L’efferato omicidio di Willy spinge a una riflessione più approfondita sul tema della violenza qui ed ora. Dopo l’articolo di Giovanni Baldini “Dominare, prevaricare, combattere” e quello di Amalia Perfetti “Qui siamo tutti Willy” , siamo lieti di pubblicare questa riflessione di Carlo Greppi, storico e scrittore di una nuova generazione – ha 38 anni – che sta indagando con rinnovato spirito critico sul fascismo di ieri e di oggi e sui suoi crimini. È autore, tra gli altri, di “L’antifascismo non serve più a niente”, Laterza, 2020, “La storia ci salverà”, Utet 2020, e “La storia sei tu – 1000 anni in 20 nonni”, illustrazioni di Marco Paschetta, Rizzoli, 2019.
Si sentono ancora i flebili riverberi, nel frastuono della rete, dell’omicidio a Colleferro di Willy Monteiro Duarte, che come tutti sappiamo era un italiano di “seconda generazione” (di origine capoverdiana) massacrato, letteralmente, di botte.
Molto è fisiologicamente già sfumato, di quei giorni agghiaccianti in cui il ventre nero di questo Paese si è mostrato in tutta la sua (ricorrente) brutalità; ma alcune impressioni restano. Una su tutte è la sgradevole sensazione che ancora una volta il dibattito si sia immediatamente polarizzato tra i chi puntava il dito sulla “cultura di destra” che contraddistingueva i presunti assassini – in maniera vaga, ma indubitabile – e i sostenitori di un mantra apparentemente opposto: “è il contesto che spiega tutto”.
Siamo di fronte a manifestazioni di una sorta di nichilismo machista senza alcuna radice politica ben definibile o è ancora il tema del fascismo “eterno” che scorre nelle vene di questo Paese ed emerge in sanguinosi sprazzi, come nella furia identitaria del boia di Macerata, Luca Traini (che divenne tra gli ispiratori del killer neozelandese Brenton Tarrant nella strage suprematista di Christchurch)? Diverse inchieste recenti, come quella de L’Espresso, che a febbraio del 2020 ricostruiva una rete sotterranea su canali come Telegram, hanno provato a tracciare i confini geografici e soprattutto politici di questo decennio di stragi di “uomini bianchi armati” guidati dalle solite parole con la maiuscola (Civiltà, Patria, Tradizione, Radici) nella caccia ai loro immancabili nemici. Colpevoli, nella maggior parte dei casi, di “vestire” una pelle di diverso colore.
È innegabile, come hanno mostrato le prime ricostruzioni giornalistiche sondando il magma virtuale nel quale si scolpivano i muscoli i presunti assassini, il brodo di cultura razzista in cui sono cresciuti; uno di loro, ad esempio, scriveva a un “negraccio de merda”: “mi piacerebbe averti 10 minuti tra le mani il pezzo più grande rimarrebbe un tuo occhio”. È un magma che la politica nostrana conosce – e accarezza – fin troppo bene.
Al di là del trito copione per cui quando in Italia va in scena una tragedia non capitalizzabile dalla destra questa si sbizzarrisce nella condivisione di trascurabili dettagli del quotidiano, dribblando finché le è possibile le insistenti richieste (provenienti dalla sua sinistra) di condannare senza ritrosie il fatto, per poi esprimersi tardivamente sfornando elaborati benaltrismi, la questione che si è posta nel caso dell’ennesimo fatto di sangue degli ultimi anni è urgente, e brucia. In estrema sintesi: possiamo dire che la causa di episodi come quello di Colleferro sia l’ascesa politica di una destra impresentabile, violentissima sul piano verbale e brutalmente nativista, identitaria, razzista? L’aria che respiriamo è responsabilità di questa specifica destra (in mancanza di una significativa presenza di “moderati”) che rivaluta continuamente l’operato del fascismo storico e che è ormai erede diretta della tradizione neofascista – per filiazione: Fratelli d’Italia – oppure non ha nessun imbarazzo (la Lega nazionalista) a stringere relazioni con i due partiti dichiaratamente neofascisti che regolarmente corrono alle elezioni? Sono loro i colpevoli dell’orrore che si srotola sotto i nostri occhi?
Nel suo best-seller What is History?, mezzo secolo fa, Edward H. Carr ci ricordava che ogni discussione “ruota attorno al problema della priorità delle cause”: si riferiva alla storia, naturalmente, ma è un’osservazione che vale anche per la curvatura che assumono non pochi dibattiti sull’attualità. Che poi, per l’appunto, rimanda al passato (nel nostro caso: fascista).
