Tre processi, lungo 43 anni. Per condannare all’ergastolo un ottantenne e un altro, ormai anziano anche lui, per l’assassinio di 8 persone, donne e uomini, 5 insegnanti, 2 operai e un ex partigiano pensionato, e il ferimento di 102 esseri umani. Liberi definitivamente gli altri imputati: per prescrizione, per insabbiamento delle prove, per fuga. La più celebre quella di Delfo Zorzi, oggi – e da quasi mezzo secolo – signor Hagen Roi, cittadino giapponese, non estradabile per la legge di quel Paese. Nella sentenza definitiva del 10 agosto 2016, che fa seguito a quelle precedenti di assoluzione dei tanti sospetti (la parte civile – cioè i parenti delle vittime – obbligati persino a pagare le spese giudiziarie!) è scritto: “Questo è un processo emblematico dell’opera sotterranea portata avanti da quel coacervo individuabile con certezza in una parte non irrilevante degli apparati di sicurezza dello stato”. Scrive il giudice istruttore: “si tratta di un meccanismo che fa letteralmente venire i brividi, soprattutto di rabbia, in quanto è la riprova – se mai ce ne fosse bisogno – dell’esistenza e costante operatività di una rete di protezione pronta a scattare in quel momento”.
Il processo, anzi i tanti processi cui dette luogo la bomba di Brescia, sono analoghi a quelli seguiti alle altre stragi, tutti investiti da tentativi di insabbiamento, di soppressione di documenti, di fughe, di assoluzioni prive di fondamento. Voglio ricordare fra tutte quello che Fortunato Zini, impiegato ad uno sportello della Banca dell’agricoltura di Piazza Fontana a Milano – vivo solo perché quando scoppiò la bomba si era allontanato dal suo posto di lavoro per andare alla riunione della Commissione Interna di cui era presidente – ha scritto decenni dopo, quando finalmente un giudice, Salvini, ha alzato un velo sulle verità sempre occultate di quella vicenda: “questi processi sono stati il più ignobile laboratorio di impunità giudiziaria mai concepito dalla democrazia. Ora (si riferisce alle verità finalmente trovate da Salvini) si capisce perché 45 anni fa la Suprema Corte al servizio dei potenti di turno scippò il processo e o trasformò in una tortuosa parodia itinerante della giustizia, nell’indifferenza dei più”.
Scusate se rifaccio ancora una volta la storia della Strage di Brescia, quando il 28 di maggio del 1974 fu fatto esplodere un kg di tritolo contenuto in una bomba deposta in un cestino di rifiuti mentre la grande Piazza delle Logge era affollata dai tantissimi che denunciavano proprio la strategia della tensione. Che aveva già ucciso molto – 17 solo a Piazza Fontana a Milano – e tantissimi ne avrebbe uccisi dopo: a cominciare dagli 85 della stazione di Bologna. Scusate, perché proprio i compagni dell’Anpi ricordano e aiutano a ricordare. Ma ho ricapitolato quei fatti perché tantissimi sono quelli che hanno dimenticato, e ancora di più quelli che potrebbero chiederti: “Brescia? Perché, cosa accadde a Brescia?”.
La memoria non è un vizio dei vecchi che la usano per alimentare le loro nostalgie. È uno strumento decisivo, direi una forza, che possiedono gli anziani, che hanno l’obbligo di usarla. Perché chi vuole capire il presente e individuare le tendenze del domani, deve studiare archeologia, come dice un filosofo italiano, Giorgio Agamben. E dio solo sa quanto riflettere sul tempo ormai antico che ci ricorda il 28 maggio 1974 con i fatti di Brescia non sia utile in questo momento di particolare confusione che vive il mondo. Non penso solo alle bande fasciste di CasaPound e fratelli che infestano con sempre maggiore spavalderia le nostre città, ma anche agli umori torbidi che alimentano proteste manovrate, ma che potrebbero diventare pericolose.
Anche perché nel nostro Paese non siamo mai riusciti – come anche Brescia ci ricorda – a venire a capo dei tanti intrecci fra servizi segreti dello Stato italiano e terrorismo nero, così come dei legami fra Sid e Cia (Gladio, organizzazione armata clandestina, venne ufficialmente alla luce solo nel 1990, ma esisteva da decenni), ma le trame di quelle operazioni stragiste restarono impunite. E penso anche ai recenti, pericolosi tentativi di rimuovere dalla memoria la strategia della tensione o di confonderla con gli anni di piombo.
Il terrorismo rosso fu cosa drammaticamente negativa e da condannare senza alcuna esitazione; il fenomeno del brigatismo, a sua volta inquinato dalla presenza e dalle manovre dei servizi segreti, fu successivo ai ripetuti tentativi di colpi di stato, avviatisi sin dal 1964 con il golpe chiamato “Piano Solo” ideato dal generale Giovanni De Lorenzo e ripresi con più intensità nel decennio successivo prima con il tentato golpe organizzato dall’ex capo della X Mas Junio Valerio Borghese nel dicembre 1970, e poi con il golpe “bianco”, rimasto – sembra – allo stato di ipotesi “teorica” –attribuito all’ex partigiano anticomunista Edgardo Sogno e scoperto nel 1974. Nei primi anni 70 era comunque diffusa la preoccupazione che si fosse alla vigilia di un colpo di Stato. Quel pericolo, allora, lo abbiamo sconfitto perché la democrazia era forte, ed erano vivi e operanti i movimenti di lotta nati col ’68. Oggi – diciamolo con chiarezza – la nostra democrazia appare più fragile, non abbiamo più la forza che ci davano i nostri partiti popolari, decenni di ripiegamento individualista hanno creato smarrimento e passività. C’è oggi un maggior pericolo per la democrazia, magari in forme diverse dal tradizionale colpo di Stato, e per questo serve maggiore attenzione.
Nel settembre scorso al Festival del cinema di Venezia è stato presentato “Citizen Rosi”, un film diretto da Carolina Rosi, figlia di Franco, il grande regista. È un documentario con cui Carolina ripercorre le storie dei film girati da suo padre: ne emerge, purtroppo, un pezzo agghiacciante della storia italiana, quello dei tantissimi segreti che non sono mai stati svelati. Si comincia con l’eccidio di Portella della Ginestra, si passa per l’assassinio di Enrico Mattei, il coraggioso e lungimirante presidente dell’Eni. I primi nodi di un unico, recondito filo nero. Cito il film perché penso che dovremmo farlo vedere a tutti. Perché tutti sentano il dovere di farsi paladini della verità; fino a quando non sarà stata fatta interamente luce su queste vicende del passato non potremo infatti mai sentirci davvero sicuri nel presente e nel futuro.
Luciana Castellina, giornalista e scrittrice, già parlamentare
Pubblicato giovedì 28 Maggio 2020
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