Almirante, Giorgio: lui è il vero faro delle coscienze nere. Ovvero, di coloro che oggi stanno assisi negli alti scranni del potere politico. Quindi, al governo. La destra post-costituzionale si colloca tra il repertorio del rimando al «fascismo eterno» e la stessa consapevolezza politica che – con il trascorrere del tempo – il regime mussoliniano sia oramai fuori tempo massimo. Ovvero, risulti irripetibile nei fatti. La qual cosa, si traduceva, già negli anni Ottanta del secolo trascorso, nella formula «non rinnegare, non restaurare». Il Giorgio Almirante “amato” non è quello di sempre, ossia dell’oscura e torbida appartenenza al pulviscolo del neofascismo, bensì colui che nell’ultimo decennio della sua esistenza, negli anni Ottanta del Novecento, fece da traghettatore, per il Movimento sociale italiano e per i neofascisti, da una condizione di minorità a quella di una potenziale maggiorità. I tempi successivi, soprattutto dopo la sua morte, avvenuta nel 1988, si sarebbero incaricati di dargli, in qualche modo, una qualche ragione. A partire dalla calcolata passione di Silvio Berlusconi (parliamo del 1993) per Gianfranco Fini, delfino e poi successore designato dal medesimo Almirante alla guida di ciò che, a quel punto, sarebbe restato del MSI.
Anpi: più o meno, in un certo giudizio di senso comune, funziona così: «che ci sta ancora a fare un’organizzazione che raccoglie i fantasmi del passato (i resistenti), oramai venuti a mancare fisicamente, quando invece c’è semmai da pensare al futuro?». Essere per davvero di «destra» (non solo per intima convinzione e adesione ma soprattutto per una sorta di passiva rassegnazione, quella che subentra nel conformismo di quando ci si adegua allo spirito dei tempi correnti, sostituendo al proprio impegno civile e politico l’accettazione della volontà dei più forti e dei più potenti) implicherebbe quindi l’“andare oltre”. Ovvero, oltre i propri avversari, intesi come anacronistici e inconsistenti. Soprattutto, «oltre la divisone tra destra e sinistra», una cosa che gli esponenti della destra auspicano da sempre, ovviamente a favore della propria parte. L’Anpi, da questo punto di vista, sarebbe quindi solo un “patetico relitto del passato”. Al pari della cosiddetta «sinistra». In base a un tale indirizzo di pensiero, varrebbe comunque il riscontro che il fascismo fu anche dittatura ma «nell’interesse degli italiani»; dinanzi ai molti problemi del presente, l’Italia potrà invece diventare una «democratura», ossia un regime al medesimo tempo liberticida e falsamente maggioritario. Piccolo particolare: il tempo a venire, anelato dai post-fascisti, di ogni genere e risma, non è quello che sviluppa giustizia, libertà e democrazia bensì il sogno utopico (che si fa poi incubo) di una sorta di «ordine» da restaurare, basato sull’autoritarismo. Attaccare l’Anpi, da un tale punto di vista, implica il dichiarare che le speranze espresse in decenni di storia repubblicana siano solo un transito temporaneo. Non si rigettano, come tali, solo i «partigiani» bensì ciò che dalla loro lotta è derivato, ovvero il rifiuto attivo di ogni forma di autoritarismo. Che, come tale, è invece il vero cuore pulsante del progetto di restaurazione delle destre europee. Le quali anelano al potere che, da società smarrite e abbandonate a sé stesse, gli potrebbe derivare. In quanto, come la storia si è abbondantemente incaricata di dimostrare, chi non ha più sicurezze alla quali ancorarsi, cerca sempre qualcosa – o qualcuno – al quale aggrapparsi. Anche se si tratta di un abbraccio mortale. L’autentico nocciolo della destra post-costituzionale è quindi l’anti-antifascismo.
Anti-antifascismo: è la vera ideologia del tempo corrente. Poiché coniuga in sé la finzione di una fittizia disposizione collettiva («decide il popolo», altrimenti inteso come una massa di buoi), con il rifiuto di ogni evoluzione realmente democratica, tale in quanto derivante dalla consapevolezza dei disastri collettivi generati nel passato, tanto più se nel nome delle «masse» amorfe e passive. Rifiutare l’antifascismo, allora, rimanda non solo a una mera decisione ideologica (il diniego dell’imprescindibilità della democrazia costituzionale) bensì al rigetto del senso delle proprie responsabilità morali e politiche, individuali così come collettive nella vita pubblica. Laddove – invece – l’antifascismo è soprattutto la scelta consapevole di essere individui morali, responsabili verso la collettività. Il fascismo ha sempre odiato, dell’antifascismo, il carattere cosciente, il suo appello all’etica personale (e non a quella del “branco”, la logica deresponsabilizzante di gruppo). Lo ha bollato in molti modi, soprattutto come anacronismo quand’esso è, invece, esercizio di consapevole cittadinanza. Dove ognuno vale da sé, nella sua unicità. Anche se, solo ed esclusivamente, in rapporto con gli altri, ossia il resto della collettività.
Atreju: nome di fantasia, che indica, nel romanzo di Michael Andreas Helmuth Ende intitolato a «La storia infinita», un personaggio che lotta contro il nichilismo e la dissoluzione dei «valori». Una finzione letteraria adattissima a trasformare la politica in pura mitologia, ossia il convincimento che si possa governare con l’immaginazione fine a sé, quella di taglio mitografico. Giorgia Meloni, a suo modo figlia dei tempi dominati da Silvio Berlusconi, ha ben saputo come inserirsi in un tale solco. Giovandosene appieno. Atreju è infatti una manifestazione politica giovanile della destra italiana che si svolge ogni anno a Roma, dal 1998, generalmente nel mese di settembre. Un palco pubblico, come una volta erano, a modo loro, le feste nazionali dell’Unità. Nel trascorre degli anni un tale appuntamenti è stata legittimato dalla partecipazione di più di un esponente della «sinistra» (per esempio, Enrico Letta), così come del cosiddetto «Terzo polo» (Matteo Renzi). Andare, nella declinante estate, a fare da comparse ad Atreju (magari credendosi delle primedonne), è un po’ come essere invitati al Meeting annuale di Comunione e Liberazione, in quel di Rimini. Su questa commistione tra fantasia e realtà, tra desiderio e delusione, tra speranza e illusione, si inseriscono la mitografia, le falsificazioni, soprattutto le chimere di cui la destra post-costituzionale si alimenta, ottenendo peraltro molti consensi. Poiché la sua vera ossatura non è l’azione politica nell’interesse della collettività bensì la costruzione di privilegi per se stessi. In ciò, la nuova destra è per molti aspetti identica all’esperienza fascista. Non necessitando delle camicie nere, delle violenze di piazza e così via. Semmai, per parte sua, dimostra di sapere suonare, ancora una volta, il piffero dell’imbonitore, quello che fa sì che un’intera società voti contro sé stessa, i suoi interessi, il suo orizzonte di vita.
