento) di diritti, è infatti la cornice di un tale processo. Ma al suo centro c’è soprattutto il mutamento del lavoro, della sua funzione collettiva, del suo riconoscimento comune in quanto elemento della cittadinanza sociale. Se il lavoro declina, la coesione tra individui va in crisi.
Anche per questa ragione, quindi, la destra radicale da tempo sta cercando un suo insediamento collettivo che, evidentemente, non corrisponde solo con il prevedibile seguito militante raccolto dalle sigle che si ispirano al «fascismo del terzo millennio», semmai orientandosi verso orizzonti ben più ampi. Al riguardo, si è parlato di «estrema destra post-industriale» (Piero Ignazi) così come di «post-fascismo» (Enzo Traverso). Rispetto alla residualità del neofascismo, afferma lo stesso Traverso, quest’ultimo raccoglie la matrice del fascismo classico «ma se ne è emancipato. Molti di questi movimenti non rivendicano più una tale provenienza, distinguendosi così chiaramente dai neofascismi. E comunque non presentano più una visibile continuità, sul piano ideologico, con il fascismo classico. Se cerchiamo di definirli, non possiamo ignorare questa matrice fascista, senza la quale non esisterebbero, ma dobbiamo anche considerare la loro evoluzione, perché oggi si sono trasformati e si muovono in una direzione di cui ancora non si conosce l’esito. […] Ciò che caratterizza il post-fascismo è un particolare regime di storicità – l’inizio del XXI secolo – che spiega il suo contenuto ideologico fluttuante, instabile, spesso contraddittorio, nel quale si mescolano filosofie politiche antinomiche».
È bene quindi confrontarsi con la trasformazione e rilegittimazione di temi e motivi che trovano senz’altro i loro fondamenti nell’eredità storica dei fascismi continentali ma si proiettano oltre di essa. Ciò avviene soprattutto attraverso quelle forze politiche e sociali che non si riconoscono nell’identità nera ma che con essa hanno stabilito già da tempo un habitat condiviso, composto di scambi profittevoli per quanti ne sono coinvolti. Si tratta perlopiù di partiti di governo, per intendersi. Non di meno, la “questione neofascista”, oggi, sempre più spesso si confronta con la progressiva decadenza dell’idea di umanità condivisa, si alimenta del declino dei rapporti di reciprocità, di solidarietà e di identificazione empatica, del terrore dell’essere espropriati – non solo di qualcosa da qualcuno ma anche e soprattutto di un’identità tanto fragile quanto difesa ad oltranza, tanto più laddove essa rischia di rivelarsi solo un sembiante. In tale senso, il neofascismo in grigio non rivela un “di più” di politica ma, semmai, un di meno. Lo spazio di un “nuovo fascismo” riposa quindi esattamente in questo: la progressiva trasmigrazione dalla politica sociale di integrazione (a partire dai sistemi redistributivi pubblici) ad una sembiante di “sicurezza” e protezione, che è offerto dall’immaginario di una politica penale totalizzante, che punisce per fingere di potere rassicurare. Parlare ossessivamente di minacce e di migranti vuole dire dare corpo e sostanza a questa angoscia.
Una parte delle forze politiche europee, e segnatamente italiane, non a caso coglie in tale stato di cose un elemento di opportunità. Si tratta di un’altra Europa, populista, demagogica, oligarchica che, dal possibile tramonto dell’Unione Europea, ritiene di potere trarre un vantaggio competitivo. Oggi, la variabile che è prepotentemente intervenuta è anche quella dettata dalla pandemia di Sars-Cov2, i cui effetti sociali, economici e civili sono destinati a durare a lungo. Riflettendosi sugli equilibri, non solo politici, del nostro Paese, dell’Europa, dell’oltre Atlantico.