Anche il grande medievista Marc Bloch, quando in Europa infuriava la seconda guerra mondiale scatenata dalla volontà di potenza dei fascismi, dedicava pagine fondamentali al tema di quel “bisogno istintivo del nostro intelletto” che è “lo stabilire rapporti di causa ed effetto”. “Quale storico militare – si chiedeva provocatoriamente – penserà di elencare tra i fattori di una vittoria la gravità, che spiega le traiettorie delle granate, o le disposizioni fisiologiche del corpo umano, senza le quali i proiettili non produrrebbero ferite mortali?”. E proseguiva: “Già gli antecedenti più particolari, ma ancora dotati di una certa stabilità, costituiscono ciò che si è convenuto di chiamare le condizioni. Il più speciale, quello che, nel fascio delle forze generatrici, rappresenta in qualche modo l’elemento differenziale, riceve di preferenza il nome di causa”. Naturalmente Bloch stesso ci ammoniva del fatto che opporre nettamente una “causa” alle “condizioni” sia arbitrario: “La superstizione della causa unica, in storia, non è molto spesso che la forma insidiosa della ricerca del responsabile: quindi, del giudizio di valore. ‘Di chi la colpa o il merito?’, dice il giudice. Lo studioso si limita a domandare ‘perché?’ e accetta che la risposta non sia semplice”. Ci può essere la “miscela esplosiva”, ci ricorda ancora Bloch, ma la scintilla è quella che “avrebbe potuto non scoccare mai”. Ed è a lei che lo storico “riserva il nome di causa”.
Ora, lasciamo che sia la giustizia a stabilire le colpe specifiche dell’omicidio di Willy Monteiro Duarte per i principali accusati, al momento trasferiti all’interno del carcere di Rebibbia perché avrebbero aggredito un altro detenuto, marocchino. Parliamo allora di “condizioni”.
Per riprendere alla lettera Bloch, non è stata certo la gravità, che spiega anche le traiettorie di pugni e calci, la causa della morte di Willy. Né le “disposizioni fisiologiche” del suo giovane corpo, senza le quali il pestaggio non avrebbe avuto un esito letale. Già, le condizioni. “Le parole sono potenti. Possono spingere le persone all’azione”, ha scritto la Corte suprema federale statunitense nel 2011 ricordando che possono “infliggere un grande dolore”, come riporta Federico Faloppa in un suo recente libro dedicato all’odio che permea le nostre società. Il linguista riprende anche The Nature of Prejudice, un saggio del sociologo Gordon Allport in cui si sosteneva (era il 1954) che “la maggior parte delle persone non sarebbe consapevole del fatto che ogni etichetta applicata a un qualche individuo si riferisce soltanto a un determinato aspetto della sua natura, e non alla totalità di essa”.
In Sono razzista, ma sto cercando di smettere, in un’altra fase di inquietante emergenza (la si chiamava “emergenza sicurezza”, naturalmente, ma a rischiare erano soprattutto i non nativi), il genetista Guido Barbujani e il giornalista Pietro Cheli davano una definizione decisamente azzeccata di “razzismo”: “Razzismo per noi vuol dire che una persona viene valutata non per quello che è (e trattata di conseguenza), ma in blocco con tutti quelli che ne condividono le origini o l’aspetto, trascurandone le caratteristiche individuali”. Credo che sia superfluo sottolineare come negli ultimi anni i due succitati partiti che rappresentano la quasi totalità della destra italiana, e che mai hanno preso veramente le distanze dal fascismo, non abbiano fatto altro che appiccicare etichette in un disegno nazionalista dai contorni nitidissimi e spaventosi. Ed è altrettanto ridondante evidenziare come probabilmente, agli occhi dei suoi assassini, Willy Monteiro Duarte non fosse altro che un “negraccio de merda”. Sono queste le cause del suo omicidio? Probabilmente no, o almeno non esclusivamente. Ma è stata e sempre sarà decisiva la crescente legittimità che i discorsi d’odio hanno saputo guadagnarsi in una metà dell’elettorato italiano e in chi, nell’altra metà, tentennava nel condannarli senza fatidici “ma” o altre ipocrite formule avversative volte a non inimicarsi troppo i seguaci della politica del risentimento.
Come mi è stato detto di recente da un collega, è tempo di smetterla di giocare a nascondino. Ci sono la delinquenza (micro solo per chi osserva a volo d’uccello, perché è macro per chi la subisce) e il crimine organizzato, ci sono sacche di marginalità dove questa cultura – che, anche se non lo sa, è di destra – prolifera: è indubbiamente vero. C’è la cultura della prevaricazione, è ovvio: “Ti ammazzo di botte”, “Sei un uomo morto” o “Ti taglio la gola” non sono forse espressioni che sentiamo regolarmente, in contesti sportivi o nella quotidianità delle liti “per futili motivi”? Ci sono le palestre, ed è vero anche questo.
