La defatigante battaglia di Stalingrado, conosciuta dai russi come Stalingradskaja bitva, e dai tedeschi Schlacht von Stalingrad, rimane, tra i tanti fatti che hanno attraversato la Seconda guerra mondiale, un evento che ne ha nettamente segnato le sorti, sul piano politico prima ancora che su quello strettamente militare. Al di là del micidiale cozzo tra due gigantesche forze contrapposte, tra ruderi urbani e steppa, e dei ripetuti scontri d’armi, durati più di sei sfibranti mesi, circa duecento giorni, fu infatti l’episodio periodizzante che divise il prima dal poi. Il prima della conquista dell’Est europeo da parte delle forze dell’Asse; il poi delle grandi controffensive sovietiche e, con esse, del progressivo ridimensionamento e infine del crollo di quello che era stato pensato come il millenario impero coloniale hitleriano. Sarebbe nel mentre intervenuto anche lo sbarco angloamericano in Normandia, con la creazione del «secondo fronte», ma a quel punto, ossia un anno e mezzo dopo, la sconfitta a venire del nazifascismo era già scritta nei fatti.
A modo suo un’epopea, anche se tragica, costellata di drammi umani, di violenze inenarrabili, di colpi e contraccolpi, di avanzate e di indietreggiamenti, di resistenze e di fughe, di piccole tattiche e di grandi disegni strategici. Soprattutto, un confronto totalizzante dove, nel nucleo di un lungo scontro tra armate contrapposte, si lesse in controluce – da subito – che la posta in gioco non era solo l’esito di una battaglia e l’eventuale conquista (o liberazione) di una grande città, ma le più generali sorti di una guerra che i nazisti avevano tematizzato come Weltanschauungskrieg, il conflitto (mortale) tra due opposte concezioni del mondo. La durissima sconfitta tedesca, dopo una feroce resistenza dei sovietici, peraltro contrastata da un altrettanto accanito assedio germanico, fu quindi un fatto spartiacque, che apriva la strada al cedimento militare (e al tracollo politico e morale) del fascismo italiano prima e del nazionalsocialismo tedesco poi. Non è un caso, al riguardo, che se anche il corpo di spedizione mussoliniano in Russia, l’Armir, non fosse direttamente coinvolto nella battaglia, tuttavia ne subì gli immediati effetti, in quelle stesse settimane risolutive, nel gennaio del 1943, quando i sovietici, con l’«operazione piccolo Saturno», gli infersero un colpo mortale, disarticolandolo e causandone la rotta.
Riparlarne, anche nei suoi aspetti tecnici ed operativi, è quindi necessario per meglio capire il significato della storia recente. Intanto, va valutato il contesto, ossia lo scenario generale, quindi le premesse e i quadri di riferimento. Nella primavera del 1942 le armate tedesche, su impulso di Hitler – che tuttavia da tempo scontava lo scetticismo crescente di una parte del suo stato maggiore generale riguardo alla sua strategia di attacco – avevano ripreso l’offensiva verso l’Est sovietico. Già avevano dovuto mitigare la dura battuta d’arresto del novembre dell’anno precedente, quando, arrivati in prossimità di Mosca, erano stati poi ricacciati indietro di duecento chilometri. La scommessa di un cedimento morale dei russi e di una ribellione contro il dispotismo stalinista, fomentati dai nazionalismi slavi, era andata perduta. Il colpo di maglio risolutivo, nel complesso dispositivo che regolava l’invasione tedesca dell’Urss, non aveva avuto successo. La Wehrmacht era ora maggiormente indebolita rispetto al 1941, quando aveva scatenato la guerra «antibolscevica». Eppure il duce tedesco si aspettava una vittoria decisiva, con un altro colpo secco, destinato a ribaltare definitivamente la situazione a suo decisivo favore. Due gruppi di armate tedesche, insieme alle unità rumene, ungheresi ed italiane, per quasi due milioni di uomini, avrebbero dovuto assicurarsi il controllo dei bacini del Don e del Volga, puntando poi al Caucaso (che fu poi in parte invaso e occupato tra il luglio del 1943 e l’ottobre del 1943), grazie alla cui conquista ci si aspettava di mettere le mani sulle copiose risorse energetiche necessarie per il proseguimento della guerra.