Nel nostro Continente, la crisi dell’Unione Europea si presenta, quindi, come il più significativo spazio di declino delle democrazie. Le difficoltà nelle quali si è dibattuta fino ai tempi recentissimi, sono divenute tra le più importanti fonti di legittimazione di tutti i movimenti nazionalisti, xenofobi e populisti. Fino ad aprire le porte al loro ingresso nel governo di alcuni paesi dell’Europa orientale. Un fatto divenuto ora più che mai stabile, con un largo consenso elettorale.
Lungi dal presentarsi come un argine alla crescita delle destre estreme, la fredda tecnocrazia europeista ha peraltro concorso a legittimarne e ad alimentarne l’accreditamento dinanzi ad una popolazione spesso smarrita. Il rischio che si profila all’orizzonte, anche a causa dell’aggravante pandemica, è che in una situazione di sfiancamento delle istituzioni e degli ordinamenti costituzionali, dinanzi alle crescenti difficoltà economiche e alle loro pesanti ricadute civili, si potrebbe consolidare un blocco di potere sospeso tra autocrazia, oligarchia e consenso coatto. Sarebbe allora il momento del passaggio dal plebeismo, come fattore di fidelizzazione elettorale, all’interlocuzione con il sistema di poteri economici nel nome del governo diretto dei territori. Con lo svuotamento di ciò che resta delle istituzioni rappresentative.
Da anni, d’altro canto, è in corso uno spostamento dell’asse politico continentale verso la destra radicale. Si tratta della lotta per il dominio sul senso comune, nella quale le destre populiste, xenofobe e antidemocratiche hanno investito una grande quantità di risorse. In questo quadro, tanto più dinanzi al problema irrisolto dei processi immigratori, fino ad oggi abbandonati a sé, precipita il peso e la rilevanza delle politiche della «sicurezza»: se l’autorità diventa una questione di autoritarismo, allora il ruolo delle destre radicali sarà destinato a consolidarsi. Poiché risulta essere maggiormente credibile rispetto al resto dello schieramento politico.
Per comprendere quindi in quale spazio ci si trovi ad operare, bisogna capire quali siano i nessi intercorrenti tra tre dinamiche di fondo. La prima corrisponde all’affermarsi dell’impolitica, ossia di un diffuso convincimento, rafforzato dai conformismi di massa, che la delega decisionale debba essere totale nei confronti di un ristretto numero di decisori, capaci di affermarsi da sé e il cui operato diventa non sindacabile attraverso gli strumenti abituali della selezione democratica. Il secondo, è la cristallizzazione e la scomparsa dello spazio pubblico, il luogo per eccellenza della critica del potere attraverso la ragione e la mobilitazione, assorbito invece dalla mediatizzazione, dalla digitalizzazione, dalla stessa smaterializzazione delle relazioni sociali: in questo caso, realtà e finzione diventano intercambiabili, come il caso americano ci sta dimostrando. Vince non chi dia migliore risposte a problemi concreti bensì chi si rivela in grado di manipolarne il significato. Donald Trump sta appieno dentro una tale configurazione, che non implica l’azzeramento dell’azione politica ma la subordinazione degli interessi generali a quelli particolari di piccoli gruppi di potere, estremamente determinati nel promuovere i propri obiettivi. Il terzo fattore sono gli stati di eccezione permanente, con la riduzione costante delle prerogative degli organismi rappresentativi a favore di quelli esecutivi. Il fenomeno pandemico sta giocando in tale senso, favorendo la contrazione degli spazi di condivisione, di mediazione, di negoziazione.
L’antipolitica subentra quindi ad un tale stato di cose. Il populismo antipolitico non ha valori forti ma pretende di coprire lo spazio di rappresentanza che si è generato con la crisi delle classi dirigenti liberaldemocratiche. Se la politica dismette la dimensione valoriale, riducendosi ad un discorso sull’individuo in assenza della sua funzione sociale, allora è semplice atto di gestione. Quel che resta della politica si trasforma in «governance», ossia in pura anatomia del governo immediato di interessi corporati. Laddove vince sempre e solo chi è più forte, senza alcun filtro delle regole di diritto comune. Non è un caso se oligarchi, tycoon e populisti presentino alla collettività le norme costituzionali come una sorta di impaccio, di impedimento rispetto alla libera espressione degli “istinti” più sinceri, quelli della società ricondotta allo stato di plebe.
