Ogni tanto mi chiedo come sarebbe insegnare – e imparare – la Storia attraverso la Letteratura, in particolare leggendo romanzi e racconti storici. Il tempo in classe non basta mai, neanche alla scuola media: interrogare e spiegare, spiegare e interrogare per rincorrere un programma anche se, formalmente, dal 2012 non esiste più. E per che cosa, poi? Per mettere in fila una teoria di nomi e date il cui senso, specie a degli alunni tra i dodici e i quattordici anni, sembra esaurirsi in se stesso? Alle superiori, punto e a capo: si ricomincia tutto. Non sarebbe invece il caso, magari con gli studenti più piccoli, se non di sostituire almeno di affiancare organicamente la storia evenemenziale (per lo più politica e militare) a una storia materiale, sociale e culturale? E che cosa, allora, meglio della Letteratura può fare al caso? Pensiamo alla Prima guerra mondiale: si insiste sempre sul casus belli, gli schieramenti, la guerra di posizione, la vittoria mutilata… anche nei manuali più intelligenti e innovativi hanno poco spazio la forza schiacciante della gerarchia militare, la vita in trincea, l’umore e la condizione sociale dei soldati, la descrizione acustica di un assalto o quella dei paesi che ospitano le retrovie. Sono convinta che si possa trasmettere tutto quello che occorre leggendo in classe, per esempio, Un anno sull’altipiano di Lussu.
Quando sono arrivata all’ultimo punto fermo di Bambino, il nuovo romanzo di Marco Balzano (Einaudi, 2024) mi sono detta la stessa cosa: servirebbero il coraggio e la capacità di spiegare il fascismo, la Seconda guerra mondiale e le questioni del confine orientale italiano a partire dalla lettura di queste pagine. Balzano, a differenza di Lussu, non è stato un testimone della storia che racconta, ma l’ha ricostruita accuratamente non solo per farne lo scenario su cui si muove il suo protagonista, lo squadrista triestino Mattia Gregori, ma per farla interagire con i personaggi ed esprimersi attraverso le loro esistenze e le loro scelte.
Balzano, che aveva già dato prova di sé misurandosi con il tempo storico e lo spazio di confine in Resto qui (Einaudi, 2018), regala al lettore l’occasione di sorvolare a volo radente Trieste dal 1900 agli anni 40. E di farlo “dalla parte degli infedeli”, ossia quella di un carnefice che deliberatamente sceglie la parte del male e della violenza: è in piazza con le camice nere il 13 luglio 1920 quando incendiano il Narodni dom, picchia e umilia i contadini sloveni, è soldato nella campagna che avrebbe dovuto spezzare le reni alla Grecia e ancora delatore per i nazisti dopo l’8 settembre e poi per gli jugoslavi di Tito quando, per quaranta giorni, saranno occupanti a Trieste.
Eppure la grandezza di questo racconto – oltre che nella trama che avvince e in sequenze di asciutta, cristallina poeticità – sta anche nel trattenersi dell’autore al di qua di qualsiasi giudizio e condanna: la figura di “Bambino”, questo il soprannome del violento picchiatore sul cui viso non cresce mai un filo di barba, disturba e scotta perché Balzano la consegna nuda e crudele al nostro, di giudizio. Bambino è un orfano e un assassino, un uomo irrisolto assetato di affetto e insieme un individuo che vendica sugli altri la propria solitudine e infelicità.
Seguendolo in sella alla motocicletta con cui batte il contado popolato di slavi, razza barbara da sottomettere, o pedinandolo per le vie della Città Vecchia alla ricerca della madre, attraversiamo con lui decenni fondamentali per la storia del nostro Paese e riscopriamo luoghi a lungo disertati, cui solo recentemente la storiografia e la letteratura hanno riprovato a dare voce. Quella che si può ascoltare in questo romanzo è certo una delle più convincenti.
Non è la prima volta che ti confronti con la storia italiana recente: lo hai fatto nel 2015 con L’ultimo arrivato, la vita di un piccolo emigrato siciliano al Nord durante gli anni del boom; con Resto qui (2018), ambientato in una valle di madrelingua tedesca dilaniata prima dalla guerra e poi dagli interessi economici, e con Quando tornerò (2021), che racconta di Daniela, una badante rumena a Milano. Stavolta ci porti a scoprire le metamorfosi di Trieste dall’inizio del XX secolo al secondo dopoguerra. Perché questo spazio e questo tempo? Li hai voluti e cercati o ti sono capitati?
Volevo chiudere sul confine orientale un discorso iniziato con Resto qui. In verità un romanzo su Trieste ha, in me, radici ancora più remote, ma non riuscivo a trovare un personaggio convincente, che mi permettesse di raccontare una storia avvincente senza soccombere sotto il peso della cornice, che nel caso del confine giuliano è particolarmente impegnativa: si susseguono in cinquant’anni ben tre dittature: fascismo, nazismo e quaranta giorni di occupazione titina. Il confine orientale è secondo me una delle pagine più silenziate, maltrattate e su cui si esercita una propaganda politica a volte becera e quasi sempre poco informata. Credo che la letteratura possa fare la propria parte nel presentare le cose in maniera più chiara. E sono convinto che la politica dovrebbe sentirsi più responsabile: filtrare questi argomenti prima attraverso la conoscenza e poi esprimere il proprio consenso o dissenso, altrimenti non saremo mai liberi di interrogare la storia e rimarremo sempre schiacciati dall’uso pubblico che se ne fa che, se ci fai caso, spinge a tifare più che a comprendere.
