75 anni fa, il 6 aprile 1945, all’Istituto salesiano Don Bosco di Genova, a Sampierdarena, si riuniscono i rappresentanti delle fabbriche e degli impianti produttivi di Genova per decidere lo sciopero pre-insurrezionale. Fingevano di andare a messa e, d’accordo coi prelati, deviavano in quella sala.
Con loro sono anche i rappresentanti dei comitati di agitazione del porto, delle compagnie di navigazione, dei ferrovieri, dei tranvieri, dei postelegrafonici, dei dipendenti comunali, dei gasisti, degli edili e degli ospedalieri.
Genova era una realtà produttiva e sociale estremamente compatta.
L’occupazione industriale superava il 45%, gli operai salariati erano quasi il 50% della popolazione, un valore superiore a Torino e Milano. I metalmeccanici sfioravano il 40%.
Una manodopera specializzata con l’orgoglio della propria professionalità e un senso di appartenenza forte: la fabbrica, dicevano “È nostra, non di chi la dirige”. Le difficoltà della guerra avevano rafforzato quel legame e la loro compattezza, formandoli anche nel modo di pensare, di sentirsi blocco sociale e di condivisione di solidarietà, modi di vita e cultura.
Durante il periodo bellico, degli oltre 50.000 lavoratori dell’industria genovese ben 32.000 erano dipendenti Ansaldo, con circa 6.000 donne occupate anche nelle officine.
Io in quell’azienda sono entrato nel luglio 1968 e ho avuto la fortuna di conoscere molti di coloro che in fabbrica hanno fatto la Resistenza, e mi ritengo fortunato per questo.
A Genova c’è un detto: “Se dici Genova dici Ansaldo, ma se dici Ansaldo dici Genova”. Più in generale per la città, quell’insieme di uomini e donne, di industria e macchinari, hanno lasciato un segno forte nel territorio, che per mentalità e culture comunitarie era anche luogo di formazione, solidarietà, modi di vita destinati a dare un’impronta forte, e hanno segnato la storia della città e non solo: ci hanno segnato nel cuore e nella mente.
Con la guerra e lo sfacelo portato dalle bombe e dalla fame, la grande fabbrica e in particolare la grande azienda e il porto, finirono per assumere un ruolo più marcato dove, pur di fronte all’apparato di controllo repressivo, circolavano idee e sentimenti collettivi.
La classe operaia appariva una massa compatta e in grado di esprimersi con la lotta.
I primi a mobilitarsi furono i lavoratori, di ogni condizione e categoria, loro che erano sempre stati tenuti lontani, ai margini, perché considerati subalterni e inferiori, pericolosi e “sovversivi”.
Sono loro che agirono per ostacolare i tedeschi, e senza danneggiare in modo irreparabile le macchine e gli impianti; quegli impianti che, alla fine della guerra avrebbero dato inizio alla ricostruzione economica del Paese: perché l’operaio sente la macchina e la fabbrica e l’impianto come una sua creatura, come una creatura di tutti, assumendo un significato politico che ha sempre inciso nell’atteggiamento dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali negli anni successivi, anche i più recenti.
Questo li portò a organizzarsi e a battersi senza lasciarsi intimorire dalla presenza minacciosa dell’apparato militare e poliziesco nazifascista.
Ecco, tornando a quella riunione all’Istituto salesiano, quanta strada si era fatta dalla nascita del primo nucleo di coordinamento, nato appena dopo l’8 settembre ’43.
Ma tutto era cominciato molto prima.
Il movimento sindacale e politico, dopo aver difeso con ogni mezzo le Camere del lavoro dai fascisti nel 1922, riesce in pochi anni a riattivarsi nelle fabbriche con i primi nuclei clandestini.
In una riunione della Cgil clandestina si decide di infiltrarsi nelle strutture dei sindacati fascisti per capire, e indirizzare, il malcontento dei lavoratori.
Ci saranno così lavoratori che diventeranno fiduciari dei sindacati fascisti, ma riusciranno a incanalare le proteste esplose spontaneamente.
Già dal ’27 ci sono nuclei clandestini nella zona industriale della città; altri più piccoli nella zona orientale di Genova, in centro e nelle riviere. Attività che hanno pagato un duro prezzo con le sentenze del Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
Nel 1932 i nuclei si espandono al Cantiere navale, all’Ansaldo Meccanico di Sampierdarena, al Cerusa di Voltri, all’Ansaldo S. Giorgio, all’Ansaldo Vittoria di Fegino e Ansaldo Elettrotecnico a Campi e Ansaldo Fossati di Sestri Ponente; sono in otto fabbriche in città, ma insieme alle infiltrazioni ci sono numerosi arresti e condanne del Tribunale speciale.