È ampio e difficile da dominare il dibattito tra scienziati sociali e scienziati tout court su quanto gli sport da combattimento incanalino una violenza comunque presente (disinnescandola) e quanto, al contrario, contribuiscano a “preparare” le società umane alla ferocia e alla guerra.
L’inscindibile groviglio di natura e cultura ci riguarda tutti, e in particolare gli esemplari maschi della specie: potremmo aver praticato sport da combattimento, potremmo essere finiti in scazzottate o in risse, soprattutto da ragazzini, e potremmo essere o essere stati affascinati da film e videogiochi che a quel tipo di violenza “da strada” ammiccavano: Fight Club e Street Fighter su tutti, per la mia generazione. A questo proposito andrebbe letto Il professore sul ring. Perché gli uomini combattono e a noi piace guardarli di Jonathan Gottschall, un ricercatore americano che ha intrecciato la sua esperienza di lottatore in una palestra di “arti marziali miste” (Mma, oggi al centro del dibattito) con quella di studioso che domina il vocabolario dell’antropologia, della biologia evoluzionistica e di incalcolabili altri campi del sapere. Questo libro è una guida alla scoperta di quel groviglio (natura/cultura) che regola il rapporto tra noi e la violenza: la violenza che ci vede soli contro un altro esemplare della nostra specie, quella che ci vede soli contro molti o viceversa, e quella che sperimentiamo in gruppo, nelle innumerevoli forme di “combattimento rituale” che viviamo o cerchiamo di evitare ogni giorno, dal campo da calcio al ring, alla “strada”.
Tornando dunque alle palestre, chiediamocelo: si devono vietare tutte le situazioni in cui questa violenza può detonare? Si vietano il karate (!) e il judo (!!), si mette fuorilegge il pugilato? Certo che no, anche se la polemica sulla messa al bando degli sport violenti ha svolto la sua funzione – prevedibile, scontata – di agente distrattore di massa. Come ha dimostrato Paolo Berizzi nel suo L’educazione di un fascista (e come ha di recente ribadito qui Giovanni Baldini), però, sia il circuito ufficiale di palestre dedicate agli sport da combattimento sia il mondo sommerso che lo circonda e lo sovrasta, nell’Italia di oggi, sono popolati da migliaia di giovani e giovanissimi che si sentono incaricati di “difendere” la “loro terra” e la “loro gente”. Chiamiamoli camerati, chiamiamoli fascisti (neo-, post-, cripto-, para-), chiamiamoli come ci pare, ma dev’essere chiaro cosa sono, cosa vogliono, da dove vengono. I loro riferimenti politici? I soliti (oltre al primo fascismo, la “teppa” movimentista, e all’ultimo, quello repubblichino): FN, CP, la Lega nazionalista, Fratelli d’Italia, quella rete pulviscolare e allo stesso tempo terrificante di movimenti neofascisti e neonazisti in parziale concorrenza tra loro che fanno proseliti su Telegram e ovunque e che sono pronti ad allearsi quando serve – suppongo anche per massacrare di botte un ragazzino non ascrivibile al loro tanto sbandierato “Noi”. Il politico più apprezzato da questo pachidermico sottobosco nero, come nel caso dei presunti assassini di William, è sempre Matteo Salvini, bullo di facciata, di governo e poi di opposizione che capitalizza anche lì tutta la mascolinità tossica che ci propina da anni scatenando alla bisogna il suo “branco”.
“L’estremismo di destra insegna a sopraffare i più deboli”, ha raccontato a Berizzi il presidente della Figmma, la Federazione italiana grappling mixed martial arts, Saverio Longo, mentre “le Mma insegnano ad aiutare e a difendere i più deboli”. E questo, a quanto ne so io, vale per gran parte degli sport da combattimento – se non tutti. Dal momento che questo ambiente è stato colonizzato dalla mandria della Civiltà, della Patria, della Tradizione, delle Radici, del Padroni-A-Casa-Nostra, del Prima-Noi-E-Gli-Altri-Se-Li-Mangino-I-Pesci, qualcuno è stupito che sia scappato il morto? Non bisogna essere cresciuti “all’università della strada” per rendersi conto che un Paese che semina quotidianamente, e per anni, shitstorm e violenza verbale (contro i “diversi”, contro i deboli, contro chi è altro da te), prima o poi da quella violenza viene travolto. È così importante che questa sia l’unica causa, quando gli studiosi – e la realtà – ci hanno insegnato che le cause sono molteplici, che ci sono anche “le condizioni” sociali, politiche e discorsive, i “contesti” tanto evocati quando invece si tratta di giustificare i buchi neri del nostro passato (sì, penso a Montanelli)?