Berlusconi, Silvio: colui che è stato all’inizio di tutto. Ossia, ha saputo cogliere, nel giusto momento, le opportunità che gli derivano, a proprio beneficio, pur non essendo causa dei mutamenti sociali, economici e civili ancora in corso ma – piuttosto – un loro effetto. Come tale, ha lasciato un’eredità pesantissima. In quanto, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, aveva iniziato a coniugare il duplice riscontro del declino dei partiti – e della politica della cosiddetta «prima Repubblica» – con l’idea, importata dagli Stati Uniti, che gli umori politici collettivi potessero essere indirizzati attraverso i mezzi di comunicazione collettiva, a partire dalla televisione. Un’intuizione, quest’ultima, destinata a cambiare molto velocemente il volto della politica. Intendendola infine al pari di una merce, che può essere venduta così come si fa con un prodotto da supermercato oppure con una passione di stampo calcistico. In fondo, Silvio Berlusconi ha precorso l’età digitale che stiamo condividendo, dove alla realtà dei legami interpersonali si sostituisce, molto spesso, quella dei rapporti virtuali. Non di meno, da uomo di destra, ha fatto da apripista a tutti i successivi sviluppi, legittimandone aprioristicamente gli effetti a venire: con la Lega Nord di Bossi, con il Movimento sociale italiano, e poi Alleanza nazionale di Fini, al pari – poi – di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e così via.
«Buonisti»: espressione in uso nella destra post-costituzionale per definire i propri avversari, come tali affetti da una strutturale incapacità di affrontare i grandi problemi del presente (a partire dall’immigrazione) poiché condizionati da un approccio basato sui “buoni sentimenti”. Quelli, per intenderci, che inquinerebbero ciò che è invece la vera sostanza della “politica”, ossia la capacità di decidere, una volta per sempre, su chi abbia ragione di vivere e chi, invece, debba soccombere. Tra i primi, si intende, i “ricchi”; tra i secondi, invece, i poveri. Tutta la comunicazione della destra post-costituzionale, a partire dai suoi quotidiani (La Verità di Maurizio Belpietro; Il Giornale, fondato da Indro Montanelli e ora diretto da Augusto Minzolini; Libero quotidiano, a tutt’oggi condiretto da Vittorio Feltri e Alessandro Sallusti), passando per il combinato disposto tra le tre reti Mediaset e quelle Rai, batte su questo chiodo. Chi è sinistroide, non capirebbe in alcun modo quale sia il vero interesse nazionale: ossia, il difendere un’identità italiana presentata come perenne, statica, non mutevole, di contro alla sostituzione etnica in corso da parte delle popolazioni africane (e asiatiche).
Campo X, Musocco (Milano): al medesimo tempo un cimitero e un luogo di culto per la destra antidemocratica. Come tale, definito nella sua natura di «campo militare dell’onore», dove (secondo le stesse parole dell’Associazione Memento, costituita per ricordare coloro che vi sono stati sepolti), si trovano «quasi mille degli oltre seimila fascisti uccisi a Milano e dintorni nel corso della Guerra civile. In particolare i caduti qui sepolti furono quasi tutti uccisi dopo il 25 aprile, a guerra finita, vittime quindi dell’odio e della vendetta dei partigiani comunisti e non uccisi in leale combattimento». In esso, infatti, riposano alcune delle salme dei militi della Repubblica sociale italiana. Coloro ai quali l’attuale destra «sociale» e di movimento si rivolge come a un precedente non solo storico ma anche morale. La questione, in franchezza, non è quella di sindacare numeri, motivazioni così come eventi bensì di capire come la destra post-costituzionale utilizzi tutto ciò per diffondere, anche tra gli italiani non fascisti, l’idea che l’antifascismo e la lotta di Liberazione siano state solo delle “vendette”. Una falsificazione che, tuttavia, riesce a raccogliere l’adesione di una parte degli italiani.
Comunisti (ovvero «sinistra»): tutto (e tutti) quanto (e quanti) non possano essere ricondotto alla destra reazionaria e illiberale. L’anticomunismo, anche in assenza politica ed esistenziale dei comunisti, rimane una pietra miliare nel pensiero del radicalismo eversivo. Non indica solo l’avversione nei confronti del comunismo nella sua natura di movimento politico reale, espressosi dall’inizio del Novecento in poi, ma anche – e soprattutto – il rigetto di qualsiasi forma di aggregazione civile e sociale, prima ancora che politica, basata su un progetto di emancipazione collettiva. Se il nocciolo di quest’ultimo era quello di liberare gli individui dalle loro schiavitù, quello della destra post-costituzionale è di rendere accettabili le catene medesime. Del passato e nel presente. Anche per questo è illiberale, rifiutando l’idea stessa che un individuo, così come una collettività, possano autodeterminarsi.
Complotto (teoria del): ossia, il modo capovolto di interpretare la complessità dei fatti quotidiani. Qualcosa, per capirci, che li riduce a un unico denominatore, che parrebbe dirci: se esistono i “cattivi”, che si adoperano nascostamente contro di “noi”, allora – smascherando i primi – potremo vincere noi “buoni”. Il cospirazionismo sta alla realtà così come l’infantilismo sta all’azione politica. Poiché di quest’ultima ne è il grado zero, ossia la falsa coscienza. Tale in quanto, al medesimo tempo, rassicurante nonché falsificante. Oggi piace molto, in alternativa a qualsiasi impegno per cercare di cambiare insieme le cose. Poiché il dichiararsi vittima di “qualcuno” (o qualcosa) è divenuto il modo per giustificarsi per la propria inerzia, apatia, incongruenza. È soprattutto un atto di incoscienza fatto passare per una (falsa) consapevolezza.
Concertazione (e intermediazione): ciò che in fondo più sta antipatico alla destra post-costituzionale, che non ritiene di dovere governare bensì di essere riuscita a “prendere il potere”, senza mediazioni di sorta. «Nell’affermazione della destra al potere è funzionale la perdita di ruolo di tutti i soggetti intermedi [per esempio i sindacati], di rappresentanza di interessi. Ciò che conta è il rapporto diretto tra leader politico ed elettori. Non si cerca la negoziazione, lo scambio, appunto, che presuppone il reciproco riconoscimento politico» (Roberto Mania) bensì la finzione di una mediazione alla quale, dietro la patina delle “buone notizie”, chi sta al potere sostituisce la sua volontà esclusiva.
Costituzione (e post-costituzione): se tutti sanno, o fingono di sapere (quindi di rispettare) i suoi principi e contenuti, nei fatti i più non solo non ne conoscono nulla ma sono semmai disposti a violarne i presupposti. Il tutto a prescindere. Si definisce come «post-costituzionale» quell’insieme di forze politiche – pressoché collocate tutte (o quasi) nella destra, poiché è quest’ultima parte politica, nelle sue componenti illiberali, ad averla rifiutata dal 1948 in poi – che ritengono che si possa fare a meno delle garanzie e delle libertà che la Costituzione sancisce, promuove e tutela. Il modello di riferimento sono le democrature nate e affermatisi perlopiù nell’Europa dell’Est dopo la fine del comunismo, soprattutto a partire dall’Ungheria (la «nazione magiara») di Viktor Orbán.