C’è sempre una voce, anche piccola o debole, che ricorda la voglia di riscatto e di libertà dei lavoratori, nonostante l’Ovra, la polizia segreta fascista.
Con la guerra di Spagna riprende più forte la protesta, aderiscono al lavoro clandestino anche ingegneri e tecnici.
Si conserva il ricordo di uno sciopero fatto all’Ansaldo Meccanico di Sampierdarena nel 1938, partito dal malcontento per i salari bassi e per i sistemi vessatori di cottimo dei calderai. Fu tutto lo stabilimento a fermarsi, compresi i fiduciari dei sindacati fascisti dentro la fabbrica. La direzione scese nel piazzale per fare riprendere il lavoro: li accolse un silenzio pericoloso. Fecero dietrofront, però dopo un po’ arrestarono l’ingegner Muratori e tre operai, due uomini e una donna. Verranno condannati dal Tribunale speciale: gli uomini a 30 anni, la donna a 16. Nello stesso anno altri 20 lavoratori delle fabbriche di Genova sono condannati per attività sindacale antifascista, e anche tra loro ci sono diverse donne.
Le condanne e le infiltrazioni rendono più sospette le comunicazioni tra i gruppi, e nel dubbio non si parla, tuttavia si crea anche un collegamento con gruppi di studenti delle scuole e in particolare con l’università, grazie a Giacomo Buranello e Walter Fillak e ai rispettivi padri che lavorano in fabbrica. Sono figure leggendarie: il primo comandante dei Gap, Medaglia d’Oro al Valor Militare, fucilato a Genova all’età di 23 anni e il secondo Medaglia d’Argento al VM, comandante di una divisione garibaldina ucciso in Piemonte che di anni ne aveva 25.
C’è un dato del Tribunale speciale su cui riflettere: in quasi 17 anni di attività, su un totale di 891 donne deferite, 487 (il 54,5%) subirono la repressione tra il 1940 e il 1943. In Liguria sono ben 112 le donne condannate. In questi numeri si può leggere un’attenzione più alta del regime negli anni di guerra verso di loro, ed emerge il rapporto speciale che c’è tra le donne e la guerra.
Il fascismo punta sulla cooperazione femminile per la tenuta del fronte interno.
Le donne sono chiamate ad avere un più marcato ruolo tradizionale, ma contemporaneamente nelle attività produttive subentrano agli uomini che sono al fronte, costruendo una diversa posizione nella famiglia e nella società. Al termine della guerra le lavoratrici saranno oltre 7 milioni: 3 milioni e mezzo nell’industria, 2 milioni in agricoltura e 1,5 nel terziario. Il 30% di tutta la popolazione attiva.
Torniamo ancora a quella riunione in oratorio del 6 aprile 1945, il condensato dell’atteggiamento dei lavoratori nella Resistenza e del concetto che li ha sempre guidati. C’è a mio avviso il senso della lotta di Liberazione a Genova, il legame stretto tra lotta armata e lotta sociale.
La relazione che tiene Carlo Venegoni è indicativa. Si decide lo sciopero pre-insurrezionale del 16 aprile, ma si parla anche del dopo, di quando tutto sarà finito, elencando le sofferenze e le difficoltà. Aggiungendo: “i particolarismi di categoria non hanno giustificazione, è importante l’unità tra operai, tecnici e impiegati. Solo l’unità di tutti i lavoratori può condurre alla vittoria. Solo dalle rovine del fascismo potranno rinascere la libertà, il lavoro e potrà essere ricostruito il Paese”.
Colpisce l’energia morale che consente di pensare alla Ricostruzione, e che deriva da una forte capacità della direzione politica espressa. Difatti sono nati, insieme ai comitati di agitazione clandestina nei luoghi di lavoro, gruppi organizzati e armati interni alle fabbriche che hanno usato ogni mezzo per difendere gli impianti dalla rapina nazifascista dei macchinari e delle materie prime.
In diversi stabilimenti, non solo ci si procurano le armi ma si autoproducono, come alla Piccola meccanica, dove si costruirono, copiandoli da uno originale, circa 200 sten (mitra inglese a canna corta) in una catena di complicità che investe tutte le figure professionali.