È questo allora il terreno del fascismo di ritorno, cercando di coprire i vuoti generati dalle defezioni altrui. Pensa in termini essenzialmente “reazionari”, rifacendosi alla difesa della sovranità intesa come potere d’imperio su un territorio definito (ed isolabile), rimandando ad una democrazia plebiscitaria che annulla ogni deliberazione collettiva in una relazione fusionale tra il popolo e il leader, vellicando come “valori” condivisibili la xenofobia, il nazionalismo, il rifiuto della globalizzazione (definita «mondialismo», la parola che ha sostituito il «cosmopolitismo»), il protezionismo, l’eurofobia. Le destre estreme sono particolarmente attive poiché fanno azione politica nel mondo attuale, dove la sfera pubblica si è trasformata. Non hanno più bisogno di corazze ideologiche ma di temi ricorrenti, di parole d’ordine per ottenere una legittimazione popolare. In tutta Europa i partiti governativi, tanto di destra come di sinistra, non reclutano più intellettuali ma esperti di comunicazione.
Il radicalismo di destra, che quindi non è più la stanca riedizione dei regimi degli anni Trenta: avendo sviluppato semmai una sua autonomia politica da quelle esperienze storiche, si presenta oggi come una complessa e stratificata galassia. Si tratta di un’area rumorosa che, in più circostanze, si intreccia, mantenendo irrisolti rapporti di contiguità e scambio, con le destre di governo. Fino ad entrare a farne parte. Trova oggi nell’Ungheria come nella Polonia, e più in generale nell’area dei paesi del gruppo di Visegrád, il vero laboratorio di una trasformazione che rinverdisce il passato e attenua ogni speranza per un pluralismo a venire. L’intreccio tra gli autoritarismi di una parte dell’Est europeo e le «democrature» dei vari Putin ed Erdogan, come anche dei regimi – più o meno solidi o decadenti – di un Assad in Siria (al quale molta parte del neofascismo italiano guarda con simpatia), piuttosto che dello sciismo iraniano, al di là dei giochi geopolitici e delle stesse mutevoli alleanze, fanno da cornice alle singole evoluzioni nazionali. Ne sono una sorta di ventre molle, nel quale svilupparsi.
Se per un certo lasso di tempo il vincolo antifascista aveva impedito tali invasioni di campo oggi, invece, sono sempre più spesso bene accette. È questo, senz’altro, il punto dolente: si ha a che fare con un neofascismo da salotto buono, la cui funzione è di rendere non solo culturalmente leciti ma anche socialmente plausibili esercizi di autoritarismo della cui traduzione in atti concreti si incaricano poi forze politiche altrimenti considerate come «moderate». È un gioco di reciprocità, che sta producendo i suoi effetti.
La destra radicale vive peraltro la crisi di rappresentanza delle sinistre, riformiste e non, come un’occasione senza pari. Può carpirne una parte del suo elettorato, smarrito dai cambiamenti e in crisi di ruolo. Fondamentale è, per il suo programma, rielaborare i legami sociali da un punto di vista etnico. Il suo punto di forza è che parla ad un’intera collettività, denunciandone i problemi comuni (invece volutamente omessi dal discorso di matrice neoliberale), ma offrendo ad essi una soluzione dichiaratamente regressiva. Alla società sostituisce il concetto di «comunità», quest’ultima costituita da soggetti affratellati da vincoli di «sangue» e di reciprocità etnica; ai percorsi di spaesamento e di smarrimento della soggettività contrappone l’idea di una «identità» forte, basata sul binomio tra «sangue e suolo»; contro il senso di espropriazione materiale e di subalternità economica statuisce l’idea che la difesa degli interessi sia prerogativa di un tradizionalismo che trova nella cristallizzazione feudale delle appartenenze la sua falsa realizzazione; alla farraginosità dei sistemi rappresentativi risponde con il ricorso all’autorità carismatica e l’insofferenza verso i diritti.
