Professor Paolo Pezzino, neo presidente dell’Istituto Parri, a 73 anni dalla fine del regime mussoliniano qual è in Italia lo stato di salute della cultura antifascista?
Si trova in uno stadio precomatoso, direi. Purtroppo a parte alcune associazioni, tra cui l’Anpi e poche altre, che coltivano e difendono la cultura democratica, negli ultimi decenni nell’opinione pubblica si sono diffuse sempre più visioni false, minimizzanti, di ciò che è stata l’esperienza fascista. Per esempio si sente dire: “Mussolini ha fatto molto bene all’Italia e il suo peccato è stato solo entrare in guerra”. È un’assurdità, perché la guerra è stata uno degli obiettivi primari del regime e non un corollario accidentale, era connaturata alla sua concezione aggressiva della nazione e della crescita della nazione. Oppure: “Mussolini avrebbe fatto bene, se non fosse stato per le leggi razziali”. Sottointeso: le leggi razziali sono state imposte dall’esterno, dalla Germania. Invece ormai sappiamo bene che le leggi razziste furono una scelta autonoma dell’Italia fascista. Inoltre si sottovaluta, più o meno candidamente, che si sia trattato di un regime dittatoriale. Sono tra chi ritiene che il fascismo abbia avuto una grande ambizione totalitaria, nonostante non sia riuscito a realizzarla pienamente, ha distrutto, demolito, tutte le principali libertà politiche e civili, e il razzismo era componente fondamentale del suo intendere i rapporti tra nazioni. Bisogna però stare attenti a non diffondere la tesi che il fascismo possa tornare, il fascismo nella forma che abbiamo conosciuto va lasciata agli storici per studiarla. Sia chiaro: non vedo un Mussolini dietro l’angolo, tuttavia la minimizzazione del regime fascista ha fatto ritenere che pure l’antifascismo appartenesse al passato e non serva più. Non è così. Purtroppo, nazionalismo estremo e razzismo mi pare abbiano di nuovo grande presa nella società italiana.
A chi attribuire la responsabilità?
Certamente un ruolo lo hanno esercitato forze politiche importanti, che ora sono anche al governo. Nondimeno si è ritenuto che l’Italia fosse ormai una democrazia acquisita e che quindi non ci fosse più bisogno di consolidare e riaffermare determinati principi e valori. Invece in politica niente è dato una volta per tutte, le situazioni cambiano. Quando io sento dire da persone di sinistra, addirittura un tempo militanti di sinistra, che non votano più a sinistra perché i partiti di sinistra li hanno abbandonati, perché li hanno lasciati esposti ai flussi migratori, ci si rende conto che determinati sentimenti di paura, proprio quelli su cui il razzismo vero e proprio si innesta, sono trasversali nella società. Una cultura solidale avrebbe affrontato meglio il fenomeno. Invece si solletica la paura per riscuotere consenso elettorale, si drammatizza la situazione e non si cercano soluzioni realistiche. I fenomeni migratori attuali sono certamente imponenti e, seppure secondo i dati più recenti siano in grande diminuzione negli ultimi anni, stanno mettendo sotto forte pressione tutte le democrazie europee. Quando si dice “non possiamo accoglierli tutti” si afferma un’ovvietà. È vero che l’Europa ha affrontato male il fenomeno e ci ha lasciati soli, è vero che l’Italia è stata formidabile nel salvare la vita ai migranti, ma corrisponde a verità pure la mancata efficienza nell’accoglienza e nell’integrazione. Si dovrebbero piuttosto governare con politiche adeguate, far comprendere che una robusta quota di immigrazione è necessaria, indispensabile al nostro Paese.
Lo studio della storia può contribuire ad affermare una cultura antifascista, democratica e solidale?