In diversi stabilimenti c’è un distaccamento che ha un ruolo essenziale nella difesa della fabbrica. È nato un coordinamento centrale dei comitati clandestini di stabilimento che segue, con la rete cospirativa, le produzioni distaccate fuori città, anche in Lombardia e Piemonte.
Si è praticata la teoria della “tela di Penelope”: ciò che giorno si mette nelle casse da spedire in Germania sotto la minaccia dei mitra nazifascisti, si smonta e si occulta di notte in cunicoli sotterranei, nelle fogne, eludendo la sorveglianza tedesca e le spie fasciste.
All’Ansaldo, nei vari stabilimenti, dall’armistizio alla Liberazione, si occultano quasi 2.000 tonnellate di materiale prezioso e si salvano un totale di quasi 4 miliardi di lire di allora; a cui vanno aggiunte le quantità di strumenti di misura e di apparecchi di collaudo.
Dove si costruiscono le armi non trasportabili, queste vengono sabotate e i cannoni si rendono difettosi. Lo svilupparsi dei Cln aziendali (a Genova superano i 100), e soprattutto la presenza concentrata in pochi gruppi industriali di migliaia di lavoratori aiuta l’organizzazione clandestina.
In ognuna delle fabbriche vi era un Cln aziendale ed esisteva un coordinamento centrale dei Cln: l’impegno nella lotta vedeva una presenza globale che andava dagli allievi operai della scuola fino ad esponenti della direzione, sia di azienda sia di quella centrale.
Ci sono due dati da ricordare: 1) la straordinaria continuità delle manifestazioni e degli scioperi che partono (certo nel marzo ’43 (dopo Stalingrado, pur ma deboli) e riprendono mentre dal novembre-dicembre ’43, e ancora dal gennaio, giugno e dicembre ’44, e poi quello del 16 aprile 1945, deciso al Don Bosco, che paralizzò letteralmente la città intera; 2) il prezzo altissimo pagato dai lavoratori con la persecuzione, con la deportazione.
Nei 45 giorni del governo Badoglio si formano le Commissioni interne, e ci sono in alcuni casi dove saranno composte da sole donne come alla Mira Lanza, allo Iutificio, all’Eridania, mentre nelle altre entrano per la prima volta le loro rappresentanti.
Un ragionamento a parte merita il Porto.
Col pericolo della sua distruzione, il movimento clandestino e il Cln considerò prioritaria la scelta di lavorare con ogni mezzo per salvarlo, pensando così al dopo, a quando la guerra sarebbe finita.
Nelle sue dighe erano state collocate 219 mine, più altre di minore potenza collegate fra loro con cavi subacquei; in più ce n’erano numerose, di quelle magnetiche, nelle acque del porto, ma i sabotaggi furono continui.
Anche in questo caso il ruolo dei lavoratori fu fondamentale e primario, pur sapendo di mettere a rischio se stessi e le loro famiglie. Sapevano però che il porto era importante non solo per Genova, ma per tutta l’economia nazionale.
L’operazione di “intelligence” davvero speciale è quella dell’acquisizione della pianta completa e precisa di tutte le mine collocate in porto dagli uffici della capitaneria. Un giovane operaio, Ugo De Sogu, si impadronì di una copia della mappa e la consegnò al suo unico contatto: una delle due donne componenti la segreteria del Cln, Mirella Alloisio, che per tutta la Resistenza svolse un lavoro poco conosciuto ma importantissimo per la rete informativa partigiana.
Mi sembra doveroso inoltre segnalare il ruolo svolto da parte di alcuni ingegneri del laboratorio chimico dell’Ansaldo, Andrea Croce, Lello Savoretti ed Ettore Marchini, che studiarono la composizione delle cariche esplosive per stabilire con quali sostanze chimiche si poteva intervenire per neutralizzarle. Marchini, individuato, fu fucilato.
Fin dal 9 settembre 1943 i primi nuclei di soldati sbandati avevano cominciato cominciarono a dirigersi verso l’entroterra, erano pochi e male armati e insieme a pochi civili, avviarono un lungo percorso di lotta. In quei giorni nacquero tre nuclei nel genovesato: in tutti c’erano esponenti del mondo del lavoro.
Iniziava la resistenza antitedesca dei lavoratori genovesi, mentre le autorità germaniche prima e repubblichine poi, avevano il controllo della città.