Stalingrado, in un tale quadro, doveva essere annientata in quanto snodo strategico sul piano fluviale, ferroviario e produttivo. Non di meno, era la città che portava il nome del dispotico leader sovietico: assicurarsene il controllo avrebbe inferto una ferita irreparabile al prestigio del gruppo dirigente moscovita. Ci si attendeva ancora una volta che i sovietici, dinanzi alla pressione tedesca, cedessero sia sul piano militare sia morale. Alla fine del mese di giugno 1942, quindi, le truppe di Hitler operarono lo sfondamento del fronte russo meridionale. I tedeschi si muovevano velocemente verso Stalingrado nel mentre i fianchi laterali erano assicurati dai reparti italiani, rumeni e ungheresi. A metà luglio la Sesta armata germanica si stava oramai approssimando verso l’ansa del Don che era prospiciente la città. Il suo comandante, il generale Friedrich Paulus, militare di lungo corso e di indiscussa competenza, contava sullo sbandamento di una parte dei reparti avversari, sulla mancanza di mezzi e di un buon coordinamento di quelli restanti e sulla preponderanza dei suoi reparti motocorazzati. Tuttavia il suo tallone d’Achille era dettato dai seri problemi di rifornimento di carburante, un fatto che lo costringeva a rallentare selettivamente l’avanzata, perdendo tempo (e spazio) prezioso.
Se Stalingrado avesse capitolato, per Stalin si sarebbe aperto il gravissimo problema dei collegamenti con i fondamentali bacini petroliferi del Caucaso. Fermo restando che la resa di una città intitolata a lui avrebbe causato un forte contraccolpo sul già basso morale di parte delle truppe. Il Volga e il Don rappresentano a tutt’oggi la Russia più profonda, una sorta di matrice non solo geografica ma anche simbolica, nella quale si innerva una rilevante parte della storia dei popoli slavi. Ed anche delle loro conflittualità intercomunitarie, sulle quali il Cremlino aveva messo il duro coperchio della sua potestà politica. Anche per queste ragioni, con l’ordine numero 228 del 28 luglio, Mosca stabiliva di procedere ad una difesa ad oltranza del territorio, contendendolo palmo dopo palmo, investendovi quindi nuove unità da combattimento e cercando di trovare comandanti di campo adeguati al livello della sfida. Tra di essi, ben presto emersero le figure carismatiche di tre grandi strateghi, Georgij Konstantinovic Žukov, Andrej Ivanovic Erëmenko e Vasilij Ivanovič Čujkov, decisivi nelle sorti della lunga battaglia a venire.
Per tutto luglio e una parte di agosto le difese sovietiche furono bersagliate, divise, sezionate, scomposte, in parte disintegrate, dai ripetuti colpi tedeschi, assestati con metodo e precisione. Dal sud della regione stava inoltre salendo la grande unità Panzer comandata dal generale Hermann Hoth, con l’obiettivo di aiutare Paulus nell’annientamento degli avversari e nella conquista materiale di Stalingrado. Con il 21 agosto 1942 la Sesta armata tedesca si assicurava alcune teste di ponte ad est del Don e procedeva con le unità corazzate verso i sobborghi settentrionali della grande città. Due giorni dopo i tedeschi impedivano i collegamenti con il nord, cercando di isolare l’area metropolitana. Nel mentre, iniziavano i primi bombardamenti a tappeto contro la popolazione civile, perlopiù bloccata nella città, non essendo stata precedentemente evacuata.
Stalin era in difficoltà ed in apprensione anche perché Winston Churchill gli aveva da poco comunicato che nessun secondo fronte sarebbe stato aperto a breve in Europa, fatto che altrimenti gli avrebbe permesso di alleggerire il peso della morsa tedesca. Sul teatro di battaglia, intanto, i contrattacchi sovietici contro la testa di ponte germanica si rivelavano infruttuosi. L’arrivo della Quarta armata corazzata di Hoth in prossimità del Volga, che in tale modo si ricongiunse alle unità di Paulus provenienti da occidente, sembrava segnare definitivamente le sorti sovietiche. Le truppe russe erano oramai attestate in uno spazio di pochi chilometri ad ovest del fiume. In campo tedesco, si riteneva di potere chiudere la partita in una decina di giorni. I problemi, semmai, erano di ordine logistico, posta la lunghezza dei percorsi di rifornimento per i combattenti.
