Una conversazione con Valerio Onida, già giudice costituzionale dal 1996 al 2005, Presidente della Corte costituzionale fino a gennaio 2005, professore di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Milano. Aveva presentato un ricorso perché in un unico quesito vengono sottoposti all’elettore una pluralità di oggetti eterogenei. Il Tribunale di Milano ha recentemente respinto il ricorso.
Professor Onida lei è stato giudice della Corte Costituzionale, eletto dal Parlamento, e della Consulta è stato anche Presidente. Convinto sostenitore del No nel referendum sulla riforma, ha presentato un ricorso proprio sul quesito sottoposto agli elettori il 4 dicembre. Il Tribunale di Milano ha però respinto l’istanza. Come valuta la decisione?
La Giudice del Tribunale di Milano, oltre a opporre alcuni ostacoli processuali, ha ritenuto di entrare nel merito della questione da noi posta, e – singolarmente – in modo tanto diffuso da andare molto oltre la semplice valutazione di “non manifesta infondatezza” a essa spettante. Ha così “rubato il mestiere” alla Corte costituzionale, a cui noi chiedevamo di rimettere l’esame di un delicato problema di interpretazione dell’art. 138 della Costituzione. In questo modo quella che a noi pare una lesione del diritto fondamentale alla libertà di voto degli elettori rischia di restare senza rimedio.
Impugnerà la sentenza?
Vedremo se sarà possibile e opportuno azionare qualche altro rimedio.
Pur senza cadere nel catastrofismo ventilato dai sostenitori del Sì, cosa accadrebbe se passasse la riforma?
Nessuna catastrofe. Avremmo un sistema costituzionale un po’ pasticciato e più centralistico, e si indebolirebbe il senso della Costituzione come terreno comune, non a disposizione di ogni maggioranza.
L’articolo 78 della riforma sottoposta a referendum stabilisce che la Camera dei deputati possa deliberare “a maggioranza assoluta lo stato di guerra e conferisce al Governo i poteri necessari”. Non è un tema talmente delicato da richiedere la più ampia discussione e presa di responsabilità?
Il problema è per fortuna più che altro simbolico, anche perché al giorno d’oggi le guerre si fanno senza dichiararle. Ma certo una decisione come quella di impiegare le forze armate all’estero in attività belliche dovrebbe auspicabilmente passare attraverso delibere parlamentari adottate con le procedure più solenni, magari a Camere riunite.
Intanto è in vigore una legge elettorale sulla quale pende il giudizio della Corte costituzionale. I giudici hanno deciso di pronunciarsi dopo il risultato referendario. Secondo lei, l’Italicum rappresenta un vulnus per la democrazia?
Rappresenta un vulnus per la democrazia intesa come nella sua forma piena, in una situazione in cui nessun partito o gruppo politico raccoglie da solo il consenso della maggioranza del Paese. La legge attuale, l’Italicum, dà luogo sostanzialmente a una elezione popolare diretta del capo dell’esecutivo, il quale, pur muovendo da un consenso minoritario, potrebbe contare a priori sulla maggioranza assoluta della Camera per governare. Una concezione di “democrazia di investitura”. Il sistema rappresentativo dovrebbe invece far sì il Paese e la sua maggioranza si riflettano nelle assemblee elettive, e in queste, attraverso il sistema dei partiti, nel confronto e nella formazione di maggioranze frutto di convergenze programmatiche. Certo occorrono partiti capaci di adempiere al loro compito di organizzare e costruire la partecipazione dei cittadini intorno ad idee collettive e non solo intorno a fedeltà personali, in un quadro di rispetto reciproco e quando occorre di collaborazione, non solo di scontro.
Esiste un brusio critico contro il suffragio universale, cosa ne pensa?
Il suffragio universale è una conquista definitiva. Il problema è come organizzarlo non solo come espressione di voto ma anche come confronto di idee, in una società non atomizzata ma che sia ricca di articolazioni e di corpi intermedi, e capace di guardare al di là dei soli interessi particolari.
Pubblicato venerdì 2 Dicembre 2016
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