A Francesco Montan, operaio dell’Ansaldo Meccanico, a Zanotti di Ansaldo Fegino e Maffei della Siac, venne affidato il lavoro “sportivo”, cioè di organizzare la lotta armata nelle fabbriche contro i tedeschi.
Il 27 novembre ’43 lo sciopero dei lavoratori dell’Uite (oggi Amt), tiene bloccati tutti i tranvai della città.
Il 16 dicembre, la Rsi adegua i salari sotto lo slogan “Ritornare al lavoro, ritornare alle armi”: per 48 ore di lavoro settimanali prevede aumenti salariali per un minimo non inferiore a 230 lire per gli operai, 200 per i giovani dai 18 ai 20 anni e di 150 per le donne, pur se hanno qualifica simile agli uomini. Anche l’indennità di presenza pratica le stesse disparità e la protesta sale ed esplode.
Alle ore 11 del 16 dicembre ’44 i dipendenti dell’Ansaldo Artiglieria abbandonano lo stabilimento, seguiti da gran parte delle maestranze degli stabilimenti di Sampierdarena, Cornigliano, Sestri, Voltri e dalla Val Polcevera. La protesta esce dalle fabbriche investendo la stessa popolazione civile e agita tutti i quartieri operai.
Lo sciopero non poté interessare i lavoratori dei trasporti perché tedeschi e fascisti andarono a prelevare a casa molti tranvieri, per costringerli a far funzionare i tram.
Il 17 dicembre 1943, alle ore 10, gli scioperanti dell’Ansaldo tentano di interrompere la circolazione nella piazza centrale di Rivarolo, a Bolzaneto e Pontedecimo; fermano i tram, strappano i contatti elettrici della rete tranviaria. La polizia spara.
Il 18 dicembre 1943 iniziò la rappresaglia: gli operai Armando Maffei e Renato Livraghi, di 42 anni il primo e di 19 anni il secondo, il più giovane è operaio dell’Ansaldo Elettrotecnico, vengono arrestati la sera precedente, processati e condannati a morte, il 18 dicembre sono fucilati. La risposta è la dichiarazione di una giornata di lutto e di sciopero politico. E restarono chiusi i negozi e i ritrovi grazie ad un lavoro capillare delle donne. L’astensione dal lavoro fu totale per tutto il giorno 19.
L’8 gennaio 1944, alla Scuola allievi Ansaldo, che era il centro di formazione degli operai destinati ai vari stabilimenti dopo un corso pluriennale, circa duecento allievi entrarono regolarmente nelle aule e nelle officine dove si faceva pratica, ma non fecero nulla, incrociarono le braccia come gli operai nelle fabbriche. Quest’atto di protesta colpì molto anche la direzione centrale, tanto che l’ing. Rocca, amministratore delegato, ne parlò in consiglio di amministrazione, non capendo come dei ragazzi di 15 o 16 anni potessero avere idee antifasciste. Tra di loro va menzionato Luciano Melis che morirà in combattimento a Villa Bombrini il 25 aprile, alle 12.00: aveva 14 anni e 6 mesi, il più giovane dei nostri Caduti.
Il 13 gennaio ’44 lo sciopero partì dallo stabilimento Ansaldo Fossati di Sestri Ponente, dilagando nelle fabbriche di tutta quella parte di territorio, in Val Polcevera, con una rapidità che dimostrava l’efficienza dell’organizzazione clandestina. Chiedevano: aumento della razione di olio e burro; aumento delle razioni alimentari, aumento delle retribuzioni, cessazione del lavoro notturno, cessazione dell’invio di operai, tecnici e impiegati in Germania.
Il 14 in un’azione condotta dai Gap guidati da Buranello venne ucciso un ufficiale tedesco e un altro venne ferito. Ci fu la rappresaglia nazifascista. Furono condannati dal Tribunale speciale otto prigionieri politici per “attività antinazionale”, e all’alba del 15 furono fucilati al forte di S.Martino. Molti di loro erano lavoratori. Alcuni stabilimenti vennero anche minacciati di chiusura. E oltre alle fucilazioni e alle condanne vi furono deportazioni e arresti.
Lo sciopero aveva mostrato la combattività raggiunta, per una settimana si era fermata la produzione bellica. Ricordo a tutti la deportazione (quasi 50.000 lavoratori nei campi) o il lavoro coatto in Germania (nel marzo ’44 gli italiani erano 287.347, di cui 265.030 uomini e 22.307 donne).
