Il 15 febbraio presso il Centro Trentin verrà inaugurata la mostra Una famiglia in esilio – i Trentin nell’antifascismo europeo: professore, vuole raccontarci qualcosa su questo Centro, sulla sua origine e le sue attività?
Se uno dice semplicemente “Centro Trentin” fa pensare a Silvio Trentin. Forse. Anche se, a tutt’oggi, non è che Silvio Trentin – studioso, costituzionalista, esule, militante antifascista – sia conosciuto e ricordato in proporzione alla statura del personaggio. Essere mancato “sul più bello”, nel marzo ’44, gli ha tolto gli esiti, il naturale svolgimento del suo antifascismo: così reciso e precoce rispetto alla storia “di tutti”, che aveva invece incrociato come combattente ed ex-combattente fino al primissimo dopoguerra. Ma il Centro si riferisce all’intera famiglia Trentin, raccoglie e scrive la storia di tutti e cinque, genitori e figli. Senza forzature femministe, le amiche di Franca, ricevendone investitura e lascito documentario, hanno ritenuto che Beppa Nardari non sia solo moglie e madre, ma personaggio in proprio, con l’energia vitale che ci voleva a dare un perno a un gruppo familiare tanto ricco di identità e di pulsioni. Tutto è nato all’interno e ai bordi dell’Iveser (Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea) di cui Franca Trentin è stata fondatrice, presidente e presidente onoraria – presentissima – nei suoi ultimi anni. Ho detto “all’interno” perché le amiche di Franca sono dell’Iveser – e magari fra i suoi pilastri, come Maria Teresa Sega, ora presidente dell’associazione “rEsistenze” –, ma sono proprio la solidarietà o la complicità femminile che le hanno portate ad esprimersi in proprio da protagoniste: come è avvenuto per Luisa Bellina, senza la cui assidua cura il Centro Trentin forse non sarebbe nato, e certo non continuerebbe ad esistere. Di qui, oggi, la mostra, che si è giovata anche di altre forze istituzionali e personali, a conclusione del lavoro di riordino e inventariazione, per un primo uso pubblico del ricco fondo fotografico Trentin, conservato da “rEsistenze” presso Villa Hériot.
Qual è la peculiarità dello studio storico di interi nuclei familiari rispetto a quello sui singoli personaggi, in relazione all’importanza e alle modalità della ricerca?
Non arrivo a dire che sia stata una scelta di metodo prendere come tema e come approccio un gruppo familiare. Ma visto che proponete il tema e mi ci fate pensare, potrei dire questo: l’io e il noi a livello elementare è però fondativo, no? Ciascuno di noi cresce, si relaziona, si forma, diventa – diventa quello che poi sarà – in un nucleo di relazioni. In più nuclei, ma originariamente in quel nucleo primordiale che è la famiglia in cui è nato, il suo più immediato contesto. Un soggetto dentro un soggetto, qualcuno che non c’è ancora in qualche cosa che c’è già, e lo indirizza, lo condiziona, lo avvia. Nascerà forse una dialettica, come in tutte le interconnessioni di io e di noi, piccoli e grandi. Profilo astratto, di metodo. Ma applichiamolo a una “grande famiglia” italiana, e anzi transnazionale, come questa. Seguendone i percorsi si attraversa la storia del Novecento, e così, in modo ordinato e suggestivo, fa la mostra, che decolla alla Fondazione Querini di Venezia, ma è destinata a passare a Torino, agli annuali “Cantieri” dell’azionismo, e sicuramente altrove. Di più, con questo dentro/fuori, tipico dei Trentin: personalmente, ho avuto modo di frequentare soprattutto Franca, con i suoi orgogli di bilingue e di cittadina al quadrato, sempre con le sue riserve di “altrove”.
Le famiglie antifasciste italiane più famose sono certamente quella dei Cervi, dei Gobetti… ma appunto anche quella dei Trentin o quella udinese dei Cosattini (ne ha scritto recentemente Sandro Gerbi). Famiglie in cui anche le donne – figlie mogli madri – hanno un ruolo decisivo, come Franca Trentin e Beppa Nardari Trentin, o Ada Gobetti; famiglie contadine, operaie o borghesi. Ne ha incontrate molte altre, nei suoi studi? Hanno qualcosa in comune che le contraddistingue?
I nomi che dite voi, certo, e altri che si potrebbero aggiungere. Gli Amendola, per esempio: il padre Giovanni, vociano, redattore politico del Corriere della sera, ministro delle Colonie, coraggioso antifascista liberale e, come tale, leader dello sciagurato Aventino (se è lecita la critica politica nella nobiltà personale della fine); con i suoi figli ragazzi, venuto a mancare lui, idealmente affidati alla tutela di Benedetto Croce, il quale avrà potuto pensare a una genealogia Spaventa-Croce-Amendola padre-Amendola figli; e quelli non gli diventano militanti comunisti?! È la storia d’Italia. O almeno questa è la storia d’Italia che ci si insegnava fino all’’89, a me sembra fondata e fascinosa a tutt’oggi. O ancora la famiglia dei Pintor: Giaime e Luigi, il fratello che salta su una bomba e il futuro direttore del Manifesto, ma dietro di loro la generazione straordinaria dei padri, con un generale importante, un bibliotecario del Senato al centro di ambivalenti relazioni culturali d’alto bordo, fra Gentile e Croce. Di nuovo è la storia d’Italia nella sua complessità, come se ora citassimo altri nuclei familiari, altri soggetti multipli, tipo i due Garrone della Grande Guerra, che poi diventano i Galante Garrone – Alessandro, Carlo, Virginia – dell’Italia “azionista” nel secondo dopoguerra. Il grande clan dei Trentin è uno di questi fiumi, che alimentano il terreno, anche quello degli altri, quando gli altri lo lasciano seccare.
