La recente uscita del ministro degli Interni, Matteo Salvini, contro i giudici che, a suo avviso, ostacolerebbero la politica del governo su immigrati e sicurezza («Se uno va a un convegno e dice che il Dl sicurezza non va bene e poi esamina le domande degli immigrati, da italiano e non da ministro, dico che o fai il giudice super partes o fai politica», ha sentenziato il vicepremier leghista) ci consegna il ritratto di un Paese dove perfino la libertà di pensiero è a rischio. Ne parliamo con Ugo De Siervo, professore di diritto costituzionale e già presidente della Consulta.
Professore, Salvini dice di non volere liste di proscrizione, però prepara dossier contro le toghe che hanno firmato le sentenze favorevoli all’iscrizione all’anagrafe di cittadini extracomunitari richiedenti protezione internazionale. Siamo arrivati alle schedature dei presunti oppositori?
Siamo dinanzi ad un leader politico estremamente rozzo, che cavalca le tematiche più incredibilmente anti-istituzionali. C’è da preoccuparsi. Sinceramente c’è da preoccuparsi per la cultura di questa persona e anche per le nostre istituzioni perché a lungo andare, a furia di buttar benzina, qualche incidente può capitare. Vede, quello che il ministro non sa o finge di non sapere è che tutti i provvedimenti dei magistrati sono appellabili. Se ci sono provvedimenti che non sembrano fondati o sembrano sbagliati ci sono gli strumenti per impugnarli. Ma quello che proprio non si può e fare è attaccare la categoria dei magistrati o singoli magistrati sui mezzi di comunicazione di massa. Questo vuol dire denigrare una parte dello Stato.
Insomma un linciaggio morale. Non è un bel clima. E a questo si aggiunge la manomissione della Carta costituzionale che da tempo sembra non conoscere momenti di pausa. L’Aula della Camera a fine febbraio ha approvato in prima lettura una proposta di legge costituzionale che introduce nel nostro ordinamento il referendum propositivo. Il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Riccardo Fraccaro, ha parlato di «momento storico». Condivide questo entusiasmo dell’esponente Cinque stelle?
Assolutamente no. È un disegno di legge di estrema pericolosità per il sistema parlamentare e costituzionale vigente. Parte da una esigenza condivisibile ma poi mal sviluppata. L’esigenza condivisibile sarebbe quella di rafforzare, anche in modo sostanzioso, i cosiddetti strumenti di democrazia diretta, cioè l’iniziativa popolare da parte del parlamento. Camera e Senato purtroppo nei decenni trascorsi hanno fatto un uso pessimo degli strumenti di democrazia diretta, le iniziative popolari sono state abbandonate a se stesse e non sono state messe nell’abbrivio del dibattito parlamentare.
Il 60 per cento delle proposte di legge di iniziativa popolare non sono mai state discusse.
E questo è grave, ma per correggere questi difetti ci sono, solo a volerli, degli strumenti di valorizzazione dell’iniziativa popolare. Si potrebbe, ad esempio, obbligare le assemblee legislative a prendere atto delle leggi di iniziativa popolare, vincolarle a iniziare il dibattito e poi, sull’esito del dibattito parlamentare, creare degli strumenti di consultazione dei proponenti delle iniziative popolari. Ci sarebbero, insomma, tante forme per rendere più vero e fecondo il rapporto tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta. Si è invece scelta un’altra strada. Ed è una strada accidentata.
Una strada, che rischia, a suo avviso, di creare un conflitto permanente tra il “popolo” e le istituzioni rappresentative?
Cinquecentomila elettori, che equivalgono a poco più dell’1 per cento degli italiani aventi diritto al voto, potrebbero presentare un disegno di legge e dinanzi a questa proposta il Parlamento potrebbe decidere o di approvarla con modifiche solo formali, o, altrimenti, di andare incontro a un referendum. Ma c’è di più: se il Parlamento decidesse diversamente, di fare cioè una legge che non corrisponde a quella popolare, questa legge non verrebbe promulgata, ma messa da parte in attesa del referendum sul testo dell’iniziativa popolare. Solo se la consultazione avesse esito negativo la legge delle Camere potrebbe essere promulgata ed entrare in vigore. Questo vuol dire che ad ogni iniziativa di 500mila elettori, che sono sì un numero significativo ma non certo dominante in una democrazia fatta da decine di milioni di cittadini, il potere legislativo del Parlamento viene, di fatto, congelato. Le conseguenze sarebbero gravi: verrebbe, in sostanza, distrutto il potere rappresentativo del Parlamento.
Come potrebbe rapportarsi ad una legge di iniziativa popolare il Capo dello Stato, che oggi prima di promulgare una legge può, con messaggio motivato, rimandarla alle Camere e chiedere una nuova deliberazione? In questo caso cosa avverrebbe?
Questo è un altro punto dolente della riforma. I poteri del Presidente della Repubblica verrebbero annullati. Su un futuro testo di iniziativa popolare, che eventualmente presentasse difetti gravi anche di costituzionalità e che meritasse una revisione e una correzione, il presidente della Repubblica vedrebbe il suo potere di controllo letteralmente polverizzato. A chi potrebbe inviare il testo? Al popolo? Al comitato promotore? Il potere di interdizione verrebbe meno e noi ci troveremmo davvero ad uno stravolgimento profondissimo del sistema rappresentativo.
Se il Parlamento è obbligato a esprimersi su una legge di iniziativa popolare entro 18 mesi, e visto che nel disegno di legge non è previsto un limite al numero di proposte di iniziativa popolare che possono essere presentate, potremmo per assurdo trovarci di fronte ad Assemblee sommerse da un trasbordante numero di leggi di iniziativa popolare e impossibilitate, quindi, a svolgere la loro essenziale funzionale legislativa. Non si rischia così che il Parlamento diventi il passacarte di proposte che arrivano da fuori gli emicicli?