Del 7 aprile 1944 è la strage di Pasqua col rastrellamento alla Benedicta, una zona nell’Appennino tra Genova e il basso alessandrino: in totale sono 147 i fucilati, quasi la metà sono operai e in più di 300 vengono deportati.
Il 1° maggio 1944 compaiono scritte sui muri, qua e là spuntano bandiere rosse sugli edifici degli stabilimenti, sulle case, sulle sedi dei fascisti. Una addirittura è issata sul Municipio di Sestri Ponente. Quella stessa mattina verso le dieci, al suono delle sirene, in molti stabilimenti fu sospeso il lavoro, fermando le macchine dai dieci ai venti minuti, mentre gli operai si raccoglievano in silenzio. All’Ansaldo Artiglieria una gran bandiera rossa con falce e martello fu issata su un edificio al momento del suono della sirena. All’Ansaldo Allestimento Navi un operaio, durante i 15 minuti di fermata, parlò ai compagni. Era un avvenimento significativo: la prima manifestazione operaia generale riuscita dopo il fallimento di marzo.
Il 15 maggio ’44 l’esplosione di un ordigno provoca la morte di quattro soldati tedeschi e il ferimento di altri sedici in un cinema a loro riservato. La risposta fu durissima.
Il 19 maggio sono prelevati 59 detenuti politici, vengono condotti al passo del Turchino e fucilati, i cadaveri nascosti in una fossa comune. Diciassette di loro erano stati catturati durante il rastrellamento di Pasqua.
E ancora voglio ricordare i bombardamenti diretti a colpire le zone industriali che falciano case, industrie, ma soprattutto vite umane.
Il 4 giugno è bombardata Sampierdarena, la Val Polcevera e il Ponente, con 93 morti e 130 feriti: 71 gli edifici distrutti. Il 7 giugno altri 59 morti e 15 gli edifici ridotti in macerie. In città ci sono più di 70.000 sfollati, ed esplode di nuovo la protesta.
L’8 giugno, alla sirena delle 10, circa 20.000 lavoratori scioperano chiedendo pace e libertà, la notizia fa il giro del mondo.
Il 10 giugno Basile, prefetto fascista di Genova, dirama un comunicato con cui ordina fino al 13 la chiusura degli stabilimenti che avevano scioperato, concludendo con la frase: “O con noi o contro di noi!”.
È lo stesso figuro che doveva presiedere il congresso del Msi a Genova nel giugno 1960, scatenando la rivolta della città.
Lo stesso giorno del ’44 all’Ansaldo Meccanico scatta l’arresto mirato di 63 operai da parte delle SS guidate una spia e poi il 16, in un’unica gigantesca operazione, sono quasi 1.500 i lavoratori prelevati dalla Ansaldo San Giorgio, dalla Piaggio, dalla Siac, al Cantiere navale Ansaldo.
Sono caricati su un treno piombato, riempito nei piazzali delle fabbriche, che prende la strada di Mauthausen. Le donne dei quartieri vicini alla ferrovia provano a fermarlo, ma sono malmenate. Riescono solo a raccogliere i bigliettini dove i destinati ai lager hanno scritto i loro indirizzi per avvisare le famiglie. Un ragazzo di 18 anni che era su quel treno mi è stato maestro in fabbrica.
Il 26 del mese scatta una mobilitazione straordinaria: è la “giornata della spia”, che si ripete il 28 ottobre per l’anniversario della marcia su Roma. Le brigate Sap occupano militarmente interi quartieri, dal Ponente alla Val Polcevera, e alcuni delatori pagano.
Il 1° novembre i ragazzi del Fronte della Gioventù scortano le donne ai cimiteri per deporre fiori sulle tombe dei fucilati. Il 4 si recheranno davanti ai monumenti della Prima guerra mondiale a rendere omaggio alla stella rossa con l’effige di Garibaldi.
Si arriva così, con scioperi a “macchia di leopardo”, al marzo 1945, quando una nuova ondata di scioperi investe Genova.