Quattro sono quindi i fattori di maggiore tensione, allo stato attuale delle cose: il transito dal capitalismo industriale a quello digitale, il declino della democrazia partecipativa, la crisi dei sistemi di Welfare e gli effetti continentali delle immigrazioni. Tutti e quattro segnalano la grande movimentazione che ha coinvolto le società a sviluppo avanzato, inserendosi a pieno titolo dentro le logiche di mutamento che ne accompagnano l’evoluzione di lungo periodo.
Dall’insicurezza che da essi deriva, così come dal mutamento di statuto sociale del lavoro, oramai in via di retrocessione a figura ancillare nella creazione delle identità collettive, il radicalismo politico sta traendo un significativo giovamento. Ha saputo infatti rilanciare la carta della socialità, abbandonata oramai da una parte della stessa sinistra (ripiegata sul mero riconoscimento dei diritti civili), declinandola però sul versante delle appartenenze etno-razziali.
E alla crisi del capitalismo industriale risponde indicando la necessità di una guerra senza quartiere a quello finanziario, al quale dà il volto del «mondialismo» giudaico (o «sionista»). Non è una destra che non si confronti con la modernità, semmai incorporandone numerosi aspetti, a partire dalla dimensione tecnologica. La presenza sul web, così come il ricorso alla musica come fattore di aggregazione e di proselitismo, sono due indici significativi della capacità pervasiva dei suoi messaggi. Ma se in questo caso propende ad occupare e colonizzare culturalmente la parte più giovane di società in via di veloce invecchiamento, il recupero in chiave fobica di due temi quali l’omosessualità (intesa come manifestazione di perversione della «natura umana») e l’immigrazione (segno di contaminazione) diventano i cavalli di Troia del binomio «legge ed ordine», da rivolgere indistintamente a tutti.
Il neofascismo si presenta quindi, nella sua essenzialità, come un discorso sulla necessità di rimoralizzare una società che avrebbe perso i suoi autentici «valori»: in campo pubblico, dove tutto sarebbe divenuto malaffare, latrocinio, pandemonio, confusione e distruzione; in campo privato, dove sarebbero prevalse le spinte “contro-natura”, indirizzate a disgregare, attraverso le politiche dei diritti civili e il «politicamente corretto», la “naturale gerarchia” tra aristocrazie morali e subalterni. Ciò che il radicalismo fascistizzante prefigura non è quindi la restaurazione di qualcosa che è già stato ma la distruzione di ciò che già c’è e che, come tale, avrebbe fallito: la democrazia. Di fatto, professando queste posizioni, ambisce a portare a compimento lo smantellamento brutale dello Stato dei diritti per sostituirlo con la condizione dell’eccezione permanente, quella che deriva dal doversi opporre ad un nemico, chiunque esso sia, rimanendo in uno stato di mobilitazione spasmodica. Una società che si senta perennemente sotto pressione, risulterà comunque meno disponibile a tutelare le proprie libertà, semmai negoziandole e poi cedendole a favore di quanti dovessero presentarsi come coloro che la sanno tutelare, ossia proteggere, dalla minaccia pervasiva e incombente del rischio di un’ecatombe collettiva. In tale modo, il radicalismo di destra, si candida a rappresentare e a governare parti delle nostre società abbandonate a sé. Ancora una volta in un gioco di specularità con una qualche parte più rispettabile della comunità politica, di cui spesso si rivela essere un imbarazzante ma necessario alter ego, svolgendone il «dirty job» di dire e poi rendere plausibile, mettendolo in circolazione, ciò che altrimenti sarebbe interdetto dall’arena pubblica. Consapevole che la variabile del tempo potrebbe risultare a suo favore. Non torna il fascismo storico ma senz’altro declinano la democrazia sociale e il pluralismo. È questo il vero problema.
Claudio Vercelli, Università cattolica del Sacro Cuore, Istituto di studi storici Salvemini
Pubblicato martedì 29 Settembre 2020
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