La storia magistra vitae e lo dico da storico, pur con rammarico, è una bella frase ma funziona molto poco nella realtà, raramente impedisce di ripetere errori o incorrere in situazioni tragiche. Può contribuire, se diffusa e conosciuta, a comprendere quanto sta accadendo, però le scelte politiche appartengono alla politica. Gli storici possono mettere sull’avviso, spiegare che alcuni fatti sono già accaduti, certo in un contesto diverso, fortemente autoritario e hanno avuto determinate connotazioni, ma devono essere i politici a comprendere che determinate parole d’ordine sono pericolose perché sono già state applicate e sempre con esiti esiziali.
Si riferisce anche alla nuova proposta del ministro Salvini di un censimento dei Rom?
C’è stato un sussulto all’Istituto Parri, capofila di una rete di ben 64 istituti storici sparsi su tutto il territorio nazionale. Il nostro compito principale è diffondere la cultura storica sulla Resistenza e sull’età contemporanea. E nell’80° delle leggi razziali sentire ripetere parole d’ordine che abbiamo già vissuto è allarmante. Storicamente il presupposto di qualsiasi legge razziale è il censimento delle persone della cosiddetta razza inferiore, delle persone indesiderate che si vogliono discriminare o addirittura sterminare. Da storici abbiamo il dovere di ricordare quanto avvenuto in passato. Personalmente sono convinto che un censimento sia irrealizzabile, impedito per fortuna dalla Costituzione, ma penso che così sappia anche chi l’ha riproposto, dunque l’ha fatto unicamente per fomentare gli istinti razzisti diffusi nella gente soprattutto nei confronti dei Rom.
Se l’antifascismo arretra, la storia della Resistenza è ancora molto poco studiata.
La “fortuna o sfortuna” della Resistenza dal 1945 ha conosciuto varie fasi. In un primo momento, complice la guerra fredda, è stata un’esperienza rivendicata, in maniera differenziata, soprattutto dal Pci e dal Psi. Al contempo la Dc, il Pli, che pure avevano partecipato attivamente alla lotta di Liberazione, contribuirono a screditarla, come se fosse appartenuta esclusivamente alla sinistra. Dimenticando le formazioni autonome, i militari, i sacerdoti. In seguito è subentrata una retorica molto superficiale, ritualistica e deleteria, che pretendeva di esaltare l’unità di tutto il popolo italiano contro gli invasori tedeschi e i fascisti repubblicani. La Resistenza invece è stata un fenomeno minoritario, seppur di minoranze imponenti. Più tardi abbiamo assistito a una stagione anti-resistenziale, in cui la Resistenza era considerata l’origine di tutti i mali dell’Italia repubblicana. Questo periodo ha coinciso con l’era di Berlusconi, ricordiamo che da presidente del Consiglio partecipò solo una volta, nell’ultimo anno del suo governo, alle celebrazioni del 25 aprile. Ora si torna a diffondere la falsità di una Resistenza inutile. Invece è stata utilissima. Militarmente agli alleati, perché ha impegnato le retrovie tedesche con una guerra di guerriglia che qualsiasi esercito regolare sa essere pericolosissima. E poi c’è stata la Resistenza non armata delle donne, dei deportati politici, delle persone rinchiuse nei campi di internamento dopo l’entrata in guerra dell’Italia e dei militari internati per non aderire alla Rsi, degli operai con gli scioperi del ’44. Tutte queste forme di Resistenza sono state ignorate, al contrario si predilige la versione di una Resistenza come una guerra civile limitata tra fascisti armati antifascisti armati mentre la popolazione italiana stava a guardare. È una denigrazione colpevole della Resistenza.
L’idea di un Atlante delle Stragi nazifasciste partì proprio da lei, quando insegnava all’Università di Pisa, subito raccolta dall’Anpi, che la patrocinò assieme alla Rete degli istituti sul movimento di Liberazione, ottenendo il finanziamento della Germania.