Crimini (del comunismo): corrente ideologica che si spaccia per ricerca storiografica quando invece promuove un triplo percorso: il primo di essi è la parificazione del comunismo storico al nazionalsocialismo, in base al ragionamento, di senso comune, per cui i «totalitarismi» novecenteschi si equivalgono, essendo organizzazioni politiche criminali (gulag = lager). Il secondo elemento è la de-contestualizzazione dei singoli fatti rispetto alla storia come tale: poiché tutti sarebbero criminali, non solo non c’è più distinzione alcuna che valga ma non necessita neanche indagare su come (e perché) certe tragedie si produssero nel tempo. Il terzo fattore è l’azzeramento di qualsiasi ipotesi di trasformazione del mondo. Se il «socialismo reale» è, a conti fatti, la medesima cosa del nazismo e dei fascismi, perché ritenere che, in fondo, si possa andare oltre lo stato di cose esistenti? Non è meglio, semmai, accettarle senza replicare? Chi contesta il potere esistente non è, almeno in ipotesi, un potenziale artefice di nuovi totalitarismi?
Crosetto, Guido: è lui uno dei grandi cerimonieri, nonché artefici, del successo di Giorgia Meloni. Proprio perché è diverso da lei. È tutto fuorché un postfascista. Come tale, non ha complessi di inferiorità, né di colpa. Non ha conflitti interiori da risolvere. Men che meno contraddizioni politiche da superare. Intrattenendo tuttavia una grande confidenza con quei poteri, a partire dall’economia, che contano per davvero. A prescindere dalle occasionali maggioranze politiche. Guido Crosetto sta a Giorgia Meloni così come Gianni Letta e Maurizio Costanzo stavano a Silvio Berlusconi. Come dire: più cuori per un’unica capanna.
Cultura, di destra (ai tempi di Giorgia): il suo vero nome è rivalsa (contro la cosiddetta «egemonia della sinistra»). Per la destra post-costituzionale si tratta, al medesimo tempo, di occupare i «posti» di sottogoverno, scambiando la visibilità pubblica per legittimazione (e ovazione), nonché di ribadire che è «cultura» esclusivamente un patrimonio ossificato di oggetti e cose, di persone e relazioni. Come se invece essa non ci restituisse il senso del mutamento, in quanto parte imprescindibile dell’essere umano, dal passato a oggi. «Le culture vive sono culture in movimento, che accettano il cambiamento e il contatto. Allo stesso modo in cui le lingue cambiano se le si parla e muoiono se non le si parla più, cioè muoiono a causa del non cambiare più, le culture, come gli individui, o si muovono o muoiono. Le culture vive sono insiemi in movimento, legati alle tensioni e alle pressioni della storia» (Marc Augé). La destra illiberale odia soprattutto il cambiamento. Bisogna prendere nota di ciò, poiché l’umanità non si sarebbe invece mai evoluta se non fosse, per mille volte, mutata.
Decima Max (come anche Xª Flottiglia Max, ovvero Xª MAS così come Divisione fanteria di marina Xª): intesa come una sorta di forza armata a sé, quindi più di una milizia paramilitare, era di fatto al servizio dell’occupante tedesco – benché abbia spesso affermato l’esatto opposto. Nella concretezza dei fatti, pur cercando di mantenere comunque una qualche autonomia operativa dal «camerata germanico», si contraddistinse per la sua franca brutalità in quella che era la lotta antipartigiana. Ossia, ciò che essa stessa ebbe a definire come guerra civile, in un’accezione ben diversa da quella adottata dal movimento di Liberazione. Ciò che resta di essa, dopo decenni dalla conclusione della sua esistenza, è una mitologia che coniuga finzione a mitologizzazione, nazionalismo esasperato a culto per le armi e la violenza. Per il neofascismo rimane una pietra miliare della sua identità più profonda.
Democratura: «regime politico improntato alle regole formali della democrazia, ma ispirato nei comportamenti a un autoritarismo sostanziale. Eduardo Galeano [scrittore latino-americano] coniò la parola democratura per descrivere la convivenza di elementi democratici e autoritari all’interno di un modello che potremmo definire come “democrazia ristretta” o in altri termini “dittatura costituzionale”. […] I politologi potrebbero ricorrere forse al termine democratura, crasi [incrocio] di democrazia e dittatura, con cui l’ingegnoso saggista Predrag Matvejevic descriveva i regimi formalmente costituzionali ma di fatto oligarchici» (Treccani, vocabolario online).
Destra post-costituzionale: l’insieme delle forze politiche e delle organizzazioni civili che, in Italia così come in Europa e negli stessi Stati Uniti (a partire da Donald Trump), ritengono che le democrazie liberali e sociali, sorrette da una Costituzione, siano in via di declino. Anzi, al capolinea. Aspirando a sostituirsi ad esse. Anche per ciò, si propongono come alternative al sistema di poteri esistenti, fingendosi “anticapitaliste” (un vecchio leitmotiv della destra reazionaria, dall’Ottocento in poi, e come tale confusa con le forze della sinistra) nonché “popolari” (cioè capaci di rappresentare il disagio della collettività dei produttori). Storicamente, da quando – spontaneamente – sono nati, dal basso, i movimenti e le organizzazione di base della sinistra sociale e politica, da subito si sono infatti generate le formazioni che, simulando di perseguire interessi simili (eguaglianza e giustizia sociale) hanno invece praticato le vie della diseguaglianza e delle ingiustizie. Si è di destra post-costituzionale quando si è antiliberali (i diritti degli individui così come la divisione dei poteri), antidemocratici (la libera partecipazione collettiva nonché l’emancipazione individuale) e antisocialisti (l’abrogazione di ogni forma di organizzazione d’interessi che non sia in chiave esclusivamente corporativa). Un orizzonte di tale destra moderna, è il rimando ai rosso-bruni, che confondono totalmente le acque e i pensieri di tanti.
«Dio-Patria-Famiglia»: è il trinomio autoritario che accompagna ogni esperienza di destra quand’essa voglia disintegrare, se già sussistono, gli anticorpi liberali (i diritti dei singoli) così come quelli della collettività (i diritti delle persone tra di loro associate, laddove il secondo comma del terzo articolo della nostra Costituzione recita: «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»). Il continuo rimando a «Dio» (non importa quale), a ciò che viene chiamato con il nome di «Patria» (intesa come una sorta di entità senza storia né tempo, un lembo di terra santificato e ossificato) e alla «Famiglia» (quella che oggi si aggettiva come «naturale», ossia derivante non dalla consapevolezza e dalle scelte umane bensì da una specie di codice genetico inscritto nell’ancestralità) sono in sé strumenti ideologici per consegnare le persone ad una sorta di eterno vassallaggio verso i poteri costituiti e gli interessi dei più forti. Ragioniamo su tutto ciò, se vogliamo capire per davvero in che cosa consista il dominio culturale.
