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Con la legge n. 92 del 20 marzo 2004 si è istituito per il 10 febbraio il «Giorno del ricordo», al fine di conservare e tenere viva la memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo dei giuliano-dalmati nell’immediato secondo dopoguerra e delle vicissitudini che hanno segnato profondamente il confine orientale. Per molto tempo, nell’Italia repubblicana, non si è parlato di questo dramma collettivo. Alla base del lungo silenzio vi sono state essenzialmente motivazioni di politica estera: non turbare, anzi favorire in piena Guerra Fredda i rapporti con il maresciallo Tito, il leader carismatico della Jugoslavia socialista che era entrato in contrasto nel 1948 con l’Urss staliniana, e anche ottenere un compiacente oblio, in sede internazionale, sui crimini commessi dalle truppe italiane nei Balcani e in Grecia.
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Come ha notato in diverse circostanze il presidente nazionale Anpi, Gianfranco Pagliarulo, troppe volte sono state strumentalizzate le «memorie dolenti» degli anni Quaranta e Cinquanta, troppe volte le forze politiche di destra hanno acceso roventi polemiche, ignorando o non tenendo conto dei risultati della ricerca sul campo, svolta con rigore e serietà – ormai da alcuni decenni – da singoli studiosi e da storici vicini alla rete degli Istituti della Resistenza, primo fra tutti, in questo ambito, quello del Friuli-Venezia Giulia.
Raramente o quasi mai, in occasione proprio del «Giorno del ricordo», si è messa a fuoco la «più complessa vicenda del confine orientale» in tutte le sue sfaccettature, affidandosi alle lenti e agli strumenti dell’indagine e analisi storica. Molti, tra quanti sono intervenuti nel discorso pubblico sulla tragedia delle foibe hanno messo e continuano a mettere l’accento su motivi etnico-nazionali, presentandola come un caso di pulizia etnica. Tuttavia questa lettura, ispirata probabilmente dalla reminiscenza dei sanguinosi conflitti che hanno dilaniato l’ex Jugoslavia negli anni Novanta del Novecento, è una chiave interpretativa che non coglie, anzi travisa la reale natura della violenza che si tradusse nelle uccisioni e negli infoibamenti istriani del settembre 1943 e nei massacri e infoibamenti giuliani tra il maggio e il giugno 1945.
La violenza di massa che esplose allora – un cruento regolamento di conti – andrebbe inscritta non solo e non tanto in una logica di scontri etnico-nazionali quanto in quella, più generale, che investì ogni parte del Vecchio Continente alla fine della Seconda guerra mondiale. Così come l’esodo dei giuliano-dalmati (circa 250.000 profughi) [1] va inserito nella grande ondata di spostamenti coatti di popolazione, fenomeno che riguardò nei due dopoguerra buona parte dell’Europa centro-orientale e balcanica.
Le vittime delle foibe e delle stragi perpetrate dai partigiani titini sono imputabili a una violenza generata dalla mistura di motivazioni nazionali e di radicalismo ideologico-sociale, manifestatasi in altri episodi verificatisi in analoghe situazioni di guerra e collasso civile. C’è da aggiungere che taluni vocaboli, pregni di importanti significati, hanno conosciuto col passare del tempo una perdita di senso. Tra questi va annoverato il termine genocidio, che è divenuto genericamente sinonimo di violenza gratuita e indicibile. Ciò è ascrivibile alla mancata distinzione tra il piano dell’analisi storica e quello del giudizio morale o politico, rendendo così evanescente tanto il ragionamento storico quanto quello morale o giuridico.
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Inoltre, nel discorso pubblico – a differenza di quanto ha fatto la più avveduta letteratura specialistica sull’argomento – non si è operata la necessaria contestualizzazione della tragedia che ha coinvolto gli italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, finendo per relegare in un cono d’ombra i crimini di guerra commessi dal fascismo, ben prima del settembre 1943, nei Balcani. Secondo calcoli ancora approssimativi si possono stimare in almeno 350.000 le persone morte, durante il secondo conflitto mondiale, per cause connesse direttamente con l’attività delle truppe dell’Italia monarchico-fascista, di cui 250.000 tra i popoli della Jugoslavia e non meno di 100.000 tra i greci [2].