Il 13 settembre, il combinato disposto tra le truppe di Paulus, posizionate al centro, di Hoth al sud e del generale Hube al nord, si tradusse nel primo attacco frontale all’area urbana di Stalingrado. Da quel momento, la lunga battaglia si sarebbe trascinata in un’infinità di scontri di caseggiato in caseggiato, di palazzo in palazzo, di stanza in stanza, nel mentre l’aviazione tedesca picchiava violentemente sui difensori. La popolazione civile restante, quella non evacuata velocemente attraverso un precario sistema di esfiltrazione dalla sacca, si nascondeva tra le rovine e le cantine, cercando di sopravvivere così come gli riusciva, tra bombe, pallottole, paura, fame e sete. Il comando sovietico della città era affidato all’energico ed ostinato generale Čujkov, che aveva un compito prioritario: non fare avanzare i tedeschi quel tanto che sarebbe bastato per arrivare al tardo autunno, quando una controffensiva sovietica si sarebbe resa a quel punto possibile. Era una questione di tempo. Non a caso, il motto dei combattenti della 62ma armata, che contrastavano i tedeschi, era: «a Stalingrado il tempo è sangue».
Paulus – per parte sua – aveva messo in campo una strategia che prevedeva di raggiungere il Volga in più punti, sezionando e scomponendo il fronte russo, per poi eliminare, una ad una, le diverse sacche di resistenza. Dal punto di vista tedesco si doveva comunque procedere ad attacchi frontali, non essendo più possibile attuare manovre di aggiramento né di attraversamento sistematico del Volga. Il ricorso alle unità corazzate e all’aviazione – si pensava – avrebbe avuto ragione della decisa resistenza sovietica.
In un primo momento, le sorti arrisero agli aggressori, conquistando diversi caposaldi urbani, tra cui le due più importanti stazioni ferroviarie. Čujkov decise quindi di cercare di ridurre il vantaggio di fuoco tedesco, impiegando la fanteria in sanguinosi e spossanti combattimenti tra i caseggiati, nonché contendendo ogni centimetro possibile. Si dovevano usare i fucili di precisione, le bombe a mano e le baionette. Non a caso la battaglia si trasformò anche in un confronto tra tiratori scelti e resistenti in divisa. La tattica era al servizio del presupposto per il quale la spinta propulsiva tedesca avrebbe presto perso di forza. Paulus continuò ancora per diverse settimane ad assicurarsi vantaggi tattici (tra i quali la conquista della Piazza rossa della città), ma nell’insieme si stava sempre più spesso impantanando in una situazione dalla quale non sarebbe più uscito: a fronte del proseguimento dei combattimenti ravvicinati, le perdite tedesche andavano infatti crescendo, mentre i lievitanti attacchi sovietici ai fianchi dello schieramento del Don-Volga iniziavano a fare sentire i loro effetti. La Sesta armata continuava a chiedere rinforzi e rifornimenti, benché fosse ancora in condizioni di superiorità numerica e di mezzi, in attesa della spallata definitiva.
Mentre la 62ª armata sovietica perdeva un impressionante numero di combattenti giorno dopo giorno, i rifornimenti dalla riva orientale del Volga, attraverso i traghettamenti notturni, cercavano di arrestare l’emorragia. Ad ottobre la grande parte degli scontri si consumava oramai nei quartieri operai, quelli settentrionali, dove avevano sede le grandi fabbriche (che nel mentre cercavano ancora di proseguire qualche produzione bellica, ridotti al lumicino dalla presenza, a poche centinaia di metri, dei nemici). Il perimetro difensivo sovietico oscillava costantemente: mentre i quartieri meridionali erano in mano tedesca, quelli centrali e settentrionali potevano contare su profondità di campo variabili da qualche chilometro a poche centinaia di metri rispetto alla riva del fiume.
