Come tutte le crisi che si abbattono sul normale corso della vita quotidiana, modificando repentinamente abitudini e comportamenti consolidati di vita, di lavoro e di socialità, anche l’emergenza derivante dalla diffusione del contagio da Covid-19 ha avuto un effetto di accelerazione di processi latenti nella società civile e nelle istituzioni, portando a maturazione nuovi contesti e nuovi scenari con una rapidità impensabile in altri momenti storici.
L’accelerazione naturalmente non comporta solo una maggiore velocità di processi in corso, ma ne modifica anche l’esito, poiché, sotto la sferza dell’urgenza, è inevitabile che i diversi interventi privilegino i risultati immediati piuttosto che la soddisfazione di esigenze strutturali, dalle quali peraltro scaturiscono le istanze di cambiamento nel lungo periodo.
È esemplare, in tal senso, l’esperienza dello smart working, pensato, in origine, come una nuova tipologia della prestazione lavorativa, basata sull’alternanza di lavoro in ufficio e in casa, e finalizzato a venire incontro sia a esigenze delle lavoratrici e dei lavoratori (flessibilità di orario, possibilità di accudire figli minori o familiari non autosufficienti), sia a obiettivi di impresa (maggiore efficienza operativa, possibili incrementi di produttività, riduzione di alcuni costi di gestione, razionalizzazione di alcune procedure) sia, infine, a finalità di carattere sociale (minore mobilità, riduzione del traffico urbano e dell’inquinamento, riequilibrio degli oneri familiari tra i generi).
Su tutto questo, la pandemia ha avuto effetti differenziati e diversi dalle aspettative, dato che il modo frettoloso (e in una certa misura improvvisato) con cui si è fatto ricorso alle procedure di lavoro a distanza, ha privilegiato l’esigenza, più che giustificata, di ridurre i contatti tra le persone e consentire la continuità di talune attività produttive nel periodo del lockdown, anche a salvaguardia dei livelli di occupazione. Al tempo stesso, però, la mancanza di una regolazione condivisa da tutti i soggetti coinvolti, ha comportato anche nuove forme di sfruttamento, incrementi di orario e la creazione di oneri impropri a carico dei lavoratori e a vantaggio delle imprese e delle amministrazioni.
Analogo è il caso della formazione a distanza, che ha consentito di assicurare la continuità dell’attività didattica, a scapito però della domanda di socializzazione, particolarmente forte nelle giovani generazioni nonché componente essenziale del rapporto formativo, e, soprattutto, ha messo in evidenza e ha perfino aggravato il digital divide, come fattore di nuove e più gravi diseguaglianze, sociali e territoriali.
In linea generale, si può affermare che qualunque accelerazione di processi sociali già in corso, prodotta da eventi di particolare gravità e di impatto generale, li modifica e ne acuisce le contraddizioni e gli squilibri potenziali, anche perché, sotto la pressione dell’emergenza, vengono meno o comunque si depotenziano elementi tipici dei percorsi decisionali di una società democratica, caratterizzati dalla negoziazione tra i soggetti coinvolti, dalla ponderazione degli interessi e dalla ricerca di una mediazione che non va confusa con la ricerca di scadenti compromessi, ma che costituisce invece il presupposto di misure condivise e pertanto efficaci. E, d’altra parte, l’accresciuta insofferenza verso la conflittualità tra le forze politiche, percepita, soprattutto nell’attuale contingenza, come manifestazioni di indifferenza nei confronti dei problemi reali del Paese, può fare riaffiorare nell’opinione pubblica una propensione al decisionismo e all’accentramento del potere, ricorrente nel dibattito politico degli ultimi anni.
Probabilmente su questo puntano i leader del centro-destra, che in questi mesi hanno oscillato tra le ricette sovraniste di netto sapore autoritario e la ricerca di intese con l’attuale maggioranza, accompagnata dai richiami alle prerogative dell’opposizione e alternata alla protesta di piazza contro le presunte violazioni delle libertà individuali poste in essere con l’adozione delle misure restrittive imposte dalla situazione sanitaria.
Sono gli stessi leader che, poco più di un anno fa, avevano invocato i “pieni poteri”, evocando non solo a parole l’esigenza di una svolta autoritaria per garantire l’ordine pubblico, promuovendo i famigerati decreti sicurezza e reclamando la prigione per chi salvava le vite in mare.