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Non si può, dunque, parlare di singoli aspetti, astraendoli dal loro contesto storico, senza correre il rischio di avere una memoria dimezzata, di ingenerare fraintendimenti interpretativi e di dare luogo a un distorto «uso pubblico della storia». Bisogna pertanto partire da lontano [3], dalla «questione delle terre irredente», dai trattati di pace del 1919, dal mito della «vittoria mutilata», dall’impresa di Gabriele D’Annunzio a Fiume, tenendo presente che dopo la fine della Grande guerra vi erano nell’Istria sì cospicui gruppi di italiani (artigiani, lavoratori dell’industria, insegnanti, proprietari terrieri), ma a fronte del 58% della popolazione slava, formata prevalentemente da contadini.
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Teatro di acuti antagonismi nazionali e sociali, la frontiera orientale dell’Italia ha visto all’opera un fascismo, sin dalla sua fondazione, particolarmente aggressivo, che già nel 1919 poteva disporre di robusti nuclei di squadristi, capaci di insegnare «a tutti i Fasci d’Italia il metodo più efficace di lotta contro l’Anti-nazione». Guidate dal toscano Francesco Giunta, affermatosi come esponente di primissimo piano del «fascismo di confine», le camicie nere triestine appiccarono il fuoco, il 13 luglio 1920, all’hotel Balkan, sede del “Narodni Dom”, il più importante e moderno centro culturale delle organizzazioni slovene di Trieste. Episodio non isolato nell’incandescente area della Venezia Giulia postbellica, esemplare nella sua brutalità, l’azione dei fascisti triestini va considerata secondo Renzo De Felice come «il vero battesimo dello squadrismo organizzato» [4]. Di lì a poco più di due mesi di distanza, Benito Mussolini palesò in un discorso a Pola un forte disprezzo intriso di razzismo per le popolazioni slave, richiamandosi al tempo stesso a una delle direttrici di marcia dell’espansionismo imperialistico italiano: «per realizzare il sogno mediterraneo – disse senza mezzi termini – bisogna che l’Adriatico, che è un nostro golfo, sia in nostre mani. Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone… I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche…Io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani» [5]. Il «fascismo di confine» [6], che forgiò con questa formula la propria identità alla frontiera nord-orientale d’Italia, additò nel «pericolo slavo-bolscevico» la minaccia peggiore, frutto quest’ultima della sovrapposizione tra le figure del nemico interno e di quello esterno.
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Con il giro di vite del regime dopo l’assassinio Matteotti e le “leggi fascistissime” a partire dal 1925, la violenza squadristica della prima ora si tramutò in violenza di Stato. Nei territori incamerati dopo il Primo conflitto mondiale, dove vivevano consistenti comunità slovene e croate, la presenza italiana fu contraddistinta da atti di arbitrio e di sopraffazione, spesso totalmente gratuiti: circoli culturali, Camere del Lavoro, tipografie e spazi d’aggregazione sloveni e socialisti furono incendiati e devastati, mentre quelli che erano sopravvissuti alle incursioni squadristiche vennero chiusi.
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Nelle terre orientali il fascismo perseguì l’obiettivo dell’italianizzazione forzata attraverso la distruzione dell’identità nazionale slovena e croata. Si impose alle popolazioni «allogene» l’italianizzazione dei loro cognomi, altrettanto accadde per i nomi slavi dei paesi e soprattutto si impose l’obbligo della lingua italiana in qualsiasi luogo pubblico (ne fecero le spese i bambini a scuola, costretti a studiare in una lingua che non conoscevano affatto). Se gli insegnanti furono discriminati, i sacerdoti sloveni e croati vennero colpiti con aggressioni fisiche e con la devastazione delle canoniche. La mano pesante si usò specialmente contro l’antifascismo d’ispirazione comunista, come prova il processo svoltosi nel 1929 contro un giovane operaio disoccupato, Alojzij Bregant, conseguente all’uccisione a Gorizia di un informatore della polizia. Mediante una condanna esemplare il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato volle creare nella comunità locale un clima di sospetto, di paura e di intolleranza verso il mondo slavo [7].
Sarà, però, nel corso della Seconda guerra mondiale che popolazioni e territori del confine orientale precipiteranno in un gorgo infernale.