Le tre grandi offensive tedesche (13 settembre, 14 ottobre e 11 novembre) non furono quindi risolutive. Čujkov applicava implacabilmente la sua dottrina: combattimenti incessanti, senza nessuna tregua, continuativi, mobili, di piccole unità scomponibili e ricomponibili velocemente, sia di giorno che di notte, però con la preferenza per il buio (impedendo all’aviazione tedesca di identificare i bersagli) e in aree urbane oramai ridotte a macerie (che riducevano la mobilità dei mezzi corazzati nemici). Se si fossero creati capisaldi in singoli palazzi (le cosiddette «fortezze»), ovvero quello che di essi restava a quel punto, gli uomini avrebbero dovuto combattere fino alla fine. Non c’erano via di fuga e neanche possibilità di ritirarsi. Ai comandanti di campo era lasciata un’autonomia tattica, giocando al gatto e al topo (quella che i tedeschi chiamavano la Rattenkrieg, la «guerra dei topi»), in un vero e proprio conflitto di guerriglia. In questo quadro, mentre l’aviazione sovietica a lungo difettò, ed una parte dei civili si unì alle truppe di Čujkov, l’artiglieria pesante, posta od oriente della città, svolse il ruolo di vera e propria forza di bombardamento, cercando di colpire i reparti tedeschi e di isolarne le singole unità.
Il saliente problematico per Paulus era la zona delle grandi fabbriche, dove per la loro conquista si sarebbero dovute usare truppe esperte nei combattimenti a distanza ravvicinata. A tale riguardo, si scelse quindi di ritirare forze altrimenti disposte a difesa dei fianchi, ora affidati perlopiù alle truppe italiane, romene e ungheresi, per impiegarle nell’area metropolitana. Ricevette anche contingenti di guastatori e di truppe d’assalto, provenienti dal Mediterraneo. A metà ottobre i tedeschi raggiunsero quindi il massimo grado di controllo del terreno, contrastati disperatamente dai difensori, che potevano contare su uno spazio di manovra sempre più piccolo, frazionato, mentre le perdite crescevano.
Ciò che gli attaccanti potevano presagire ma non certo comprendere appieno è che tale tattica, ancorché estrema e dispendiosa, serviva a guadagnare tempo rispetto all’offensiva sovietica, per la quale stavano alacremente lavorando i generali Žukov, Vasilevskij ed Erëmenko. Čujkov resisteva anche perché sorretto da Stalin, che non voleva abbandonare ciò che restava della città, mentre i generali sovietici avrebbero probabilmente adottato un diverso criterio. Hitler, per parte sua, anche nel tentativo di coprire le pessime notizie che arrivavano dal Nord Africa, dove il dispositivo italo-tedesco, nel mentre stava collassando ad El Alamein, si attribuiva e celebrava una vittoria che ancora non era riuscito a garantirsi. Un fatto, quest’ultimo, che incrementava il già diffuso nervosismo presente nella Sesta armata, che stava invece iniziando a pensare con apprensione all’inverno oramai prossimo, per il quale non era in alcun modo attrezzata.
Sta di fatto che i sovietici erano comunque ridotti ad alcune teste di ponte dentro la citta mentre il formarsi del ghiaccio sul Volga stava riducendo la massa di rifornimenti e il numero dei rimpiazzi. Paulus, infine, dopo alcuni tentennamenti, si risolse per cercare di dare ai resistenti il colpo di grazia con la sua ultima offensiva, quella dell’11 novembre. Un’offensiva urbana che bruciò velocemente tutte le sue residue energie, senza raggiungere lo scopo per cui era stata pensata, quello di gettare in acqua le unità sovietiche. Il 19 novembre la 62ª armata era abbarbicata in tre teste di ponte tra di loro separate, con uno spazio massimo di difesa di non più di un chilometro e mezzo dalle rive del Volga. Si difendeva con le unghie e coni denti, letteralmente aggrappandosi al terreno, alle macerie, alle rovine.
