occhiSi può dire che una mail è per sempre, parafrasando la pubblicità di una famosa marca di gioielli. Ogni nostra azione online, e da qualche tempo sui social network, infatti ha una vita molto lunga anche se spesso ce ne dimentichiamo. Tutto si svolge con leggerezza, ogni giorno, a ogni ora, basta un click.

Eppure, spesso, all’interno della rete e per mezzo dei social si consumano reati. Qualche giorno fa si sono svolti i funerali della giovane Tiziana, la ragazza napoletana che si è tolta la vita perché un filmato in cui si lasciava riprendere durante un rapporto sessuale è finito su siti porno ed è diventato virale in rete, generando una serie di meme (il meme è un fenomeno di internet, un’idea o un’azione spesso goliardica, che si diffonde velocemente. È parodia, gioco, ironia, ndr). Sono nate anche pagine Facebook con profili finti che la vedevano protagonista, magliette ecc.

La ragazza, poche ore prima di togliersi la vita, tramite il suo legale, aveva ottenuto un provvedimento d’urgenza per rimuovere da Facebook e da due testate online le pagine che facevano riferimento a lei. Tiziana però non ha retto alla gogna celebrata sul web, a valanghe di insulti che andavano avanti da più di un anno, aveva 31 anni. Quel video inviato per gioco a cinque amici tramite WhatsApp era diventato virale, rimbalzando di telefonino in telefonino le è sfuggito di mano.

Da http://www.xool.it/wp-content/uploads/2016/04/whatsapp-statistics-2016-1.png
Da http://www.xool.it/wp-content/uploads/2016/04/whatsapp-statistics-2016-1.png

Nelle stesse ore del suicidio di Tiziana finisce sui giornali la notizia di una ragazza di 17 anni di Rimini che, durante una serata in discoteca con le amiche, completamente ubriaca viene trascinata in bagno e stuprata da un ragazzo poco più grande. La violenza viene ripresa dalle coetanee che poi diffondono il filmato ad altri contatti su WhatsApp. Il video è arrivato anche sul cellulare della vittima che ne ha parlato prima con la madre e poi ha deciso di sporgere denuncia ai Carabinieri.

Queste storie accadono ogni giorno e si chiamano violenze. Solo che da quando esistono i social network sembra tutto diverso. Cerchiamo di capirne di più con una studiosa di Media education, Simona Tirocchi, ricercatrice di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Torino. Il suo ultimo libro si chiama proprio Sociologie della media education. Giovani e media al tempo dei nativi digitali (Franco Angeli, 2013).

 

Che cosa leggiamo in questi due episodi di cronaca?

La società è cambiata: c’è una mancanza di forza e di autorevolezza da parte della famiglia e della scuola nei confronti dei giovani. Oggi tutto si basa sulla responsabilità individuale. E spesso questa responsabilità non si accompagna a un set di valori chiaro e solido come poteva essere un tempo. Senza voler demonizzare i mezzi di comunicazione, vediamo che in questa società ci sono tanti elementi di attrazione che i giovani non riescono più a controllare, a gerarchizzare. Queste nuove forme di socializzazione, e tanti poli educativi anche non intenzionali, non riconoscibili, creano una situazione di confusione se appunto non c’è consapevolezza. Adesso, con tutte queste fonti di attrazione, i giovani non riescono più a trovare la strada. Cioè vogliono essere individualisti, ma poi questa individualizzazione può andare in direzioni sbagliate. 

Non è tutta colpa del web, giusto?

Da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/d/da/Internet2.jpg
Da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/d/da/Internet2.jpg

Esatto. Ho sentito tanti discorsi di senso comune in questi giorni, per esempio che internet non ha limiti. Questa è una condizione strutturale di internet e dei social media. Adesso i social hanno aperto una prospettiva del tutto diversa: consentono di condividere contenuti in una maniera molto più rapida e semplice rispetto al passato e quindi danno un’arma a doppio taglio al soggetto che è in grado così di condividere contenuti senza stare a pensare troppo al cosa, al come, insomma al messaggio che veicola.

 Anche adulti e personaggi pubblici hanno fatto clamorosi errori nell’uso dei social, usandoli a volte come fossero mezzi per comunicare solo a una cerchia di persone. C’è ancora questa ingenuità?

Qui il punto generale, che riguarda tutti, è che c’è proprio un’assenza di cultura e di consapevolezza di lettura dei media digitali, cioè quella che noi chiamiamo media education. Se noi non costruiamo un’educazione critica ai media, sia a quelli generalisti – perché anche la televisione resta tuttora un mezzo molto importante – e ancor di più ai social media, non andiamo da nessuna parte. I social non si possono spegnere così come non si poteva spegnere la televisione tempo fa. Quindi non si agisce togliendo i social ai ragazzi perché loro ormai sono always on, sempre connessi.

 Nell’episodio di Rimini la ragazzina veniva violentata e le sue amiche filmavano la scena col telefonino anziché chiedere aiuto. Mancherebbe anche l’educazione affettiva in questo caso.