Dominio (culturale): piace molto alla destre, vecchie e nuove, nel tempo della modernità. Si cita, a sproposito, l’«egemonia culturale» di cui parlò nei suoi Quaderni dal Carcere Antonio Gramsci. Cercando di piegarne, a proprio beneficio, le sue complesse nonché argute argomentazioni. Come sempre, quando la destra illiberale e anticostituzionale non ha un pensiero proprio, saccheggia quello altrui. Lo fece Mussolini, tra il 1914 e il 1922, con i socialisti e gli anarchici; lo fanno adesso i suoi più o meno inconfessabili apologeti, piegando il significato di espressioni di senso comune a proprio, esclusivo beneficio. La cialtroneria di regime, nel passato così come nell’oggi, nasce anche da questa manipolazione del linguaggio, con la quale si raggirano e si disintegrano opinioni altrimenti complesse, tali poiché non condizionabili nei loro contenuti se non attraverso una completa banalizzazione, che ne distrugge il vero e autentico significato. «Essere di destra» implica anche il fingere di avere un pensiero proprio quando, invece, si rubano idee, suggestioni e impressioni da quello altrui. Si è di destra post-costituzionale, infatti, quando si riempie il proprio vuoto mentale e intellettivo con la finzione di grandi idee, sempre e comunque presentate come reazione ad una inesistente «egemonia della sinistra».
Egemonia della sinistra: quella strana cosa che certuni chiamano «sinistra» – seconda una logica bipolare oggi più adatta agli studi psichiatrici che non alla vita civile di ogni giorno – sarebbe come una sorta di drago che si divora tutta la vita civile ed associata. A partire dalla cultura. Il termine ha sostituito, dopo il 1989, la parola indice «comunismo». In tale logica, la cosiddetta egemonia della sinistra, in combutta con i «poteri forti» del capitalismo, fingerebbe di fare gli interessi della collettività, mentre invece coltiva quelli suoi propri, di aborrita élite. La destra post-costituzionale, ancora una volta si presenta come risposta dal basso quando, invece, è reazione dall’alto, dei possidenti contro coloro che nulla hanno se non la loro stessa volontà.
Élite: chi ambisce a occupare il potere politico senza fare parte, dalla sua origine, delle classi dirigenti (come invece nel caso di Mario Draghi), dirà sempre di volere compiere una «rivoluzione» contro queste ultime. Si tratta, nel qual caso, della cosiddetta «borghesia», che Mussolini diceva di aborrire. Il fascismo storico ne fu peraltro, nei fatti concreti , un cane da guardia, nella rigida catena degli interessi del capitalismo italiano del tempo. La destra post-costituzionale, a sua volta, è oggi incaricata di rendere accettabili, per gli italiani (e non solo) le derive di un’economia basata sul ritorno della diseguaglianza e delle ingiustizie. Avviso ai naviganti: mai farsi illudere dal quel canto delle sirene («Odissea») che, nel mentre seduce gli astanti, nei fatti li conduce verso la deriva e poi il naufragio.
Etnia/razza: il primo termine è oggi sostitutivo del secondo, posto che quest’ultimo, dopo lo sterminio degli ebrei (la Shoah) e i crimini compiuti nel Novecento in nome della primazia razziale di un gruppo etno-nazionale su un altro, è divenuto impronunciabile. Almeno nei salotti buoni. Rimane tuttavia la sovrapponibilità delle due parole. Etnia indica quindi un’appartenenza di gruppo, del tutto immodificabile nel tempo, in ragione della quale gli individui pensano, si comportano e si relazionano al resto del mondo secondo parametri rigidi e preordinati, che gli derivano dall’essere parte di una determinata entità nazionale, sociale, culturale, religiosa o cos’altro. In altre parole ancora, l’individuo come tale, non ha nessuna dignità nella sua esclusiva persona. Conta solo l’etnia (razza) alla quale appartiene, che ne determina non solo condotte ma ancora la maggiore o la minore reputazione agli occhi di chi si intende come appartenente ad una etnia (razza) superiore. I conti, per così dire, tornano. Anzi, ritornano: il passato si ripresenta sotto nuove spoglie. Ma è sempre lo stesso, quello razzista.
Europa «nazione»: a tutt’oggi, è la suggestione più forte nella destra post-costituzionale. Non solo in Italia. Anche se, come tale, è destinata a non tradursi in altro che non sia un propellente ideologico per le sole fantasie dell’estremismo radicale. Nasce con la persona di Jean-François Thiriart (1922-1992), già militante socialista passato poi al campo filo-nazista, propugnatore di un’Europa unita sotto la bandiera rosso-bruna (il cosiddetto «socialismo nazionale)», che avrebbe dovuto coniugare le identità dei singoli popoli ad un progetto politico antidemocratico, basato sull’autoritarismo a base continentale. Una sorta di federazione di nuove aristocrazie così come di plebei di sempre, nel nome della cosiddetta «civiltà cristiana» (e ariana).
Famiglia (naturale): quella che deriverebbe dall’incontro tra uomo e la donna, in funzione elusivamente procreativa. Serve soprattutto per definire come «perversioni contro la natura» tutte quelle unioni che sfuggano ad una tale impostazione. Poiché la normalità non è mai definita in termini positivi (siamo/vogliamo essere) bensì in maniera rigorosamente negativa (non siamo/non vogliamo diventare). Ciò che non è famiglia naturale è indice di una devianza che, dalla dimensione individuale, come una sorta di contagio, si trasferirebbe in tutta la società. Non a caso, infatti, la destra post-costituzionale è contro i diritti civili, quelli legati all’identità personale (a partire dal genere).
Famiglia (ovvero, «tenere famiglia»): per comprendere il sistema di potere che Fratelli d’Italia sta cercando di consolidare, è sempre buona cosa ricostruire la linea delle parentele, le ramificazioni territoriali, gli insediamenti metropolitani. Al netto dei voti raccolti nel tempo, l’attuale classe dirigente post-fascista nasce essenzialmente dal Movimento sociale italiano. Non da tutto, per capirci, bensì da quello di estrazione romana. Si incontra poi con altre frange locali e componenti regionali, come nel caso del Piemonte, del Veneto, della Lombardia e così via. La vera lealtà richiesta è, per molti aspetti, quella di una lunga appartenenza. Magari suggellata da matrimoni e legami parentali. Si tratta, per molti aspetti, di una nuova feudalizzazione della politica medesima, dove il controllo del potere di decisione sul territorio è, sempre più spesso, legato all’essere in qualche modo legati o aggregati ad un qualche nucleo di sodali, meglio se tra di loro vincolati da una reciprocità parentale. Tutto ciò si era già originato nel momento in cui la destra radicale, eversiva e anti-costituzionale, dagli anni Ottanta in poi, aveva vissuto una crisi profonda, in ciò surclassata temporaneamente dalla Lega Nord di Umberto Bossi e da Forza Italia di Silvio Berlusconi. Oggi, posto che in politica nulla è mai detto per sempre, lo scenario è completamente diverso: il gruppo dirigente che si raccoglie intorno a Giorgia Meloni è anche il prodotto di questa strategia di rivalsa familistica. La qual cosa, a non pochi italiani, per nulla dispiace.
Foibe ed esodo (Giorno del Ricordo): da evento in sé tragico, che segna anche la sconfitta dell’Italia fascista e nazionalista nella Seconda guerra mondiale, con l’esodo di un grande numero di connazionali dinanzi all’affermarsi del potere titoista, è diventato per non pochi (com’era facilmente prevedibile), un esercizio di rivalsa. Ossia, una sorta di strumento non per fare storia ma per cercare di controbilanciare le nefandezze nazifasciste ricorrendo al più generale tema dei crimini del comunismo.