A quel punto, però, la sorte cambiò. Ed il tutto avvenne molto repentinamente. A Paulus, infatti, arrivò la richiesta di disimpegnarsi rapidamente dalle azioni offensive in città e di convogliare le truppe mobili verso i fianchi dell’Armata. Stava infatti iniziando l’«operazione Urano», ideata dal comando generale sovietico. Si trattava di una manovra a tenaglia, di gigantesche proporzioni, il cui obiettivo immediato era quello di liberare dalla morsa tedesca la città mentre quello di più lungo periodo, ovvero prospettico, doveva consistere in un radicale cambiamento di orizzonte nella guerra ad Est: mettere i tedeschi prima sulla difensiva per poi obbligarli alla fuga, annientandone le eventuali sacche di resistenza. L’offensiva doveva essere risolutiva rispetto a Stalingrado. In altre parole, doveva bastare: non ne sarebbero seguite altre poiché molti erano i fronti sui quali i sovietici erano impegnati contemporaneamente. Nelle diverse ondate di attacchi, avrebbe quindi dovuto accerchiare la grande parte delle truppe dell’Asse tra il Don e il Volga. Era in fondo un piano prevedibile, tuttavia non ostacolato dalla caparbietà con la quale, ad inverno conclamato, i tedeschi rimanevano ancorati alle posizioni raggiunte.
La cecità strategica degli alti comandi della Wermacht e delle Forze armate si rivelò in tutta la sua disastrosa presunzione, unita ai proclami bellicosi di Hitler. Non di meno, i tedeschi stavano sottovalutando gravemente la forza offensiva sovietica così come la capacità di pianificare la risposta, metodicamente concertata tra Stalin, Vasilevskij, Žukov, Erëmenko e dal generale Nikolaj Vatutin. Grande importanza fu riposta nell’azione motocorazzata, mettendo in campo almeno 1.500 T-34, il più efficace dei carri armati sovietici. Furono costituiti, in grande segretezza, raggruppamenti a nord-ovest e a sud-ovest dell’insediamento militare della Sesta armata, puntando sui lati fragili del suo dispositivo di difesa. Vennero inoltre organizzati tre raggruppamenti d’attacco, comandati dai generali Vatutin, Rokossovskij ed Erëmenko, sotto il coordinamento del generale Vasilevskij, un abile stratega che era diventato nel mentre il principale collaboratore militare di Stalin.
L’avvio dell’operazione Urano colse di sorpresa le difese dell’Asse. La velocità, la forza d’urto, la potenza di fuoco, la determinazione, l’aggressività delle unità combattenti spiazzarono le truppe avversarie, di fatto travolgendole repentinamente. In sostanza un gruppo corazzato attaccava frontalmente i difensori, frastornandoli, mentre ai fianchi le colonne sovietiche proseguivano, superavano, accerchiavano e distruggevano ciò che restava. Si trattava del ribaltamento dei ruoli che i tedeschi avevano adottato nel 1941, subendo loro, a questo punto, l’onda d’urto. La resistenza delle truppe corazzate tedesche poté ben poco, a questo punto. Si trattava di reparti ancora in discreto grado operativo ma stanchi, usurati dai precedenti combattimenti, costretti a presidiare un territorio freddo, perlopiù stepposo, ostile.
Tra il 19 e il 23 novembre 1942 una travolgente offensiva sconvolse centinaia di chilometri. Nel primo pomeriggio del 23 novembre, l’accerchiamento della Sesta armata di Paulus e di una parte della Quarta di Hoth era quindi compiuto. Le truppe rumene, che pure combatterono con determinazione, furono a loro volta accerchiate e per buona parte distrutte. Soprattutto va considerato il fatto che Paulus, il quale rimase nella sacca così come gli fu ordinato da Hitler, non poteva più contare su riserve mobili, mentre il comando generale della Wermacht si rivelava incapace di fornire indicazioni utili.
Per Stalin era un successo strategico: quattro giorni per ribaltare lo stato delle cose, sia sul piano operativo che su quello politico, nonché immediatamente propagandistico. Quanto al resto, era solo questione di tempo. Gli assedianti (tra i 250mila e 280mila uomini) erano divenuti ora assediati, nel Kessel, il «calderone», che Hitler si precipitò a ribattezzare Festung Stalingrad («Fortezza Stalingrado»), tanto pietosa quanto menzognera definizione della condizione in cui si trovavano gli accerchiati, ossia una ventina di divisione tedesche (sei delle quali mobili), due rumene, diversi reparti minori di retrovia, addetti alla logistica, un’unità reggimentale croata e 79 italiani, quasi tutti autieri impegnati nei trasporti e colti nella sacca dall’offensiva avversaria.