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Con la rapida disgregazione della Jugoslavia, invasa il 6 aprile del 1941 dalle divisioni dell’Asse, si realizzò, pur se a trarne i vantaggi maggiori fu il Terzo Reich, uno dei capisaldi della politica estera del fascismo. Infatti, attraverso l’appoggio dato ai revisionismi ungherese e bulgaro e al separatismo croato, il governo di Roma aveva cercato, per tutti gli anni Trenta, di isolare e destabilizzare il giovane Stato che si affacciava sull’Adriatico, già indebolito da forti tensioni sociali e interetniche. Sconfitto in pochi giorni il male armato esercito jugoslavo, il regno dell’adolescente re Petar fu diviso secondo le direttive di Hitler in accordo con Mussolini.
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Profilatasi chiaramente sin dalla metà del 1941 con il disastroso andamento della campagna di Grecia, la subalternità dell’Italia nei confronti della Germania nazista trovò proprio in Jugoslavia la sua irreversibile sanzione. Accantonati i propositi di «guerra parallela», il regime fascista, che su questo scacchiere dovette impegnare ben 650.000 uomini, si limitò a gestire secondo una logica predatoria i territori ottenuti: una parte consistente della Slovenia (trasformata in «provincia di Lubiana»), l’intera Dalmazia e di fatto anche il Montenegro. L’ambizione, coltivata da quasi tutte le grandi imprese italiane, di giovarsi dell’instaurazione di un sia pur dimesso «ordine nuovo», era destinata così a tradursi in una politica di selvaggia rapina [8].
Fin dall’estate 1941 le “bande” dei “ribelli” crebbero in tutte le aree sottomesse dalle potenze nazifasciste. La guerra di Liberazione condotta dalle formazioni del maresciallo Tito con l’esplicito scopo di creare una società e uno Stato socialisti si intrecciò con un feroce conflitto civile tra il movimento partigiano egemonizzato dai comunisti, i četnici serbi, i domobranci sloveni e gli ustaša croati. Questi ultimi, politicamente e militarmente strutturati secondo gli schemi ideologici e organizzativi nazifascisti, costituivano la spina dorsale dello Stato satellite croato retto dal poglavnik (duce) Ante Pavelić. Nel famigerato campo di concentramento di Jasenovac e agli ordini del sanguinario colonnello Slavko Kvarternik, una sorta di Himmler balcanico, gli ustaša sterminarono centinaia di migliaia di persone tra serbi, ebrei e comunisti.
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In risposta al montare di una lotta resistenziale che ben presto mise alla frusta gli occupanti, le truppe italiane e tedesche si macchiarono di atroci rappresaglie e ritorsioni in una serie di cicli operativi che causarono ingenti danni materiali e considerevoli perdite tra i partigiani e i civili (per la sola Slovenia sono stati contati 4.000 ostaggi fucilati e 1.900 torturati o arsi vivi). Nella pratica repressiva la fenomenologia e la tipologia delle azioni italiane non si differenziarono da quelle della Wehrmacht, delle SS e della polizia nazista. Vasta era la gamma di misure punitive applicate [9]: cattura di ostaggi, incendio e devastazione di villaggi e centri abitati, rappresaglie sulle famiglie di semplici sospetti, evacuazione di alcune zone, disboscamenti di quelle considerate ricettive dei partigiani, saccheggio del bestiame, impunità per gli eccessi compiuti, deportazione di migliaia di persone nella rete dei circa 202 campi di concentramento per sloveni e croati allestiti sul territorio del Regno d’Italia. Nelle squallide tendopoli in riva al mare di Arbe, Melada e Zlarin, dove si veniva ammassati in spazi angusti e si pativa la fame, morirono migliaia di deportati per il sovraffollamento, la denutrizione e la deplorevole situazione igienico-sanitaria.
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Come ha messo in luce la storiografia più avvertita, sulle intenzioni che muovevano gli alti comandi militari italiani non ci sono ormai più dubbi. Il 1° marzo 1942, il generale Mario Roatta, che sarà schedato con il numero 105 nella lista dei criminali italiani presentata da Belgrado alle Nazioni Unite, nella tristemente famosa circolare 3C, che prescriveva le modalità per sgominare chi si opponeva al potere dell’Italia fascista, intimava che «il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula: “dente per dente” ma da quella “testa per dente”». Qualche mese più tardi, in agosto, il comandante dell’XI Corpo d’Armata, il generale Mario Robotti, nello scoprire che in un gruppo di 73 prigionieri nessuno era stato ucciso per dare l’esempio, ammoniva i suoi sottoposti con un’agghiacciante affermazione: «Si ammazza troppo poco!» [1o].