Froci (come anche finocchi, pervertiti, sodomiti e così via): a parole, i molti si dichiarano disponibili verso i diritti civili, ovvero di identità individuale (civile, religiosa, di genere, di cultura e così via). Basta che non «disturbino» la morale dominante. Nei fatti, invece, sono completamente avversi ad essi in quanto indice di “perversione”, quindi di atti “contro la natura”. Il fascismo storico, così come la destra post-costituzionale, nel dichiararsi a favore della famiglia naturale, fa una scelta precisa, sul piano civile, affermando che esiste un solo modo di vivere quelle relazioni interpersonali che implicano lo scambio fisico tra le persone: ovvero, quello che si basa su un unico modello, fondato sulla procreazione e sul dominio di un elemento, quello maschile, sull’altro.
Giorgia Meloni (icona): di sé, ossia della sua immagine pubblica, ha scritto e detto lei stessa tutto quello che si poteva affermare con il best-seller «Io sono Giorgia», campione di vendite per diversi mesi nelle classifiche dei libri italiani. Molti si sono interrogati sulle ragioni del suo successo, altrimenti imprevisto. Va da sé che sia sta abile, insieme allo stato maggiore di Fratelli d’Italia (e in particolare a Guido Crosetto e Ignazio Benito La Russa) nel coprire un vuoto che si era determinato nel conservatorismo italiano. Non di meno, potendo beneficiare della crisi di un po’ tutti i partiti italiani, dopo il governo di Mario Draghi, è riuscita nell’operazione di accreditare una formazione politica minoritaria come il soggetto al quale accordare credito da parte di una significativa parte di elettori sfiduciati dal resto delle liste elettorali, coalizzando la destra intorno a sé.
«Giornalai» (in quanto giornalisti): espressione dispregiativa, usata perlopiù a destra, per definire coloro che non intendano adeguarsi ad un tipo di informazione di regime, fatta non solo di veline («comunicazione ufficiale o ufficiosa inviata da fonte governativa alla stampa perché venga pubblicata o serva di orientamento nei commenti, o anche solo a scopo d’informazione») ma di ricerca del plauso e della compiacenza dell’opinione pubblica, ovviamente condizionata nelle sue reazioni collettive dal potere politico e dalla sua informazione. I giornalisti, se asserviti passivamente alle maggioranze politiche dominati, a partire da quelle di destra, sono «intellettuali» e professionisti di vaglia. Naturalmente incompresi, nel loro desiderio di spezzare «l’egemonia culturale della sinistra». Altrimenti, per l’appunto, costituiscono un gruppo di «giornalai», da deridere. Non è un caso se la destra post-costituzionale, al pari del vecchio fascismo storico, presentandosi come colei che potrà spazzare via il cosiddetto «regime» (democratico), in sé corrotto e degenerato per sua stessa natura, da subito si sia attivamente impegnata nel monopolizzare i mezzi di informazione. Attraverso i quali si racconta la realtà (e si costruiscono le opinioni collettive, quindi le tendenze di voto). Su questa falsariga, è maestro Silvio Berlusconi.
Gramsci, Antonio: probabilmente, il pensatore comunista e di «sinistra» maggiormente saccheggiato dalle tante destre post-costituzionali. In Italia non meno di Pierpaolo Paolini. Si tratta, nel qual caso, di usarne singole affermazioni, del tutto decontestualizzate da quanto il suo autore – invece – andava riflettendo, esprimendo, costruendo, ovvero comunicando, soprattutto nel mentre era trattenuto nelle galere fasciste. Ad esempio, come nel caso dell’«egemonia culturale», quell’espressione che indica la capacità delle classi dominati di assoggettare a sé quelle dominate, attraverso un processo di omologazione culturale e di uniformazione dell’opinione che nasconde del tutto la subalternità degli schiavi ai loro padroni. Una parte della destra radicale è sempre stata affascinata dalle capacità dialettiche di Gramsci. Come tale, al pari di ciò che fece Mussolini tra il 1914 e il 1922 con le parole d’ordine del socialismo italiano, si adopera per carpirne, piegandone a proprio beneficio, le grandi intuizioni. La cosiddetta «Nuova destra», che nasce alla fine degli anni Settanta, cerca di fare proprio tutto ciò: usare le analisi del socialismo per rigenerare le ragioni del nazionalismo. Una sorta di vera e propria manomissione ideologica, i cui effetti durano a tutt’oggi. Più che mai.
«Grande sostituzione» (teoria della): le migrazioni in corso a livello mondiale sarebbero parte di un piano, voluto e messo in atto dalle élite tecnocratiche, per sostituire, alle popolazioni bianche autoctone dei paesi occidentali, quelle di colore, e meticcie, provenienti delle nazioni più povere (così lo scrittore francese Renaud Camus, nel 2010 con «Le Grand Remplacement»). Questa formulazione, in sé delirante, è tuttavia in grande voga tra le destre sovraniste e populiste. Un po’ ovunque. Permette ad esse di spiegare fenomeni altrimenti complessi (come i flussi migratori e i processi di impoverimento di una parte dei ceti medi nei paesi a sviluppo avanzato) in base all’idea di un complotto organizzato dai cosiddetti «poteri forti».
Garbatella: non più solo una zona urbanistica che costituisce parte di Roma «città capitale» bensì una sorta di mitologia alla quale Giorgia Meloni si rifà non solo per descriversi ma soprattutto per accreditare la sua vocazione popolare. Si tratta, nel qual caso, di un’abile manipolazione, quella che afferma – da sempre – che l’autenticità di un politico la si debba misurare con il suo grado di vicinanza (o di distanza) della vita quotidiana di qualsiasi cittadino. Sembra in sé una cosa ovvia mentre, invece, è solo il prodotto di una finzione. Il populismo si nutre peraltro di questo immaginario. Capire tutto ciò non è facile. Ma necessario. Meloni ha vinto anche perché si è presentata come colei che coalizza le forze politiche opposte alla tecnocrazie delle élite ricche e possidenti, come tali slegate dalle passioni e dalle sofferenze dei territori. La Garbatella – quindi – è, al medesimo tempo, parte del centro di Roma in quanto metropoli così come fulcro di un’anima popolare più immaginata che reale. Sul piano elettorale, tutto ciò rende tuttavia molto.
Guerra civile: storicamente si tratta di uno scontro armato, di ampie proporzioni e di lunga durata, nel quale le parti belligeranti sono principalmente costituite da persone appartenenti alla stessa popolazione. Come tali, essendo due componenti dello medesima unità statale, è destinata a rinfocolare i rancori, quand’anche le violenze fisiche si siano concluse. La lotta di Liberazione, chiamando in causa anche italiani divisi in fazioni contrapposte, ha assunto, in alcuni suoi aspetti, il connotato di guerra civile, insieme all’essere un conflitto per la liberazione del territorio nazionale dalla presenza degli occupanti e al costituire un prodromo di guerra sociale contro le diseguaglianze e le ingiustizie. Nel percorsi di pacificazione e di parificazione tra milizie neofasciste e partigianato, la destra post-costituzionale intende non solo omologare l’una parte (i liberatori) all’altra (gli usurpatori) ma anche dichiarare che il vero patriottismo riposava nei secondi, piuttosto che nei primi. È un terreno scivoloso sul quale tuttavia da almeno trent’anni neofascisti e post-fascisti si sono incamminati, confidando di raggiungere, prima o poi, l’obiettivo che si sono prefissi, attraverso la delegittimazione della Resistenza.