A quel punto, le opzioni per i difensori erano due: ritirarsi immediatamente oppure resistere sul posto. I comandanti di campo tedesco, insieme ad una parte del stato maggiore centrale, volevano sganciarsi, presagendo la fine alla quale altrimenti sarebbero stati votati i loro uomini. Hitler fu invece irremovibile. Temeva una rotta di fuggitivi, invece che una ritirata ordinata; non concepiva l’idea di un insuccesso ed era angosciato dal pessimi ritorni di immagine; la perdita del Volga avrebbe compromesso definitivamente l’obiettivo caucasico; confidava ancora nella capacità di resistenza dentro la sacca da parte di Paulus, del quale stimava le doti di militare capace (e ligio ai superiori); intendeva costituire una forza d’urto che da occidente avrebbe spezzato la morsa russa; si illudeva di potere rifornire l’armata attraverso i due aeroporti principali di Pitomnik e di Gumrak, oltre a diverse piste minori, con un ponte aereo quotidiano.
Paulus, paralizzato dagli ordini incongrui di Berlino, organizzò quindi una difesa a cerchi concentrici, tentò di razionalizzare le risorse disponibili, rivide la logistica, razionò il vettovagliamento e il munizionamento, implorò l’aviazione di aiutarlo con il soccorso promesso. I sovietici si erano illusi di potere distruggere quasi subito i reparti accerchiati ma avevano sbagliato clamorosamente i calcoli sulle loro effettive dimensioni, reputando una forza complessiva di 80mila uomini, a fronte di quasi il quadruplo nella realtà dei fatti. Si creò inizialmente una sorta di equilibrio precario: sette armate sovietiche, comandate dal generale Rokossovskij, erano impegnate nel mantenimento del perimetro esterno della sacca; le truppe imprigionatevi continuavano comunque a combattere, confidando nell’aiuto esterno e mantenendo un fronte difensivo mobile.
A sciogliere i nodi fu lo stesso Stalin che si decise nel rafforzare il dispositivo di accerchiamento, evitando tuttavia dissanguanti combattimenti e preparandosi ad un probabile attacco nemico proveniente dall’esterno; anche da ciò derivò la decisione di procedere alla distruzione dell’Ottava armata italiana e del residuo dispositivo rumeno («operazione piccolo Saturno») così come quella di potenziare la pressione sovietica sulla parte restante dei fronti. Poste queste condizioni, i tedeschi tentarono di sfondare il muraglione sovietico con l’«operazione tempesta invernale».
Dal 12 dicembre, sotto il comando del feldmaresciallo von Manstein, una forza nutrita ma non sufficiente (in sostanza tre divisioni corazzate, sotto la direzione del generale Hoth, grande specialista della guerra mobile) si mosse per una settimana verso oriente. Il punto massimo di estensione dell’offensiva distanziava gli attaccanti dagli assediati di solo una cinquantina di chilometri. Ma il freddo, la mancanza di risorse, l’esaurimento della forza propulsiva, la solida resistenza sovietica segnarono le sorti dell’intera operazione. Avrebbe dovuto muoversi Paulus, cercando di sfondare dall’interno, con l’«operazione colpo di tuono». Hitler fermò tutto, consapevole del fatto che comunque la mancanza di carburante e l’intorpidimento degli assediati condannavano il tentativo ad un fallimento pressoché certo. Inoltre, l’inizio di una nuova operazione sovietica contro lo schieramento meridionale tedesco e in quello caucasico divenne nel volgere di pochi giorni la preoccupazione prioritaria per il comando germanico.
La Sesta armata, di fatto venne abbandonata a sé, segnata dalla sorte. Ci si impegnò semmai per cercare di mantenere in vita un nucleo di resistenza, che potesse protrarre nel tempo il compiersi del destino altrimenti ineluttabile al quale gli oramai ex invasori erano condannati. Sul piano propagandistico, si cercò di pilotare la futura sconfitta e i suoi disastrosi esiti in un esempio di determinazione e tenacia, giungendo ad esaltare il “sacrificio” delle truppe come suprema manifestazione di dedizione. La cui resa, a più riprese paventata e poi espressamente richiesta da Paulus e dai suoi diretti subordinati, non fu mai autorizzata da Hitler.