Il collegamento tra movimento operaio nelle fabbriche e movimento partigiano è reso concreto dalla presenza all’interno degli stabilimenti di partigiani che più di una volta tengono brevi comizi durante gli scioperi o dentro le mense. Uno di loro, Aldo Tortorella, che sarà a Genova direttore de l’Unità nei giorni dell’insurrezione e poi parlamentare del Pci, viene fatto entrare in fabbrica e tiene un comizio a circa 300 lavoratori, incitandoli alla lotta e al sabotaggio. Al Cantiere Ansaldo di Sestri un operaio parla spronando alla lotta i lavoratori riuniti alla mensa, concludendo con “Viva il Cln, a morte i nazifascisti!”. Anche qui grida di approvazione e applausi.
L’8 marzo sono distribuiti nelle fabbriche e in città oltre 20.000 volantini (molti passeranno di mano in mano con la posta interna). Si fanno più di 500 scritte sui muri, ricordando la giornata di lotta dedicata alle donne; molte operaie mostrano dal taschino della tuta e della cappa da lavoro un rametto di mimosa.
Il 13 marzo 1945 si cercò anche di blandire i lavoratori, mandando un ex comunista passato coi fascisti, Bombacci, a parlare loro, per mettere in risalto gli intenti di socialismo socialisti di Mussolini. Si è era presentato agli operai dell’Ansaldo Meccanico circondato da una trentina di poliziotti in borghese e dalle brigate nere: fu zittito dai fischi e costretto alla fuga.
Il giorno dopo, all’Ansaldo Fossati, i lavoratori, in officina o negli uffici, furono invitati ad abbandonare il posto di lavoro per sentire Bombacci, ma quasi il 90% rimase al suo posto.
Il giorno 15, proprio al Meccanico, un partigiano parlò a più di mille lavoratori riuniti alla mensa, incitandoli alla lotta. Tra l’entusiasmo generale i lavoratori condussero il partigiano all’uscita tenendolo sulle spalle.
Arriviamo al 16 aprile 1945: il piano d’azione deciso nella riunione al Don Bosco passa alla fase operativa. Alle ore 10 circa, tutte le categorie abbandonano il lavoro, la città si ferma e si mandano delegazioni alle autorità per protestare. In tutte le fabbriche il lavoro fu sospeso completamente.
Nella notte del 23 aprile parte l’insurrezione.
Al Meccanico le Sap oltre a utilizzare le armi nascoste se ne requisiscono altre ai tedeschi, sorprendendoli. Si respinge l’attacco di un camion blindato e si spara sui nidi di mitragliatrice nemici posti sui silos e al Palazzaccio, su cui spara una mitragliatrice piazzata sul tetto della caldereria dai sappisti dello stabilimento.
Il 25 mattina i tedeschi si ritirano dalla fabbrica, lo scontro armato prosegue nelle strade vicine, utilizzando nuove armi. Il bilancio è di due morti e 14 feriti tra gli insorti.
All’Allestimento Navi giacciono alcune unità leggere della Marina militare, nonostante il rabbioso crepitare delle mitraglie tedesche piazzate su un caseggiato vicino e sul promontorio della Lanterna, gruppi di sappisti dello stabilimento riuscono, tuffandosi in acqua, ad asportare da quelle unità le mitragliere da 20 mm. Con le relative munizioni, per di più, permettendo così ai partigiani di usarle e di stringere in assedio le forze nazifasciste asserragliate nella galleria sotto la Lanterna. Questa azione rese impossibile effettuare la distruzione degli impianti dello stabilimento e successivamente tagliò agli occupanti la via della ritirata, costringendoli ad arrendersi alle forze partigiane.
All’Ansaldo Fossati, la mattina del 24, si rimettono in funzione tre carri armati e si montano altre mitragliatrici per andare in aiuto degli insorti dentro il Meccanico. Viene anche approntato un treno armato, sistemando scafi di carro armato sui vagoni e blindando una locomotiva, mentre è conquistata la batteria di Multedo che poteva essere una minaccia.
Anche a Campi e a Fegino gli operai e gli impiegati, in armi, danno l’assalto a postazioni nemiche: cinque morti in un primo momento, altri due e cinque feriti nello scontro successivo coi tedeschi e i fascisti per l’occupazione del silurificio vicino agli stabilimenti. Si smina il ponte delle Ferrovie sul Polcevera e si attacca la postazione di artiglieria dell’ospedale Celesia. Dappertutto si rafforzano le squadre armate per il possesso e la sorveglianza degli impianti. Nel frattempo, si riparano e si forniscono altre armi ai partigiani. Si stringe uno stretto collegamento e coordinamento con le brigate che scendono dalle montagne e, combattendo, si riversano in città.