Sono gli stessi leader amici di Trump e di Steve Bannon, ideologo sovranista inquisito per truffa, che, utilizzando strumentalmente il legittimo desiderio di tutti di potere tornare presto a coltivare liberamente affetti, interessi, vita familiare e vita professionale, civettano oggi irresponsabilmente con una idea di libertà come affermazione ultra individualistica dei propri bisogni personali, spogliata di qualsiasi idea di solidarietà, di altruismo, di responsabilità e di rispetto e tutela del diritto alla salute; un’idea mistificata e mistificatoria di libertà, che viene agitata soprattutto dai gruppi neofascisti per intercettare (finora, va detto, senza molto successo) il disagio e la protesta sociale, e che può diventare il presupposto di una rinnovata alleanza tra destra “di governo” e organizzazioni neofasciste attorno a una narrazione populistica e demagogica degli eventi di questo anno; una narrazione che non si perita di riprendere e diffondere, anche dalle aule del parlamento, le fake news complottiste messe in giro sulla rete da quanti, non solo in Italia, contano ancora di potere lucrare cospicui dividendi elettorali sulle paure collettive, sullo scoraggiamento e sul disorientamento che ha accompagnato la “seconda ondata” della pandemia, e sul logoramento del clima di solidarietà e di condivisione che pure si era ampiamente manifestato nel periodo della reclusione della primavera passata.
Ma se l’opposizione di centro-destra si limita a una caricaturale predicazione pseudo libertaria e complottista, ciò non significa che non ci si debba interrogare sul modo in cui le istituzioni hanno operato in questi mesi, sulle modificazioni, anche molecolari o comunque tendenziali, nei rapporti tra gli organi di vertice dello Stato, tra istituzioni e cittadini, tra centro e periferia, nonché sulle modalità con cui si è pervenuti, in questi mesi, alla definizione delle principali misure di contenimento della pandemia e dei suoi effetti economici e sociali oltre che sanitari.
Di certo, il progressivo spostamento nell’equilibrio dei poteri a favore dell’Esecutivo con la conseguente marginalizzazione del potere legislativo ha subito una indubbia accelerazione a partire dalla dichiarazione dello stato di emergenza da parte del Consiglio dei ministri (31 gennaio 2020), secondo il procedimento contemplato dalla legislazione in materia di protezione civile e, per l’esattezza, dagli articoli 7, comma 1 (che definisce gli eventi emergenziali oggetto del provvedimento) e 24, comma 1 (procedure e termini della deliberazione dello stato di emergenza nazionale) del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1 (Codice della protezione civile).
Lo stato di emergenza costituisce una situazione eccezionale, ma anche transitoria, disciplinata dalla legge e destinata a cessare nel termine indicato dalla legge stessa (dodici mesi rinnovabili per altri dodici mesi); alcuni comportamenti emblematici della progressiva esautorazione delle Camere nel percorso di formazione della decisione politica a vantaggio del Governo hanno però avuto inizio molto prima dell’esplosione della pandemia. Quest’ultima non ha prodotto altro effetto (peraltro non trascurabile) se non accelerare e accentuare quanto è già in atto da tempo. Gli esempi sono numerosi: il ricorso costante alla decretazione d’urgenza, alla quale si aggiungono e si sovrappongono i decreti del Presidente del Consiglio; la discussione parlamentare ridotta spesso a una serie di espedienti regolamentari dell’opposizione o della maggioranza per bloccare o accelerare una qualsiasi deliberazione, il ricorso al voto di fiducia su emendamenti sostitutivi di un intero testo di legge (la legge di bilancio 2021 si compone di un unico articolo di 1.150 commi) presentati al termine della discussione in Assemblea, così da trasformarla in un inutile esercizio retorico, e aggirare di fatto il principio costituzionale del previo esame in Commissione e della votazione articolo per articolo.
In questo contesto, sia detto per inciso, il referendum sulla riforma costituzionale recante la riduzione del numero dei parlamentari, per il modo in cui è stato gestito dai sostenitori del “si” e per l’impostazione ideologica che lo ha caratterizzato, ha contribuito in misura non trascurabile a screditare il Parlamento agli occhi dell’elettorato, proprio nel momento in cui la gravità della situazione e l’esigenza di rafforzare la solidarietà sociale e il legame di fiducia tra i cittadini e le istituzioni avrebbe reso estremamente utile una riflessione sulla centralità della rappresentanza politica e sulla necessità di rivitalizzare tutti i canali della partecipazione democratica, così da invertire processi degenerativi della vita pubblica in essere non certo dall’anno appena trascorso, ma la cui gravità è stata evidenziata nel contesto dell’emergenza sanitaria.