Chi dice “io” nel romanzo è un cattivo: violento, squadrista e delatore. Perché questa scelta, cosa ti importava di una simile prospettiva? Come è stato calarcisi per renderla il più fedelmente possibile?
Mi sono accorto che nei romanzi che sinora ho scritto, ho indagato esclusivamente le vittime: di una compagine sociale, di una guerra, di scelte difficili… Ma come vede il mondo uno che il male lo “agisce”? Come cambia il racconto delle relazioni, dell’immaginazione della vita e della morte? Credo che siamo abituati a parlare del male in termini quasi sempre astratti e generici (il male della storia, il male che c’è in ognuno di noi, ecc.), ma alcune volte è possibile distinguere chi ha fatto il male e chi lo ha subito. Le camicie nere lo hanno fatto. Il fascismo tutto ne ha fatto. E lo ha fatto perché la sua stessa base ideologica e d’azione è violenta, razzista, aggressiva. Delineato così un simile personaggio, è possibile poi provare a indagare quale forma di umanità resta in un cattivo: quali traumi nasconde la sua aggressività, quali sono le sue fragilità e i suoi dolori. Questo mi interessa molto: ho insegnato in carcere principalmente per provare a capire chi sbaglia. Ne nasce un nuovo approccio verso l’empatia, che troppo spesso riduciamo a compassione per chi ha avuto una sorte simile alla nostra. Invece la letteratura deve far stare scomodi e lasciare domande.
Bambino è uscito un paio di mesi fa e molte sono ormai le presentazioni svolte: qual è stata la reazione dei lettori, in particolare dei tuoi più affezionati, a questo romanzo così diverso per voce e stile? Cosa i lettori in generale hanno apprezzato di più e cosa li ha più disturbati?
Negli ultimi anni ho realizzato alcune cose meno prevedibili: un saggio sulla felicità su una sola parola, un romanzo di racconti e, con Bambino, un cambio radicale di prospettiva. Mi rifiuto di chiudermi in una zona di confort. Le poche cose che so fare con la scrittura le voglio esplorare con libertà. Ho dei lettori affezionati, mi seguono, si fidano, spaziano insieme a me, sapendo che la mia strada maestra è quella del romanzo politico e civile (storico è un aggettivo che non può essere applicato ai miei romanzi se non in modo molto eterodosso). La violenza non li ha disturbati: non solo perché tutti ne siamo bersagliati soltanto aprendo il cellulare, non solo perché la comunicazione stessa in cui siamo immersi lo è, ma perché io la evoco e basta, senza mai ostentarla. Credo che al lettore vada sempre lasciato uno spazio di immaginazione con cui completare l’evocazione di chi scrive.
Il confine orientale italiano, la “frontiera adriatica” come ultimamente qualcuno preferisce chiamarla, è da qualche decennio in Italia un’arena su cui molti fanno con disinvoltura strame e abuso pubblico della storia. Sei sempre stato consapevole dei rischi che si corrono a trattare simili argomenti in un Paese come il nostro, sotto questo aspetto ancora estremamente immaturo? Se sì, perché hai scelto di correrli e come, se ti è capitato, li affronti e rispondi a eventuali tentativi di strumentalizzazione?
Bisogna andare a “grattar dov’è la rogna”, come dice Dante. È bene non lasciare alla politica, e a certa politica populista e conservatrice, l’esclusiva appropriazione di temi importanti come questo. Mi prendo la responsabilità di parlarne perché è il mio modo di intendere la letteratura ed è il mio contributo di cittadino e di scrittore. È stato così anche per i tre romanzi che hai citato. E così risuccederà in futuro. Questi temi hanno bisogno di un altro linguaggio, più umano, e di una conoscenza diversa, più profonda e accurata. È con questi elementi che rispondo a eventuali strumentalizzazioni.
Cosa sanno fare la letteratura e l’arte di diverso e migliore rispetto alla storiografia, circa i nodi cruciali nelle vicende di Paesi e popoli?
Possono partire da una vicenda umana e inserirla in un contesto e non limitarsi al racconto dei fatti e ai nomi di chi ha manovrato le leve. Il racconto di una donna o di un uomo, imperfetto e fragile come tutti, ci prende per mano e accorcia la distanza che pensavamo, col nostro pregiudizio, di avvertire in modo incolmabile tra noi e loro, tra il nostro presente e quel passato. La letteratura usa i fatti come metafore e così è facile ritrovare dietro il confine di Trieste quelli più travagliati di oggi: l’Ucraina, la Palestina e tutti quegli altri su cui non spendiamo una sola parola. Infine la letteratura non dà risposte, non giudica: pone domande e vuole che sia il lettore, con i suoi strumenti e la sua sensibilità, a darsi la sua risposta. Lo scrittore non giudica, ma fa in modo che sia poi tu, ripensando a ciò che hai letto e vissuto, a farti un’opinione critica.
Pubblicato giovedì 2 Gennaio 2025
Stampato il 04/01/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/interviste/trieste-e-il-fascismo-di-confine-nel-nuovo-romanzo-di-marco-balzano/