Il sottotitolo della mostra è I Trentin nell’antifascismo europeo; il fatto di essere in esilio in sé non basta: quali sono i tratti che rendono Silvio Trentin e i suoi ingranaggi riconosciuti e funzionali all’antifascismo internazionale, dal ritrovo della loro libreria a Tolosa all’aiuto fattivo prima ai repubblicani e poi ai profughi di Spagna?
A Tolosa e Auch in Francia, tra Francia e Spagna, tra Francia e Italia, si pensa e si agisce. “Pensiero e azione”, sì, il ricorso mazziniano attualizzato e rinvigorito da rapporti più sanguigni con un “popolo” meno astratto che nell’Ottocento. Teniamo conto che – nel complesso rapporto di “Giustizia e Libertà” con i comunisti – l’ala sinistra di GL, e Silvio Trentin in particolare, si guadagnano presso i più ortodossi l’epiteto di ‘trotzkisti’. Sono élite, con le prerogative delle élite, il rigore, il doverismo, sentirsi minoranza responsabile. Tenere viva l’idea che un’«altra Italia» è possibile, esserne attori e testimoni e, mentre il fascismo si diffonde e la sua macchia nera si estende sempre più – nella stessa Francia –, tener duro e prepararsi. Il momento buono! sembra venuto nel 1936, con la guerra di Spagna. Ripasserà negli anni Quaranta.
Nel suo Storia d’Italia (Laterza) lei, professore, scrive: «Passato in Francia, Trentin sarà – sino al ritorno in Veneto nel ’43 per guidarvi la Resistenza e però ben presto morirvi – uno dei punti di riferimento per l’antifascismo liberal-democratico in viaggio verso sinistra». Ecco, si può dire che questo viaggio verso sinistra si sia compiuto anche all’interno della famiglia Trentin, partendo dal “Libérer et fédérer” di Silvio, fino alla carriera di deputato del PCI e di segretario della CGIL di Bruno? In che modo il Centro e la mostra a essi dedicati ci aiutano a illuminare il volto di ciascuno dei Trentin?
Ma Liberer et fédérer, no? Dentro il noi – anche il noi familiare di una famiglia coesa – ogni io si afferma e tiene ad essere a suo modo. Risposta generalissima, ma poi il Centro, e con il Centro l’Istituto e “rEsistenze”, è lì apposta per approfondire ciascuno dei cinque personaggi. La mostra è solo parte di una tensione progettuale multipla e viva, che ha già conosciuto più tappe e altre ne dovrà conoscere. L’ultimo Trentin che abbiamo approfondito è stato Giorgio, con il convegno all’Accademia di Belle Arti Incidere! Incidere! Incidere! – è già diventato un libro nella collana del Centro – che ha pensato allo specialista di grafica che era, ma più in generale all’organizzatore culturale, all’intellettuale civico attivo dal dopoguerra sulla scena veneziana, con tutte le implicazioni internazionali proprie dell’ambiente e dell’arte.
Franca è restata sino alla fine – possiamo dirlo – “innamorata” del suo grande padre, ma era con noi dell’Iveser dolcemente ma fermamente esigente, altresì, nel farci capire che anche suo fratello Bruno non era stato grande solo come sindacalista, ma capace di pensare in grande, coltivando visioni nuove per il movimento operaio; e che però il riservato Giorgio aveva dei segreti ancora da svelare: non ce li lasciassimo sfuggire.
L’aula magna dell’Università di Venezia – lo splendido salone di Ca’ Dolfin sul Rio Novo – è dedicata a Silvio Trentin. Non poteva essere altrimenti: solo tre università hanno avuto almeno un professore capace di rompere con il fascismo e scegliere la via dell’esilio un quinquennio prima dell’obbligo formale del giuramento di fedeltà: Firenze ha Salvemini, Roma ha Nitti, Venezia ha Trentin. E a Ca’ Foscari la sala più bella che si affaccia sul Canal Grande, “in volta de Canal”, è dedicata a Mario Baratto, marito di Franca. Baratto, l’italianista preside di Lettere, è morto sulla cattedra. Era marito, genero, cognato. Nello spaccato di famiglia c’è di diritto un posto per lui.
Mario Isnenghi è emerito di storia contemporanea all’Università di Venezia e presidente dell’Iveser, la sua ultima pubblicazione è Convertirsi alla guerra, Donzelli 2015
Pubblicato giovedì 2 Febbraio 2017
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