Ripetiamolo: c’è troppo spesso la periferia con tassi di disoccupazione spaventosi (ma evitiamo le “indagini sociologiche sommarie” di quel territorio), c’è un humus criminale che cannibalizza tutto quello che incontra, c’è un mondo che sicuramente molti non possono capire. Ma c’è anche un gigantesco problema culturale, una voragine di odio nella quale i politici come Salvini e Meloni parlano un linguaggio eliminazionista erede degli anfratti peggiori del Novecento.
E suvvia, poi, per ammazzare di botte un ragazzino in quattro non c’è bisogno di andare in palestra; non c’è “disposizione fisiologica” del corpo umano che possa reggere a lungo quell’onda d’urto. Basta credere di poter scatenare quella violenza lì quando ti pare, basta avere (ribadisco) un’implicita legittimazione dei tuoi riferimenti partitici e pubblici, che tu ci spenda del tempo, a far politica, o che tu sia nient’altro che un fan, un “follower”. Basta avere il “cuore nero”, come dicono loro. Anche per sommi capi, senza troppa convinzione.
Da qui dobbiamo ripartire, credo; da qui bisogna ricominciare a percorrere una salita che, oggi, sembra ancora più impervia e ripida. A scuola, per strada, nelle palestre, dove si combatte per finta e per davvero: solo con un lavoro costante di educazione alla cultura del rispetto e del dialogo si può vincere questa battaglia culturale, non invocando torture e divieti, la pena capitale o altre idiozie del genere. Il modo per essere più forti di loro è tutto da inventare, ma una cosa è certa: sarà un percorso lungo e faticoso. Perché la zona di Colleferro (e di Paliano, e di Artena), come ha scritto su questo giornale Amalia Perfetti dell’Anpi, è in “una situazione simile a tanti luoghi in Italia”, e la stessa violenza che di razzismo e fascismo si nutre “alberga in tante realtà, purtroppo”.
In molti ci siamo accorti che per ripartire servono le parole e gli sguardi di persone come Stefano S., quel barista che su Facebook l’ha scritto bene: “so che non c’entrano Gomorra, Tarantino, Romanzo Criminale, non c’entrano internet, la Trap o le arti marziali, così come ai tempi miei non c’entravano Dylan Dog, il Rap, le sale giochi. C’entrano le istituzioni, c’entrano i genitori, c’entra la scuola, la storia è sempre la stessa, ma non la studiamo mai. Il resto sono stronzate, e cercare dei colpevoli ci alleggerisce sempre. […] Siamo tutti figli di una società, ma soprattutto siamo tutti figli, e la società la facciamo noi”. Il 10 settembre 2020 Stefano S. ha raccontato, nel suo post diventato virale, la notte in cui se l’è “fatta addosso”, ed è poi tornato a scriverne (una settimana dopo) specificando che “in dieci anni di bancone” ha “certo visto ben altro che una gara di rutti”. Rispettando la sua richiesta di minor notorietà nel riprenderne le parole, non si può tuttavia non rievocare il suo spaccato di quella sera d’inizio estate in cui i presunti assassini di Willy sono stati da lui: è una lamata al cuore. Perché dà tridimensionalità a quella paura che tutti abbiamo avuto, specialmente noi esemplari maschi della specie umana, più volte nella vita. Perché è uno squarcio in cui non succede niente, se non una gara di rutti, appunto, ma che esordisce con un ingresso da branco e un “chi è che comanda qua dentro?”, con “un’atmosfera pesantissima”, “una conversazione di quelle finte che girano intorno a qualcosa”, che “sembrava un film di Tarantino”. Con il locale che si svuota, con la gente che abbassa lo sguardo, con il terrore che si guadagna ogni secondo metri quadrati e pare dilagare come il Nulla de La storia infinita. C’è una frase di Stefano S. che ha rimbalzato a lungo nei miei pensieri. “Quando fai il mio lavoro da anni, ti accorgi che su quella storia dell’abito e del monaco qualcuno ci ha ricamato sopra allegramente”.
Ecco, forse dovremo ripartire anche da qui.
Il nostro aspetto fisico e la nostra provenienza non li scegliamo, ovviamente, ma la nostra postura – il modo in cui stiamo al mondo, in cui ci raccontiamo agli altri – invece sì. Ed è forse vero che il confuso ma evidente rifarsi a una cultura neofascista dei presunti assassini di Willy non spiega l’omicidio e ne è solo una delle condizioni di partenza, ma è altrettanto certo che se continuiamo a giocare a nascondino passeremo i prossimi anni a invocare “il contesto”, “la periferia” e “la marginalità” anche quando arriveranno a menarci dei camerati fatti e finiti che, semplicemente, non hanno una croce celtica tatuata sul petto.
Pubblicato lunedì 28 Settembre 2020
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