Numerosi furono i fattori intervenuti nell’evitare gravi distruzioni all’apparato produttivo genovese, ma non c’è dubbio che l’intervento dei lavoratori svolse un ruolo fondamentale e principale nella difesa delle attrezzature industriali e del porto, assumendo un significato politico che ha sempre inciso nell’atteggiamento dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali negli anni successivi, anche i più recenti.
Non è un caso che Genova è l’unica città in Europa dove un corpo d’armata tedesco, forte di circa 30.000 uomini, si sia arreso al presidente del Cln, l’operaio Remo Scappini. È a lui che il generale Meinhold consegna la pistola.
Le forze alleate entrarono in città il 27 aprile 1945 e la trovarono con mezzi pubblici funzionanti, con Comune e prefettura operativi grazie alle direttive del Cln cittadino.
Nelle fabbriche e in porto cominciava da subito, con fatica, la ricostruzione delle strutture e degli impianti. Sarebbe stato un lavoro lungo e difficile.
Ma è giusto ricordare il prezzo pagato in numero di morti, perché non c’è un eccidio dove non vi sia stato tributo di sangue dei lavoratori, uomini e donne. In Ansaldo ogni categoria ha pagato con la vita, dall’allievo operaio Melis all’alto dirigente Paolo Reti. In tutto, escludendo i deportati, sono stati 82.
Nella guerra di Liberazione, però, non c’è solo protagonismo maschile, al contrario emerge con forza un nuovo soggetto: le donne. E va sottolineato una volta di più il contributo delle donne. Che usano linguaggi nuovi, e si ribellano a chi vuole metterle a tacere, come ha fatto il fascismo. Le donne che entrano nell’industria prendono contatto con una forma nuova di lotta e di protesta: lo sciopero. Le operaie non solo partecipano, ma incoraggiano i lavoratori uomini in lotta.
È una scuola di vita rapida che trasforma il modo di essere e di ragionare, crea nuove coscienze. Vuol dire rifiutare di essere complici indiretti della strage, chiedere la pace. Le operaie partecipano e incoraggiano i lavoratori in lotta. Tante volte sono proprio le operaie a togliere la tensione elettrica agli impianti, mentre gli operai incrociano le braccia in officina. E queste esperienze vengono portate dalle donne nei quartieri.
Con i Gap, in un sistema organizzativo clandestino dotato di uomini coraggiosi e particolarmente dotati in grado di agire con rapidità, ma molto spesso da soli e in mezzo al nemico, è fondamentale il ruolo delle donne, che hanno funzioni di collegamento tra le diverse squadre. Sono loro che, a turno, trasportano nella borsa della spesa il tritolo o le armi necessarie all’azione, da passare al gappista, o semplicemente sono le operaie che portano dalla fabbrica al quartiere la stampa clandestina. Occultano le armi abbandonate dall’esercito che si sfalda, salvano i soldati dai primi rastrellamenti, danno loro gli abiti borghesi per andare a casa o rifugiarsi sui monti.
In seguito sono sempre loro ad accompagnare in fabbrica i lavoratori individuati dai nazifascisti nel lavoro clandestino. In montagna in diverse fanno la stessa esperienza, come “Marietta” Lina Berpi, Edera Batini, Carla Ferro; Angela Michelini e Amata Bozzano, Medaglie d’Argento al Valor Militare. Sono tante le donne che hanno dato un grande contributo alla Resistenza: operaie o impiegate che nascondono in fabbrica i disegni o strumenti delicati dalle mani dei tedeschi, come Valeria Nardini o Elsa Pucci “Sira” che, dal Cln Ansaldo, passa con la brigata d’assalto “Balilla” sino alla Liberazione. Senza la loro partecipazione diretta e numerosa, la Resistenza non sarebbe stata un fenomeno ampio e corale.
Senza le staffette non ci sarebbe stata la rete clandestina, cioè la possibilità di una organizzazione sindacale clandestina più estesa, ramificata in più aziende e categorie. Grazie alle donne, la rete della stampa clandestina è più capillare, la stessa organizzazione delle brigate partigiane si perfeziona.
A Genova una intera brigata, la “Alice Noli” (Alice era una ragazza impegnata in clandestinità, uccisa dopo torture e violenze) è composta e guidata da donne, e svolge azioni clamorose in città. Sono 180 tra operaie, lavoratrici, donne dei quartieri. La più giovane, Adele Rossi, ha 15 anni e muore in combattimento, la più anziana ne ha 72, “Nonnina”.