È una questione su cui occorre riflettere: perché un riequilibrio del rapporto tra Governo e Parlamento, nel senso di una valorizzazione del ruolo della rappresentanza (che non comporta peraltro di per sé lo svilimento dell’Esecutivo, ma una modalità di esercizio della funzione di indirizzo politico più consona al dettato costituzionale) non può avvenire nel vuoto, né essere affidata esclusivamente alle alchimie della legislazione elettorale (troppe volte modificata secondo le esigenze momentanee di maggioranze più o meno omogenee) ma deve fondarsi su un rinnovato patto tra cittadini e istituzioni ispirato ai principi della Costituzione repubblicana – e tra essi, di certo, al principio della sovranità popolare e della centralità degli organismi che ne rappresentano la più diretta espressione –m che assicura ancora oggi il perimetro normativo e valoriale entro il quale è possibile progettare una ripresa che non può essere puramente economica e tanto meno un mero ritorno allo status quo ante.
La pandemia ha evidenziato anche un altro nodo, relativo al rapporto tra centro e periferia, tra Stato, Regioni e autonomia locali: in alcuni momenti è sembrato, infatti, che, nel confronto sulle misure per il contenimento della diffusione del contagio, i presidenti delle Regioni – forti anche di un surplus di legittimazione rispetto all’Esecutivo nazionale, derivante dell’elezione diretta – intendessero proporsi come i più genuini interpreti delle istanze della popolazione, assumendo una funzione di rappresentanza impropria che, in una certa misura, ha indotto elementi di sovrapposizione e di confusione nella discussione pubblica, come se la sede concertativa tra Stato e Regioni fosse diventato il luogo primario dove fare valere le domande sociali più impellenti (anche qui, a scapito della dialettica tra Parlamento e Governo), e non , invece, il punto di passaggio obbligato del coordinamento tra le competenze statali e quelle regionali, in attuazione del principio di sussidiarietà e di leale collaborazione, oltre che di imparzialità, efficacia e buon andamento dell’azione amministrativa.
Vale la pena, peraltro, di ricordare anche che la concertazione tra Stato e Regioni sulle misure di prevenzione del contagio si è svolta con modalità relativamente informali, senza la garanzia costituita da procedure codificate, il che ha incoraggiato alcuni presidenti di Regione a cedere alle tentazioni di una sovra esposizione mediatica, che spesso ha prevalso sull’esigenza di assicurare la necessaria trasparenza dei comportamenti e la linearità e tracciabilità del processo decisionale.
Da un punto di vista costituzionale, si può dire che, in questa circostanza, sono emersi alcuni limiti della riforma del Titolo V del 2001, sia per l’obiettivo disallineamento tra l’assetto parlamentare del Governo centrale e quello presidenzialista delle Regioni, sia per l’assenza di organi e procedure di raccordo e di coordinamento tra Stato e Regioni, che comporta una proliferazione della litigiosità innanzi al giudice amministrativo e al giudice costituzionale non certi utile ai fini della chiarezza e della rapidità delle deliberazioni. La recente esperienza maturata con l’attuazione delle misure di contrasto del contagio ha messo in evidenza la necessità di un ripensamento di alcuni dei termini del rapporto istituzionale tra centro e periferia, che se da un lato deve liquidare definitivamente le elucubrazioni sulla trasformazione in senso federale dello Stato, ispirate, in ultima analisi, a una visione privatistica della ripartizione e dell’uso delle risorse pubbliche, dall’altro deve rifuggire da una tentazione neo centralista che potrebbe trarre alimento dalla constatazione delle obiettive difficoltà insorte in questi mesi.
Un punto cruciale di un nuovo patto tra cittadini e istituzioni riguarda infine il tormentato rapporto tra la politica e le competenze tecnico-scientifico. Mai come nelle attuali circostanze, questo tema è apparso in tutta la sua rilevanza, e la cosa è tanto più paradossale se si considera che in un recente passato, prima della pandemia, non pochi leader politici, di tutte le tendenze, hanno spesso liquidato le critiche rivolte alle loro scelte sulla base di obiezioni di carattere tecnico-scientifico come fastidiosi e inopportuni vaniloqui di “gufi” o “professoroni”.
Addirittura, la vulgata sovranista e populista ha propagato una sorta di elogio dell’incompetenza dei dirigenti politici, spacciata come una forma di intuizione rivelatrice di un’affinità di fondo con il sentimento popolare, mentre al contrario qualsiasi atteggiamento critico o semplicemente riflessivo è stato tacciato di complicità con un non meglio identificato establishment attestato a difesa dei propri privilegi. Questa vulgata si manifesta oggi nella forma caricaturale della crociata contro una presunta “dittatura sanitaria”, mentre in realtà la pandemia ha profondamente modificato i termini della questione, riportando alla ribalta una più realistica considerazione delle interazione dei saperi con la politica e della necessità, da parte di quest’ultima, di far poggiare decisioni essenziali per la vita dei cittadini su una conoscenza quanto più possibile obiettiva e circostanziata delle realtà sulle quali si è chiamati a intervenire.