Identità: è intesa come una sorta di condizione astorica, un’essenza che travalica le collettività, per fingersi come qualcosa di eterno, immobile, assoluto. Per la destra reazionaria non esistono gli individui, che mutano nel tempo, e neanche le società che si trasformano, ma delle essenze metastoriche, dei modi di essere che non cambiano mai. II termine identità, nel qual caso, è pericolosamente vicino alle parole etnia/razza. Mentre invece, nei fatti, «l’identità, individuale o collettiva, è sempre relativa all’altro, ossia relazionale. L’identità è il prodotto di un’incessante negoziazione. Lo sappiamo tutti per esperienza diretta: cambiamo, evolviamo ed eventualmente ci arricchiamo al contatto con gli altri. Donde la preoccupazione, comune a tutte le culture del mondo, di inquadrare ritualmente, nella misura del possibile, le occasioni più esplicite di contatto tra gli uni e gli altri. L’identità bell’e pronta, stereotipata, è già la solitudine; viceversa, meno sono solo, più esisto» (Marc Augé).
Illiberali: coloro che non pensano che la libertà degli individui, nella nostra età, riposi nell’unicità e insostituibilità di ognuno di essi, semmai credendo che valgano le masse uniformi, quelle composte da umani che si spogliano della loro coscienza personale per piegarsi alla volontà di una qualche democratura.
La Russa, Ignazio Benito: per capire la sua essenza di politico, capace – nel tempo – di costruire una sua personale continuità, anche dinanzi alle non poche svolte della sua area di appartenenza, è sufficiente rivedersi i primi fotogrammi del film di Marco Bellocchio «Sbatti il mostro in prima pagina» (1972), dove compare, in una sorta di apparizione di pochi secondi (una trentina per l’esattezza) come una sorta di espressione della preveggenza allucinata di chi confidava, già allora, nel crollo dell’arco costituzionale. Il rimando all’anti-antifascismo («battere il comunismo, i nemici dell’Italia»), che La Russa fa proprio, è il suggello di un’ideologia di lungo periodo, che oggi trova una qualche sua concreta realizzazione.
Libertà e Liberazione: nella storia italiana, nonché dei popoli del mondo, non sono due condizioni contrapposte. Tuttavia, non si equivalgono sempre e comunque. La libertà è un insieme di circostanze per le quali un individuo, così come un’intera collettività, sono messi nelle condizioni di potere decidere di sé stessi in piena coscienza e con le necessarie risorse per dare corso ad un progetto di vita. La Liberazione, invece, è l’atto di rompere le catene collettivamente. Partendo da una situazione di totale sudditanza ai propri “padroni”. Non è allora solo un fatto materiale ma anche un atto simbolico: rifiutare l’obbedienza cieca, prona e china. Se la destra parla di sostituire alla Liberazione il concetto di libertà, allora c’è di che sospettare l’imbroglio. Poiché è destra post-costituzionale ciò che nega l’autonomia degli individui così come delle società, in quanto avversa l’eguaglianza e la giustizia sociale. Posto che da ciò ne ricava grandi benefici per i propri sodali.
Neofascismo: si tratta di riconoscersi in esso, soprattutto nella sua identità sviluppata negli anni Ottanta, quella dell’ultimo Almirante, rivendicandone tra i propri omologhi la solida radice, per poi fingersi invece indignati quando le critiche, al riguardo, debbano esprimersi apertamente. Soprattutto da parte della pubblica opinione. È un gioco della parti. Un po’ come dire: «non permettetevi di dire che siamo ciò, che in fondo, per davvero noi siamo!». Fa riflettere il fatto che il fascista di sempre, dinanzi all’opposizione nei confronti della sua identità, invochi come protezione per sé stesso quelle stesse regole che, qualora fosse al potere, cancellerebbe da subito.
Pacificazione: «è tempo di finirla con le vecchie divisioni, con le lacerazioni che hanno attraversato l’Italia nel Novecento!», a volere dire che fascismo e antifascismo, destra e sinistra non avrebbero più ragione di esistere dal momento che la “riconciliazione nazionale”, l’unione tra parti precedentemente in lotta, è in via di compimento. Queste argomentazioni sono le medesime di quelle adottate da Mussolini, a partire dalla Grande guerra, e poi ripetute dai fascismi europei, per reprimere ogni forme di opposizione e dissenso. In genere si parla di pacificazione quando ci si è già adoperati per la cosiddetta parificazione.
Orbán, Victor: nell’intera Europa dei giorni nostri, costituisce il modello di «democratura» alla quale guardare, con fiducia, per parte oligarchica. Poiché la sua Ungheria prefigura il genere di assetti non solo politici ma anche istituzionali che potrebbero sostituirsi al declino delle democrazie costituzionali, democratiche, sociali, liberali e antifasciste. Orbán arriva non solo dopo il 1989 (crollo del muro di Berlino) ma anche, e soprattutto, dopo il 1945 (sconfitta del nazifascismo). La conclusione di quell’arco di tempo che dalla conclusione della Seconda guerra mondiale arriva alla fine degli anni Ottanta, è il passaggio storico sul quale misurare la progressiva ripresa di vigore della destra post-costituzionale, in Italia, in Europa come in altre parti del mondo.
Parificazione: è la concreta attuazione del principio della «par condicio», quello per cui nulla vale da sé ma, piuttosto, subentra un obbligo di rappresentanza e omologazione tra idee contrapposte. A prescindere dal loro concreto contenuto e dalle loro manifestazioni storiche. Come se tutto si equivalesse, trattandosi di un presunto diritto alla libera espressione, che mette sullo stesso piano l’accettabile con l’inaccettabile, il corretto con l’errato, il giusto con ciò che è palesemente falso o inattendibile. In politica, è la porta attraverso la quale rendere tollerabile ciò che altrimenti non dovrebbe avere nessuna cittadinanza nel discorso pubblico.
«Patrioti»: da usare rigorosamente al plurale, al posto della parola «camerati», che si continua tuttavia ad adottare, in sedi appartate per coloro che sono, e si riconoscono reciprocamente, come da sempre fascisti. Anche in questo caso, si tratta di rubare un termine alla controporte politica, piegandolo a fini nazionalisti. Si riconoscevano infatti come patrioti i partigiani, in Italia come in Europa. Patrioti della libertà, non di un qualche lembo di terra. Volevano restaurare l’indipendenza nazionale. Il fascismo di sempre è invece l’illusione di fingersi liberi quando, invece, si è schiavi delle menzogne (e del bisogno di nutrirle).