Ne sono particolarmente orgoglioso perché è un esempio virtuoso di public history, cioè di storia realizzata con gli utenti. Nel nostro sito www.straginazifasciste.it sono online le schede sia di grandi sia di episodi minori. Nel Meridione, per esempio, l’occupazione tedesca è durata poco ma è stata molto aggressiva nei confronti delle persone e dei beni e ha generato un’opposizione istintiva. Ne è venuta fuori l’immagine di un Paese intero che ha dovuto affrontare la violenza nazifascista. L’Atlante è un work in progress: abbiamo chiesto alle comunità e ai singoli studiosi di verificare i dati e continuiamo a ricevere segnalazioni di omissioni o di errori. Noi controlliamo e correggiamo. Molti insegnanti delle scuole superiori lo reputano uno strumento didattico utilissimo, capace di coinvolgere i giovani partendo dalle vicende locali. Se si adotta un linguaggio adeguato, se non viene ridotta a noiosissima sequela di nomi e date, c’è una grande richiesta di storia.
Quali saranno le linee guida di ricerca dell’Istituto Parri che presiede?
Come Rete degli istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea vorremmo realizzare un censimento più realistico del numero dei partigiani armati, è stato fatto solo a livello locale soprattutto dagli istituti piemontesi, ma non nel resto d’Italia. Non sappiamo ancora quanti siano stati effettivamente i combattenti nelle varie fasi. Sarà importante anche delineare le varie forme di Resistenza civile sorte nelle zone dove quella in armi non ebbe modo di dispiegarsi, e credo sia importante allargare il campo anche alla memoria della Resistenza, a come l’immagine della Resistenza abbia condizionato la vita e il dibattito politico e sociale nell’Italia repubblicana. Inoltre abbiamo già cominciato a studiare e a divulgare i vari decenni della Repubblica. Si affrontano solo a livello accademico, è un vuoto che va colmato. Il prossimo anno, inoltre, ricorrerà il 70° della nascita dell’Istituto, fondato da Ferruccio Parri con il compito di raccogliere le carte della Resistenza. Da allora abbiamo percorso molta strada. Se troveremo i fondi necessari, promuoveremo iniziative per far conoscere la figura di Parri, troppo poco conosciuta, nonostante il suo partito, il Partito d’Azione, abbia avuto un ruolo molto importante nella Resistenza.
I pochi finanziamenti alla cultura sono una costante dolente nel nostro Paese. Il 2 per mille da destinare a enti e associazioni culturali è stato una cometa, cancellato.
L’Istituto Parri e l’intera Rete degli istituti soffrono di gravi problemi finanziari. Sono diminuiti i contributi di Regioni e Comuni. Siamo tra le associazioni con finalità culturali sostenute, tramite il ministero per i Beni Culturali, grazie al 5 per mille devoluto dai cittadini. Pochi fondi, in verità, per una realtà diffusa su tutto il territorio nazionale. Stiamo cercando di inserirci anche nella tabella del Miur, la nostra attività didattica ha infatti spazio sempre maggiore. Il ministero ci sostiene distaccando circa 45-50 insegnanti ogni anno, però devono essere rinnovati e la convenzione col dicastero scade proprio l’anno prossimo. Proveremo a partecipare ai bandi di ricerca internazionali, è un terno al lotto, anche in questo settore l’Italia non è molto considerata in Europa. Ma da sempre tagliare gli stanziamenti è un modo per strangolare la ricerca. E questo sta già avvenendo.
Lo storico Pezzino ha un sogno?
Vorrei docenti di storia preparati e studenti appassionati. La storia non è magistra vitae ma aiuta molto a interpretare il mondo che stiamo vivendo. È il sale della vita, racconta dell’uomo, narra di noi.
Cosa vuol dire per Pezzino oggi essere antifascisti?
Prima di tutto conoscere cosa è stato il fascismo e l’esperienza di chi si è opposto al fascismo durante il ventennio, purtroppo una minoranza, sia dopo, durante l’occupazione tedesca. Antifascismo vuol dire applicare queste conoscenze e i valori degli antifascisti alla realtà odierna, ogni giorno.
Pubblicato mercoledì 1 Agosto 2018
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