Certo che sì. Il punto è che le proposte di iniziativa popolare potrebbero rompere l’ordine del giorno dei lavori del parlamento. Il potere delle Camere è dato anche dalla graduazione degli interessi: si decidono prima alcune cose, poi altre e poi altre ancora. Se invece io creo un meccanismo automatico per cui innanzitutto, in tempi contingentati, si devono discutere le proposte di iniziativa popolare io rischio di incrementare il potere di alcuni gruppi più organizzati di alterare il lavoro parlamentare, anteponendo alle leggi frutto di una dialettica tra le forze politiche presenti in parlamento le esigenze di minoranze organizzate. Addirittura un sistema del genere farebbe nascere una sorta di curiosa concorrenzialità tra i gruppi, più o meno organizzati, che possono far presentare disegni di legge rapidamente, bruciando sul tempo altre proposte, a buon bisogno antitetiche, sulla stessa materia.
Sta dicendo che partiti o gruppi di pressione organizzati potrebbero diventare i padroni della potestà legislativa?
Sì, potrebbe accadere. E le faccio un esempio concreto. Sui temi etici noi sappiamo che nel Paese ci sono visioni diametralmente opposte, che ci sono gruppi molto interessati a proporre una soluzione piuttosto che un’altra. Cosa accadrebbe allora? Che ci sarebbe una gara, una corsa contro il tempo, all’inizio della legislatura, tra – per dire – i difensori della vita ad ogni costo e coloro che teorizzano invece la possibilità della fine vita facilitata. Perché ci sarebbe questa gara? Perché se io presento un disegno di legge di questo tipo taglio fuori tutti gli altri. Il Parlamento, in questo scenario inquietante che passa sotto il nome di referendum propositivo, finirebbe per essere impossibilitato a farsi carico degli interessi di coloro che la pensano diversamente dalla minoranza organizzata che ha presentato la proposta di legge. Tutto questo come vede potrebbe essere la fine del sistema parlamentare.
Stiamo andando, senza nemmeno saperlo, verso la dittatura delle minoranze?
Diciamo che potrebbero esserci con questa pessima riforma gruppi di pressione, gruppi rappresentativi di determinati interessi, che riescono a dominare la dinamica parlamentare.
Per parare alcune critiche è stata inserita una norma che prevede una sorta di placet della Corte costituzionale nella fase istruttoria del referendum. Sarà la Consulta a valutare, prima che la consultazione popolare abbia luogo, l’impatto della proposta di legge sull’intero ordinamento. La convince questo contrappeso?
Guardi, è una norma che non vuol dire nulla. La Corte costituzionale dovrebbe garantire che il disegno di legge di iniziativa popolare sia conforme alla Costituzione, ma mi permetto di sottolineare che la Consulta non fa questo mestiere. La Corte è chiamata a controllare se gli atti legislativi siano stati formati con i procedimenti richiesti dalla Costituzione e se il loro contenuto sia conforme ai princìpi costituzionali, non può dare una sorta di patentino di compatibilità costituzionale. Il rischio è che la riforma Fraccaro alteri i poteri e la natura stessa della Corte, che finirebbe per essere sottoposta a pressioni formidabili e incontrollabili.
Professore, nel testo originario della riforma non era previsto alcun quorum, cosa che avrebbe potuto permettere a una minoranza il colpo di mano, cioè di proporre una legge e approvarla contando sulla scarsa partecipazione al quesito referendario del resto dell’elettorato. Grazie a un emendamento del Pd è stato inserito un quorum: ora la proposta di legge referendaria è valida se i sì superano i no e se sono almeno pari al 25% dell’intero elettorato. La ritiene una garanzia sufficiente?
La ritegno una piccola concessione, utile certo, ma che non cambia la sostanza. E la sostanza temibile, molto temibile, di questo disegno legge costituzionale appartiene alla prevalenza della volontà del corpo elettorale attivato da gruppi organizzati che propongono questi disegni di legge iniziali. Il vero difetto di questa riforma è che si propone di distruggere il primato del parlamento. Noi qui troviamo pari pari le pazze teorizzazioni che sono state fatte anni fa dai sostenitori della piattaforma Rousseau. È la traduzione in forma di riforma costituzionale della preferenza di un sistema di democrazia diretta rispetto a un sistema di democrazia rappresentativa, senza rendersi conto, o meglio nascondendolo astutamente, che la democrazia diretta è anch’essa organizzata. Soprattutto una democrazia diretta che muove mezzo milione di cittadini non esiste se non c’è una grande organizzazione, che può essere una piattaforma informatica o un partito alla vecchia maniera, che nel giro di poche settimane riesce a mobilitare mezzo milione di persone.
La democrazia diretta, eterogenesi dei fini, potrebbe essere altro che una democrazia eterodiretta. Da chi? Dai governi?
Diretta dai soggetti forti sicuramente. I costituzionalisti distinguono la democrazia diretta dalla democrazia plebiscitaria. Naturalmente se le democrazie che nascono dirette per valorizzare un potere proprio del popolo diventano poi democrazie che rappresentano il potere, nel senso che il potere organizza i plebisciti, beh, allora invece della maggiore libertà sperata i cittadini si ritroveranno con una restrizione degli spazi di democrazia.
Giampiero Cazzato, Giampiero Cazzato, giornalista professionista, ha lavorato a Liberazione e alla Rinascita della Sinistra, ha collaborato col Venerdì di Repubblica
Pubblicato giovedì 13 Giugno 2019
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