Popolo (e populismo): bisogna «guardare al populismo della destra radicale come [ad] un Giano bifronte, che da un lato si alimenta degli effetti distruttivi prodotti dal neoliberismo in campo sia economico, sia sociale e politico, ma insieme ne perpetua la logica essenziale, spingendo sull’individualismo competitivo, sul mantra dell’efficienza, e spesso su politiche a vantaggio dei più ricchi; dall’altro fa appello ai valori familiari, al nativismo, alla religione, alle politiche di law and order, per rafforzare le gerarchie sociali» (Giorgia Serughetti).
Predappio: un luogo, una mitologia, una rappresentazione perpetua. In rigorosa camicia nera. Spesso la partecipazione di militanti (e pubblico) alle ricorrenze ufficiali (soprattutto tre: il 29 luglio, giorno di nascita di Benito Mussolini; il 28 aprile, al momento della sua morte; il 28 ottobre, data “ufficiale” della marcia su Roma) è occasione di manifestazioni, più o meno scomposte, per nostalgici e apologeti, anziani e giovani. Non c’è nulla di cui sorprendersi: scoprire che i fascisti esistano, è come sconcertarsi del fatto che ci siano persone che vanno ai rave party.
Prima repubblica: espressione giornalistica invalsa nell’uso comune per definire l’arco di tempo che va dal 1946 – nascita della Repubblica come forma istituzionale dell’Italia – al 1994, con la definitiva conclusione della presenza dei partiti politici storici, quelli che avevano dato corso, a vario titolo, al patto costituzionale del 1946-1948. In genere, quando si usa questa espressione, più che rifarsi a un arco cronologico in quanto tale si intende richiamarne gli aspetti più discutibili: il consociativismo tra forze politiche altrimenti contrapposte; la «partitocrazia» (ossia il governo per il tramite dei soli partiti e per i loro interessi); la «democrazia bloccata» (non solo il mancato ingresso del Partito comunista italiano nel governo ma anche la sovrapposizione tra istituzioni pubbliche e i calcoli di interesse delle segreterie politiche); la rigidità dell’intero sistema di rappresentanza, al limite del corporativismo dettato da precisi e inossidabili gruppi di pressione. Di tutto ciò il Movimento sociale italiano, nel momento del declino della cosiddetta Prima repubblica, ne trasse vantaggio, in quanto forza antisistema, avversa alla Costituzione così come al regime democratico, benché da sempre operante in essi. L’operazione politica era chiara: dichiararsi estranei ai giochi di potere, fino ad allora intercorsi; denunciare l’intero sistema politico-istituzionale come corrotto; presentarsi come un’alternativa alla decadenza in atto. Silvio Berlusconi comprese il potenziale offerto da un tale stato di cose, federando elettoralmente tutte le forze conservatrici (1993-1994) e da allora vincendo molti successivi passaggi alle urne.
Rai, comunicazione pubblica: il vero campo da occupare, una volta per sempre. Poiché la destra post-costituzionale ha ben presente quanto la politica, ad oggi, in sé conti molto poco se non sia sostenuta da un costante pressione alimentata dalla comunicazione pubblica.
Ramelli, Sergio: militante milanese del Fronte della gioventù, l’organizzazione giovanile missina, morì a causa degli effetti di una barbara aggressione compiuta ai suo danni il 13 marzo 1975. Ad oggi il suo ricordo rimane un elemento fondamentale del martirologio neofascista, laddove il ricordo dei suoi aderenti deceduti in ragione del terrorismo e della lotta politica è parte di un più generale culto della milizia come sacrificio di sé.
Rauti, Pino: ovvero, ciò che la destra radicale italiana, dal 1945 in poi, avrebbe voluto essere, senza invece riuscire a divenirlo nei fatti. Pino Rauti ha sempre vellicato le passioni “pseudo-rivoluzionarie” che, dalla Grande guerra (1915-1918) in poi, sono riuscite a coabitare nel fascismo e, quindi, nelle sue molteplici espressioni. Anche quand’era regime. Per non parlare del poi. In quanto ha cercato di mettere insieme reazione a modernizzazione, eversione a gerarchia, velleità rivoluzionarie a una visione aristocratica della società. A modo suo, è stato un autentico interprete del «fascismo di sempre», quello che non si esaurisce con l’ascesa al governo dei suoi maggiori esponenti (Mussolini a suo tempo e adesso, benché in tutt’altre circostanze, la stessa Giorgia Meloni), cercando semmai un risposta alla domanda su cosa sia il potere dal punto di vista della destra illiberale e antidemocratica. Anche per una tale ragione, Pino Rauti, ben più di tanti altri nomi, ha rappresentato la vera anima profonda, quella più nera, destinata a trasformare l’ideologia fascista in una sorta di canone ideologico persistente, un’ombra della stessa Repubblica italiana.
Repubblica sociale italiana: la vera esperienza di radice neofascista (poiché sopravvenuta dopo la caduta del regime mussoliniano, il 25 luglio del 1943) alla quale ispirarsi a tutt’oggi. Nell’immaginario del radicalismo di destra, infatti, la RSI fu un esperimento che coniugava la sua natura di «movimento» – il ritorno al fascismo primigenio, quello della violenza deliberata, non incanalata dentro l’alveo delle istituzioni – all’alleanza (in realtà una sudditanza integrale) con la Germania nazista, razzista e criminale. Tutto ciò non può essere liquidato con un solo diniego. Poiché il fascismo di sempre attrae non tanto per la sua posticcia “ideologia”, fatta di asserzioni prive di riscontri, quanto per il suo appello alla miscela tra violenza di gruppo, sopraffazione, nichilismo e antipluralismo. La RSI, per molti aspetti, nella sua breve esistenza (seicento giorni circa), raccolse tutto ciò e lo consegnò ai posteri. Fino ad arrivare ad oggi.
Rogo di Primavalle (Fratelli Mattei): attentato terroristico, compiuto il 16 aprile 1973, nel corso del quale persero la vita due fratelli, Virgilio (22 anni) e Stefano (8 anni) Mattei, figli del segretario della sezione del Msi del quartiere romano di Primavalle. Come nel caso della successiva morte di Sergio Ramelli, l’uccisione dei fratelli Mattei costituisce a tutt’oggi una tappa fondamentale della memoria neofascista in età repubblicana.
«Rossi»: gli antifascisti, così come tutti coloro che si oppongono al fascismo in quanto tale. Al pari dell’uso in chiave denigratoria della parola «giudei» (sinonimo di gente malfida, usurai, truffatori se non addirittura assassini), l’espressione «rossi», a destra, demanda non tanto a un’ideologia specifica quanto ad una sorta di condizione esistenziale, contraddistinta dall’essere connotata ciò che gli anticomunisti invece rifiutano a priori: cosmopolitismo, internazionalismo, materialismo, collettivismo, la condizione dei «senza patria» e altro ancora.