Certo, lo chiamano analfabetismo emotivo: non si capisce che in quel momento sarebbe stato meglio aiutare l’amica invece di filmare. Si punta tutto sul divertimento, sull’ironia anche per una voglia di protagonismo. I giovani vogliono essere protagonisti della scena sociale e anche l’autrice di questo orribile scherzo si è resa protagonista: ha fatto una cosa della cui gravità non si è resa conto. Quindi c’è una mancanza di riconoscimento delle emozioni di cui anche la scuola deve riprendere la responsabilità. La scuola deve ragionare sull’educazione al genere, sul riconoscimento delle emozioni, sul rispetto della diversità e cose di questo tipo che non hanno a che fare con i media direttamente, ma che però aiutano. Ci vorrebbero delle figure specializzate che coadiuvino gli insegnanti. Perché l’insegnante non ha colpa, non ha una competenza specifica su certi temi. Servirebbe una collaborazione col territorio, qualche investimento in più per prendere degli esperti e soprattutto coinvolgere i ragazzi in attività che non siano solo frontali, ma progetti collaborativi in cui si possa ragionare insieme. Sempre con i genitori, se no il progetto fallisce.

Manca anche agli adulti questo tipo di educazione?

Sì, la ragazza di Napoli che si è tolta la vita non si è resa conto di ciò a cui andava incontro girando il video. Penso però che occorra una risposta anche a livello istituzionale. C’è un vuoto in Italia perché la scuola non ha mai investito su queste politiche di media education. Si è concentrata sulle tecnologie vedendole solo come un qualcosa di strumentale. C’è tutto un sistema educativo istituzionale che non ha gettato le basi per quella che deve essere una consapevolezza che, ripeto, non hanno né gli adulti né i giovani adulti e tantomeno gli adolescenti.

Una puntata di “Non è mai troppo tardi” col maestro Manzi, 24 febbraio 1961

 Come è stato per l’italiano alla televisione, ci vorrebbe un nuovo maestro Manzi?

Quella fu un’iniziativa straordinaria perché appunto faceva qualcosa di più che insegnare la lingua italiana, insegnava proprio un modo di pensare, di ragionare e lo faceva per immagini. È stata di recente trasmessa una striscia quotidiana estiva su Rai1, con Nino Frassica, per avvicinare un po’ anche il mondo degli adulti al riconoscimento dei linguaggi delle nuove tecnologie. Era un esperimento interessante perché parlava col format di Don Matteo (ndr: fiction molto seguita su Rai1), quindi riconoscibile dal pubblico tv. Certo però non era media education.

 C’è una differenza di genere nell’uso dei social media, anche in relazione al sexting, cioè veicolare messaggi, immagini e video a sfondo sessuale via smartphone o computer?

Sembrano le ragazze le più propense a postare foto o video osé e a volte vendono le loro immagini, ad esempio su Snapchat (un servizio di messaggistica istantanea, ndr), per ottenere denaro, un po’ come fanno le camgirls su internet. Diverso è il caso del revenge porn, cioè usare immagini osé di ex fidanzati per vendetta facendole circolare: qui non emerge una differenza di genere perché, come abbiamo visto, sia i ragazzi che le ragazze a volte non si fanno scrupoli nel diffondere questi contenuti, proprio perché non si rendono conto della gravità delle loro azioni. Gli studi americani più recenti indicano che il sexting, almeno tra gli adulti, è un fenomeno sempre più comune ed accettabile, anzi sta diventando una componente del romanticismo e del corteggiamento. Il Pew Research Center in una ricerca del 2014 su 2.300 adulti sopra i 18 anni ha rilevato che il 44% dei possessori di cellulare, tra i 18 e i 24 anni, dice di aver ricevuto sexts, cioè messaggi a sfondo sessuale. Il 15% ha detto di averli inviati. Sempre gli studi autorevoli del Pew Research Center segnalano che gli adolescenti usano le immagini di sexting come una specie di “moneta emozionale” di cui hanno bisogno per mantenere una relazione. Questo la dice lunga, come se le emozioni siano diventate altro e appunto non vengano riconosciute.

 Il fatto di considerare la donna un oggetto, come si fa in tv e nella pubblicità, è passato anche sui social?

Qui purtroppo anche tra le giovani si sta facendo strada l’idea che l’esibizione del corpo o la vendita reale o presunta dello stesso possa essere un elemento quasi di empowerment (ndr: conquista della consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni) per la donna, cioè diventa quasi un modo di rendersi indipendenti, potenti. Questo è un travisamento del vecchio femminismo in qualche modo, cioè della rivendicazione “il corpo è mio e lo uso come voglio”. Si vuole far passare l’idea che esibire e mostrare il corpo sui social possa diventare qualcosa di positivo. Invece questo è anche molto pericoloso perché rientra in tutta una cultura di sessualizzazione, di oggettificazione, che non rende consapevoli le donne del fatto che invece queste possano diventare oggetto di scherno o altro. C’è un bel libro che ne parla: Sporche femmine scioviniste di Ariel Levy, una giornalista americana. Anche Bambole viventi. Il ritorno del sessismo di Natasha Walter analizza la cosiddetta raunch culture, cioè la cultura della volgarità. Si pensa che grazie all’arroganza, alla sfacciataggine, alla volgarità e a mostrarsi sopra le righe le donne diventano più indipendenti, più autonome.

Antonella De Biasi, giornalista professionista freelance. Ha lavorato al settimanale La Rinascita della sinistra scrivendo di politica estera e società. Collabora con Linkiesta.it e si occupa di formazione giornalistica per ragazzi