Ma questo ordine di considerazioni non può a sua volta costituire un alibi per la politica, che non può sottrarsi alle proprie responsabilità, e alla quale spetta in prima persona il compito di valutare e ponderare la rilevanza degli interessi in campo, stabilire l’ordine delle priorità in relazione agli obiettivi che si intendono perseguire e orientare di conseguenza l’azione pubblica. In questi mesi, il contrasto tra l’esigenza di salvaguardare la salute collettiva e quella di assicurare la continuità del sistema produttivo è stato sotto gli occhi di tutti: si tratta di nodo politico, che non può essere affrontato solo sulla base di dati statistici (di per sé fondamentali) o di sondaggi di opinione, e che non può essere sciolto senza sacrifici e rinunce; un nodo tanto più difficile da sciogliere in quanto investe una situazione inusitata, che ha trovato tutti impreparati, istituzioni e società, soprattutto nei Paesi più avanzati, convinti di essere al riparo da catastrofi ecologiche e sanitarie; un nodo, va detto, affrontato in Italia, in Europa e nel mondo, con misure a geometria variabile e con aggiustamenti progressivi, che hanno prodotto effetti differenziati, ma sui quali si è giocata la credibilità di leader e dei governi.
In alcuni momenti, durante l’anno appena trascorso, nel nostro Paese è sembrato che il confine tra politica e competenze fosse diventato eccessivamente fluido, e che gli sconfinamenti dei “tecnici” nel campo del governo fossero diventati pericolosamente frequenti. In realtà, anche nel drammatico contesto dell’accelerazione del contagio, il complesso percorso di ridefinizione del rapporto tra la politica e le competenze appare ancora in larga misura incompiuto, anche se è ragionevole prospettare alcune soluzioni parziali, ad esempio cogliendo le occasioni offerte dalla crisi in essere per ridisegnare la pubblica amministrazione attraverso un recupero di saperi e competenze falcidiati da anni di tagli della spesa pubblica, oltre che da una visione astrattamente formalistica dell’agire amministrativo.
Il fatto è che la politica può molto, ma non può tutto: l’esperienza recente ha mostrato che una società più colta, più consapevole, più critica può rispondere con maggiore efficacia a sfide che rimettono in discussione l’insieme delle abitudini, dei comportamenti e delle opinioni correnti. A questo scopo, è necessaria una nuova stagione di impegno civile della cultura, è necessario che gli uomini di cultura riscoprano il valore etico e intellettuale di una presenza attiva nella società, iniziando a prendere le distanze da quella suprema forma di mistificazione che la riduce ai battibecchi e alle esternazioni più o meno estemporanee nei talk show, o sui social media o sulle colonne di qualche quotidiano. È tempo che la cultura torni ad essere il catalizzatore di un percorso di democratizzazione della vita pubblica, nel quale la conoscenza divenga una componente essenziale per realizzare una cittadinanza più vigile, più consapevole, più attiva.
Nel momento in cui vengono scritte queste righe non è dato sapere se i contrasti in seno alla maggioranza di governo sfoceranno in una crisi politica e, soprattutto, se i partiti troveranno l’energia morale per rispondere positivamente all’appello alla responsabilità rivolto loro dal Capo dello Stato. Ma una crisi di governo, per quanto improvvida e pericolosa, non modificherebbe i termini della grande sfida collettiva posta dalla pandemia. Una crisi che, non va dimenticato, ha mutato profondamente il volto dei singoli Paesi ma ancora più quello dell’Unione europea. Sul Next generation EU si misura la capacità dei governi e delle società del Vecchio continente di dare vita a scelte efficaci e rispondenti ai bisogni delle donne e degli uomini che chiedono tutela dei loro bisogni e delle loro aspirazioni più elementari; di realizzare le aspirazioni racchiuse nella Costituzione repubblicana, di una società insieme più libera e più eguale; di porre la cultura al servizio di un progetto democratico di rinnovamento e di crescita e di una nuova stagione di riscatto civile economico e sociale. È una partita ancora aperta.
Pubblicato lunedì 18 Gennaio 2021
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/longform/la-politica-puo-molto-ma-non-tutto/