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Fu nel contesto di una guerra totale, in un’area segnata da profondi, irriducibili contrasti nazionali e sociali, che maturò dunque il dramma delle foibe e del successivo, imponente, esodo dei giuliano-dalmati. In due ondate repressive (la prima dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, la seconda tra il maggio e il giugno 1945) vennero eliminati tra i 4.000 e i 5.000 italiani – tanti per ora ne ha accertati la ricerca storica – per lo più uccisi mediante esecuzioni sommarie, molti fucilati e poi scaraventati, talvolta ancora vivi, nelle cavità delle foibe dai partigiani titini. I due cicli di massacri sono ascrivibili all’intreccio di vari elementi e motivazioni: rivendicazioni nazionali, mire annessionistiche, spinte rivoluzionarie, rabbiosa risposta alla mano pesante precedentemente usata dal fascismo in quelle terre e, più in generale, nei Balcani. Va ricordato inoltre che in tutti i territori liberati dai nazifascisti i partigiani jugoslavi attuarono una dura repressione contro i collaborazionisti e contro coloro che si opponevano o erano ritenuti potenziali oppositori al nascente regime di Tito.
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Gli eccidi perpetrati nel settembre ’43 nell’Istria croata sono riconducibili al vuoto di potere determinatosi all’indomani dell’8 settembre e del disfacimento dello Stato italiano. In quella fase i partigiani jugoslavi occuparono cittadine e villaggi, mentre i contadini animarono violente rivolte popolari contro i proprietari terrieri. Il rancore per le sofferenze e le angherie patite da una popolazione, che nell’entroterra era a maggioranza slava, è stato l’ingrediente principale della miscela di spinte nazionalistiche e aneliti rivoluzionari, che si tradussero nel desiderio di cacciare gli invasori italiani e nella volontà di farla finita con la borghesia per dar vita ad un progetto socialista. La violenza si indirizzò, inizialmente, contro gerarchi, funzionari civili e militari del governo fascista, ma anche contro possidenti e notabili che rappresentavano, per gli insorti, gli elementi della minoranza nazionale italiana che avevano contribuito a opprimere e vessare la maggioranza croata e slovena della popolazione. Vennero, dunque, presi di mira esponenti del Pnf, soldati e ufficiali della Milizia, funzionari statali di vario grado, proprietari terrieri, farmacisti, insegnanti, commercianti. Gli “infoibati” di questa prima scia di violenze oscillarono – per quanto sia difficile fare un computo preciso – tra 500 e 700. Furono vittime dell’azione di «giustizieri improvvisati», tra i quali figuravano anche italiani antifascisti, che si presentavano come «guardie della rivoluzione» e davano un’impronta al tempo stesso politica e sociale alla propria aggressività e al proprio desiderio di vendetta.
Fu alla fine della guerra che ebbero luogo le stragi che funestarono la Venezia Giulia. Migliaia di persone vennero uccise, non poche delle quali gettate nelle foibe, i profondi inghiottitoi carsici [11].
Il 29 aprile 1945 Trieste si era sollevata contro i tedeschi, ma cadde subito dopo nelle mani dei partigiani jugoslavi. Gli Alleati giunsero in città il 2 maggio, ma ciò non frenò la loro brutale vendetta contro gli italiani, fascisti e non, considerati a torto o a ragione responsabili delle violenze commesse dalle truppe di occupazione nelle regioni della Slovenia, della Venezia Giulia e dell’Istria tra il 1941 e il 1943. I quaranta giorni dell’occupazione jugoslava di Trieste, prima che l’accordo firmato a Belgrado il 9 giugno 1945 tra il governo iugoslavo e gli Alleati portasse al ritiro, il giorno 12, dell’esercito di Tito oltre la Linea Morgan, furono caratterizzati dalla presenza di un regime autoritario, incarnato soprattutto dall’Ozna (Odeljenje za Zaštitu Naroda), il Dipartimento per la Sicurezza del popolo, la polizia segreta del nuovo potere ispirata al modello sovietico. Subito dopo l’ingresso dei partigiani comunisti di Tito a Trieste iniziò un flusso ragguardevole di deportazione: da 15.000 a 18.000 italiani furono internati in campi di concentramento o prigionia in Jugoslavia. Gli scontri a Trieste lasciarono sul terreno 401 morti, ritrovati in varie zone della città nelle settimane successive ai combattimenti. Furono invece circa 480 le salme recuperate da 48 foibe situate attorno alla città. A queste cifre vanno aggiunti quanti scomparvero e non sono mai più stati trovati – quindi non morti nelle foibe – oppure morti e sepolti in altre località. Il numero totale resta dunque incerto, ma la stima sembra non poter superare quella accertata di 4-5.000 persone.