Rosso-bruni: ovvero, coloro che, derivando perlopiù da posizioni social-comuniste, le ibridano con il nazionalismo più esasperato. La lotta di classe si scioglie nella «nazione» (composta non da omologhi sul versante degli interessi materiali bensì da soggetti che ritengono di nutrire un comune legame in base ad una medesima appartenenza etnica). Il rosso-brunismo è, da sempre, la risposta di una parte della destra illiberale e antidemocratica all’internazionalismo. Era così nel Novecento industriale. È del pari, nell’età che stiamo vivendo. Ammantando il tutto di parole sulfuree, di rimandi a improbabili visioni geopolitiche, ad un inesistente solidarietà interclassista tra produttori e sfruttatori e così via.
Rolex: ovvero, la «sinistra con il Rolex», immagine di uso comune che viene adottata per stravolgere il senso delle cose. Lo si fa imputando a quanti intendano difendere gli interessi – e i diritti – collettivi, un’inconfessabile appartenenza esistenziale, oltre che economica, ad una sorta di congregazione (una massoneria?) d’interessi che, nel mentre parla di giustizia sociale, promuoverebbe invece se stessa, ossia la sua natura corporativa. Quindi, di piccolo gruppo di pressione. In altre parole, riparandosi dietro l’ombrello della società e dei suoi bisogni, la sinistra che indosserebbe l’orologio dei ricchi cercherebbe di trarre un improprio vantaggio materiale e politico per se stessa. A ciò, la destra populista e post-costituzionale finge di opporsi, rivendicando per sé, non tanto la tutela degli interessi delle classi abbienti (come di fatto fecero i liberali dalla nascita del suffragio universale maschile in poi), bensì quelli dei subalterni, ovvero di quanti un tempo sarebbero stati definiti come parte del «proletariato». Un bel capovolgimento dei ruoli. Che però funziona solo nella finzione dell’immaginario politico. Poiché buona parte della sinistra, nel mentre, si è dissolta, tramontando insieme a quel capitalismo industriale che l’aveva prodotta come sua contestazione di massa. Nello stesso tempo in cui, nel campo della politica, la rappresentanza del disagio è stata invece fatta propria dai populisti, dai sovranisti, da quanti fingono di potere tradurre la domanda di integrazione sociale (la cittadinanza costituzionale) in rivendicazione etnica di natura interclassista (esistiamo in quanto stirpe nazionale, quindi come vincolo di terra e di sangue). Il rimando al Rolex, peraltro assai spasimato come simbolo di ricchezza, e alla ZTL, connota, nella polemica quotidiana della destra post-costituzionale, la denuncia della natura menzognera di ciò che resterebbe della sinistra, istituzionale e non, dedita a coltivare i propri privilegi simulando di volere tutelare l’interesse collettivo.
Sezioni del MSI: quelle che più contano, in fondo, sono le sezioni romane. È vero che – ad oggi – gli eredi del Movimento sociale italiano, in quanto tali, sono ascesi al potere. Sia pure in una coalizione che vede molte identità politiche presenti, al medesimo tempo. Tuttavia coalizzate tra di loro dalla comune estraneità al patto costituzionale del dopoguerra. Ciò che fa premio su tutto sono però i loro esponenti romani, che costituiscono una realtà a sé, la quale riesce a prescindere dal resto del partito, cresciuto velocemente in pochissimo tempo. Compongono quindi il vero centro di potere che ruota intorno a Giorgia Meloni. Altrimenti, in quanto tale, debolissima. Due cose sono importanti, al riguardo: il familismo (ovvero, l’essere parte di un circuito di sodali tali poiché affratellati da vincoli matrimoniali, relazionali nonché amicali) e il riconoscersi nel repertorio del MSI. Non dalla sua nascita in poi bensì nel calco legittimato da Almirante durante gli anni Ottanta: «non rinnegare né restaurare» (il fascismo storico è finito ma, con la scomparsa dei partiti della cosiddetta «Prima repubblica», potrebbe andare in crisi anche la Costituzione repubblicana).
Sinistra – Sinistrati – sinistrorsi (anche sinistronzi): termini d’uso pubblicistico, tra la stampa di destra, entrati poi nell’uso comune. Probabilmente, sono da considerarsi come una derivazione di «sinistroidi», già invalso nei decenni trascorsi. Si tratta, va da sé, di espressioni volutamente offensive poiché deformanti, secondo un criterio caricaturale (nella sequenza sinistra/sinistro/incidente/danno) e, al medesimo tempo, fortemente accentuato nei suoi connotati derisori (chi è di sinistra è un parassita).
Sovranismo: essere «sovrani di se stessi»: nell’età della globalizzazione, più che un sogno rischierebbe di rivelarsi un incubo. A occhi aperti. Ossia, quello che deriva dal riscontro che senza gli “altri”, ossia la stessa Europa, ogni Paese – l’Italia primo tra questi – risulterebbe spacciato dinanzi all’incapacità di fare fronte alla morsa dei (tanti) debiti.
Tradimento, traditori: è un vero e proprio girone infernale, nel caso italiano, dal 25 luglio 1943 in poi. Non esiste nessun fascismo se esso non si alimenta anche della retorica del «tradimento», ossia di coloro che, dietro le quinte, pugnalerebbero le spalle di quanti invece dicono di intendere realizzare l’interesse nazionale. Si tratta di un vero e proprio meccanismo retorico, di una sorta di macchina dell’immaginario (come tale capace di continuare ad esistere anche in assenza di qualsiasi riscontro di fatto). Tutto il neofascismo, fino al post-fascismo di oggi, si è alimentato di questa impostazione che serve, nel medesimo tempo, a denunciare la presenza di elementi che tramerebbero nell’ombra (i «nemici»), alimentando un clima di sospetto, così come a creare da subito giustificazioni di prammatica per eventuali fallimenti del proprio progetto politico.
Zecche (rosse): è uno degli appellativi più frequenti rivolti ai propri avversari politici da parte dei neofascisti. Il riferimento è ovviamente agli animaletti parassiti, che trasmettono malattie infettive. Le zecche rosse sono i «comunisti», e i loro sodali, che si nutrono del sangue dei patrioti e del popolo. Per la loro pericolosità, vanno quindi annientate senza nessuna pietà, trattandosi di infide presenze nel corpo della nazione.
ZTL: le Zone a traffico limitato, che in genere delimitano le aree urbane centrali, richiedendo, per essere varcate, il pagamento di un’imposta di transito, nell’immaginario espressivo della destra post-costituzionale costituirebbero il segno di una ricchezza che appartiene a chi vi risiede, trattandosi dei quartieri a più altro reddito. Insieme al riferimento ai comunisti con il Rolex al polso, le ZTL sono citate come riscontro del fatto che coloro che stanno a sinistra, dichiarandosi a favore della collettività, in realtà sono solo dei ricchi profittatori che nascondono i loro interessi dietro una coltre fumogena, fatta di parole e finzioni.
Claudio Vercelli, storico, Università cattolica del Sacro Cuore, Istituto di studi storici Salvemini. Tra i suoi ultimi lavori ricordiamo “Neofascismi”, Edizioni del Capricorno, Torino 2018 e “Neofascismo in grigio. La destra radicale tra l’Italia e l’Europa”, Einaudi, Torino 2021
Pubblicato venerdì 18 Agosto 2023
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/longform/dizionario-della-destra-post-costituzionale/