Sono pari agli uomini nel sacrificio che affrontano con fermezza e, oltre alla tortura e alla violenza che tutti i partigiani provano sulla loro carne, subiscono oltraggi ben più gravi, proprio perché donne. Genova e la Liguria sono un crogiolo di figure emblematiche di quella esperienza. Non hanno ancora il risalto adeguato.
Durante la guerra di Liberazione nascono degli organismi antesignani della democrazia che sarebbe nata dopo: oltre ai Gdd, e il Fronte della Gioventù, i comitati di agitazione nelle aziende; sono tutti momenti di articolazione della nuova democrazia. La partecipazione dei Gdd ai Cln è il successo di un’azione politica tesa a superare lo schema partitico dei Comitati di Liberazione Nazionale e a collegare direttamente il movimento di massa alla sua espressione politica più alta, alla “società civile”. È anche per questo taglio politico diffuso che l’insurrezione di Genova è definita modello.
Ecco perché ricordare ed essere orgogliosi della nostra storia.
Dopo il 25 aprile, i lavoratori non hanno smobilitato, anzi si sono rimboccati le maniche e da subito, prima dell’arrivo degli Alleati, hanno ripreso a far funzionare le macchine e poi hanno ricostruito il Paese.
Senza tutte queste peculiarità, il ruolo della stessa Cgil sarebbe stato diverso. non ci sarebbe stata l’esperienza del dopoguerra. In particolare è sulle vicende dei comitati di gestione che a Genova e in Liguria si sono elaborate politiche industriali e sindacali innovative, arrivando ad incidere anche sull’elaborazione del Piano del Lavoro proposto da Di Vittorio nella ricostruzione del dopoguerra.
Di Vittorio, all’Assemblea Costituente, rivolto alle vecchie classi dirigenti dice: “Voi siete delegittimati, dopo la lunga esperienza del fascismo e della guerra, ad esercitare il vostro ruolo. Voi avete abbandonato le imprese e, dei vostri diritti proprietari, se ne sono fatti carico più i lavoratori che non la vostra capacità di stare nel vostro ruolo”.
Sottolineava in quel frangente che il mondo del lavoro aveva assunto una funzione di primato morale prima ancora che politico. Esprimeva attraverso quelle parole e quegli atti compiuti, la vera espressione di quella nuova classe che avrebbe saputo elevare il mondo del lavoro da classe subalterna a classe dirigente e di governo, perché capace di esprimere non solo protesta, ma una proposta unitaria e nazionale complessiva. I lavoratori avevano imparato dalla lotta di Liberazione che bisogna pensare, progettare, per non essere progettati. Senza il loro impegno e il loro sacrificio credo che l’articolo 1 della nostra Costituzione non reciterebbe: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”. Sempre questo concetto ha accompagnato il mondo del lavoro e sempre si è partiti dal tentativo di scardinarlo per rimettere in discussione la natura della nostra Carta e la Carta stessa.
Ecco, questo dobbiamo ricordare oggi, specialmente oggi, nell’affrontare il “dopo pandemia” e come uscirne. È arrivato il momento di provare a fermarsi e a pensare a tutte le occasioni perse e al fatto che dopo, perché prima o poi arriverà “il dopo”, niente potrà essere come “il prima”, e tanto meno potremo dire “dove eravamo rimasti” e ripartire come se nulla fosse stato. Perché nessuna rinascita o ripresa economica sarà concepibile senza una giusta condizione di vita nel posto di lavoro o nella società.
Perché una società che non rispetta chi lavora e il frutto della sua fatica e della sua intelligenza è più ingiusta, più crudele, meno libera.
Garantire che il lavoro sia sicuro è la condizione primaria per restituire al lavoro dignità e per godere della libertà e utilizzarla al meglio.
A questo pensavo il 25 aprile 2020 nel deporre le corone e un fiore rosso al Sacrario del ponte monumentale. Tra i 1.863 Caduti partigiani e i 2.250 deportati nei campi c’era la storia del mondo del lavoro genovese e dell’Ansaldo in particolare.
Massimo Bisca, Comitato nazionale Anpi, presidente Comitato provinciale Genova
Pubblicato venerdì 1 Maggio 2020
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/longform/ansaldo-e-dintorni-cioe-genova/