A fatica, come si è detto, si è fatto luce su questa dolorosa e controversa pagina della storia nazionale come sull’intero capitolo della vicenda del confine orientale, sconvolto da un susseguirsi di eventi drammatici, la cui responsabilità prima va addebitata alla scellerata politica imperialistica e guerrafondaia perseguita con cinica determinazione dal fascismo mussoliniano.
Francesco Soverina, storico
[1] Cfr. R. Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Milano, Rizzoli 2005.
[2] B. Mantelli, Gli italiani nei Balcani 1941-1943: occupazione militare, politiche persecutorie e crimini di guerra, in Idem (a cura di) L’Italia fascista potenza occupante: lo scacchiere balcanico, «Quale storia», Bollettino dell’Istituto Regionale del Movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, a. XXX, n. 1, giugno 2002, p. 19.
[3] Per un inquadramento di lungo periodo della vicenda del Confine Orientale si vedano di Algostino et alii, Dall’impero austro-ungarico alle foibe. Conflitti nell’area alto-adriatica, Bollati Boringhieri, Torino 2009; di R. Pupo, Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza, Laterza, Bari-Roma 2021.
[4] R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Einaudi, Torino 1965, p. 624.
[5] L’imperialismo fascista vuole i confini segnati da Dio e dalla natura. L’Italia deve essere il ponte fra l’Occidente e l’Oriente. Discorso di Mussolini al Politeama Ciscutti di Pola il XXIV settembre 1920. Il discorso è stato riprodotto testualmente in G. A. Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, come prima appendice al v. II (Anno 1920), Firenze 1929, pp. 267-271.
[6] Sul «fascismo di confine», uno dei ‘laboratori’ del progetto totalitario mussoliniano, offre un quadro d’insieme A. Vinci, Sentinelle della patria. Il fascismo al confine orientale 1918-1941, Laterza, Roma-Bari 2011.
[7] Cfr. M. Puppini, M. Verginella, A. Verrocchio, Dal processo Zaniboni al processo Tomažič. Il Tribunale di Mussolini e il Confine Orientale (1927-1941), Gaspari Editore, Udine 2003.
[8] Cfr. F. Soverina, La Jugoslavia: guerra, guerra civile e Resistenza, in «Giano. Pace ambiente problemi globali», n. 20, giugno 1995, pp. 137-146.
[9] Sulle sanguinose e vergognose pagine scritte dalle truppe italiane nei Balcani durante gli anni di guerra si rimanda a T. Ferenc, «Si ammazza troppo poco!». Condannati a morte, ostaggi, passati per le armi nella provincia di Lubiana, 1941-1943, Istituto per la storia moderna di Lubiana e della Società degli scrittori della storia della lotta di liberazione, Lubiana 1999; D. Conti, L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente” (1940-1943), Odradek, Roma 2008; nonché ai libri di E. Gobetti, L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-1943), Carocci, Roma 2007; Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943) Laterza, Roma-Bari 2013.
[1o] Cfr. G. Oliva, «Si ammazza troppo poco!». I crimini di guerra italiani 1940-43, Mondadori, Milano 2006.
[11] Sulla tragedia delle foibe si vedano, oltre alla pregevole sintesi di R. Pupo sul Confine Orientale, Adriatico amarissimo, cit., i libri di G. Oliva, Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria, Mondadori, Milano 2002, e di R. Pupo e R. Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori, Milano 2003.
Pubblicato lunedì 10 Febbraio 2025
Stampato il 11/02/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/longform/il-dramma-del-confine-orientale/