Il ripiegamento tedesco dal Caucaso, dal 30 dicembre 1942, segnò definitivamente le sorti degli assediati, oramai lasciati a se stessi, nel mentre il promesso ponte aereo, che avrebbe dovuto garantire il loro rifornimento, falliva indecorosamente, per l’evidente inferiorità e incapacità dell’aviazione militare tedesca. Dopo Natale, le cose andarono quindi progressivamente verso il loro epilogo. Mentre le truppe dell’Asse cedevano passo dopo passo su tutti i fronti, incalzate dal succedersi di operazioni offensive sovietiche, Stalin decise per la definitiva distruzione della sacca tedesca a Stalingrado. Era l’«operazione anello», affidata ai generali Rokossovskij e Voronov. La finalità impellente era quella di liberare uomini e risorse per il fronte occidentale. La medesima ragione, ma con un segno capovolto, per cui Hitler e von Manstein chiedevano a Paulus di continuare a resistere.
Gli ultimatum sovietici, dinanzi all’evidenza della situazione, erano peraltro caduti nel vuoto. Tra il 10 gennaio e il 2 febbraio 1943 si tornò ai più intensi combattimenti. I sovietici usarono l’artiglieria in grande quantità, sperimentando un metodo che avrebbero poi adottato nelle successive campagne militari. I tedeschi, ancorché oramai indeboliti, cercarono di opporre una resistenza che con il trascorrere dei giorni andava facendosi sempre più vana. Dagli aeroporti ancora nelle loro mani furono evacuati circa 30mila uomini, perlopiù feriti oppure militari considerati indispensabili in altri fronti. Tuttavia, dopo che i sovietici raggiunsero gli aerodromi, iniziarono a dissolversi i reparti ancora in armi. Chi non cedeva cercava invece di concentrarsi verso le rovine dell’area urbana di Stalingrado, dove era stata organizzata l’ultima linea di resistenza. La quale, il 26 gennaio fu divisa in due dai sovietici. Paulus venne catturato il 31 dello stesso mese, mentre le ultime unità combattenti si arresero due giorni dopo, nell’area delle grandi fabbriche.
I prigionieri risultarono essere intorno ai 90mila, un terzo degli originari accerchiati. Solo 5mila di loro sarebbero ritornati in Germania entro il 1955. Le perdite dell’Asse ammontavano per i tedeschi ad una ventina di divisioni nella sacca e ad una decina sul fronte meridionale; diciannove divisioni rumene, una decina italiane e altrettante ungheresi. Ma si tratta di un computo estensivo, che riguarda non solo la battaglia di Stalingrado bensì il complesso degli eventi che ruotarono intorno ad essa. Fatto che comunque permise a Stalin di parlare di ben un milione di combattenti nemici eliminati. Sul fronte sovietico le perdite – meglio calcolate di quelle nazifasciste – ammontarono a 478mila tra morti e dispersi. Il vero bilancio, tuttavia, va misurato sul piano politico, prima ancora che militare.
Stalingrado, infatti, infranse definitivamente il mito dell’invincibilità tedesca. Non di meno, scompaginando le truppe dell’Asse, i suoi effetti si riflessero ben presto sulle opinioni pubbliche dei Paesi alleati alla Germania. Così in Italia, in Romania, in Ungheria. Che le sorti del Terzo Reich, sul lungo periodo, fossero segnate, a quel punto divenne chiaro. La sua sconfitta era una questione di tempo. Così per l’antifascismo europeo, che misurò per la prima volta la plausibilità della definitiva distruzione del nazifascismo. Ci sarebbero ancora voluti più di due anni, e milioni di morti, ma la svolta si era finalmente consumata. Ciò che resta di Stalingrado è oggi il ricordo di una impresa epocale, fondata sulla tenacia e la resistenza. Da quel momento, infatti, in tutta l’Europa nulla sarebbe più stato come prima.
Claudio Vercelli, Università cattolica del Sacro Cuore, Istituto di studi storici Salvemini
Pubblicato venerdì 6 Marzo 2020
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/longform/a-stalingrado-il-tempo-e-sangue/