«Mia sorella ebbe in regalo dal babbo l’Émile di Rousseau quando aveva appena dieci anni. Pensa, ce l’abbiamo ancora in casa! Pur essendo una persona non istruita mio padre ha sempre avuto un forte senso della cultura. “Conoscere per essere liberi, per cambiare in meglio le cose”: questo ci ha sempre insegnato». Capisci chi è Daniela Morozzi da questo piccolo grande episodio. Senso del dovere, grande impegno, legami forti, la provincia toscana piena di fermenti e di passione civile. E se tutte queste cose le respiri fin da quando sei piccola, le rielabori, se appunto dietro hai una famiglia “generosa” che ti sostiene e ti dà il tempo per provarci a seguire i tuoi sogni e a realizzarli, c’è anche la possibilità che tu diventi un’attrice famosa.
Entrata nelle case degli italiani con Distretto di Polizia, dove ha indossato i panni dell’agente Vittoria Guerra, Daniela Morozzi ha iniziato a recitare da giovanissima nella Lega italiana improvvisazione teatrale (dove ha acquisito una tecnica che permette di improvvisare in scena e recitare con attori, spesso stranieri, magari conosciuti un minuto prima, «una cosa pazzesca, divertente e faticosissima») per poi cimentarsi con il cinema e la televisione.
La incontriamo al teatro Golden di Roma, dove – con Gianni Ferreri, Chiara Mastalli e Giancarlo Ratti – porta in scena Cena con sorpresa, commedia gradevolissima e ironica.
Daniela, hai aderito con entusiasmo alla campagna di donazioni (crowdfunding) di Patria indipendente. Cosa significa per te tenere viva la memoria della Resistenza? E cosa rappresenta nella tua vita il giornale dei partigiani?
Ho vissuto la vicenda della Resistenza dai racconti dei miei genitori e dei miei nonni. Patria è una rivista che in casa mia, antifascista e di sinistra, ha sempre girato. E spero che l’avventura on line le porti il successo che merita. È un giornale che non si occupa solo di ricordare quello che è accaduto nel nostro passato recente. Si occupa di memoria, che è un’altra cosa. La memoria ha a che fare con la vita di oggi, con quello che siamo e con quello che speriamo di essere domani. È la capacità di elaborare ciò che ci è accaduto, che è accaduto alle persone prima di noi e ciò che accadrà a quelle che verranno dopo. Ho un bambino piccolo e ogni volta non mi stanco di parlare con lui, di raccontargli l’Italia di oggi e di ieri. Perché, come nei sogni, tutto può svanire velocemente. Però c’è una parte dei sogni che nel profondo resta. È quella memoria profonda che Patria Indipendente tiene viva e coltiva per portarla nel futuro.
Mondo dello spettacolo e impegno politico e sociale: una volta era un binomio forte. È ancora così?
La cultura non può essere slegata dalla politica. Non è solo un binomio è qualcosa di più: sono proprio attaccate. Entrambe presuppongono la creatività, l’immaginazione e poi la realizzazione di un progetto. E debbo dire che politica e cultura in questi anni sono state parecchio oltraggiate. La politica fatica ad essere politica e la cultura ad essere cultura. Nel mio mestiere è sempre più complicato mettere insieme le idee e, quando le hai, a nutrirle e portarle avanti. Le risorse per la cultura sono sempre meno. Oggi ti viene richiesto di mettere su uno spettacolo in pochissimo tempo con economie ridotte all’osso. Tutto si consuma rapidamente, non abbiamo tempo di approfondire, ragionare, conoscere, leggere. Detto questo, come ci sono tanti politici di valore, ci sono anche attori e registi che in mezzo a mille difficoltà portano avanti idee straordinarie.
Spaziare dal cinema al teatro alla televisione significa anche attraversare il confine tra la cosiddetta cultura colta e la cultura popolare. Non trovi che vi sia un pericoloso distacco dalla realtà in chi – con un certo aristocraticismo – demonizza la televisione a prescindere?
Credo che demonizzare la televisione piuttosto che le commedie leggere sia un vizio autolesionista che attraversa spesso la sinistra italiana. La televisione può produrre spazzatura è vero, ma anche cose egregie. Non disprezzo nemmeno alcuni reality, quelli che hanno il pregio di far emergere talenti che altrimenti non avrebbero altre possibilità. Ho combattuto tutta la vita per sospendere giudizi a priori. Non sono affatto snob rispetto alla tv. L’ho fatta per tanto tempo e con grande impegno e credo sia un mezzo potentissimo per raccontare delle storie se, ovviamente, le sai raccontare. Mi ricordo che a Distretto di polizia ci domandavamo sempre cosa stavamo raccontando e come, sapendo che quello che facevamo non era solo una fiction, ma che stavamo incidendo profondamente nella società. Parlavamo di immigrazione, di solidarietà, di legalità, di quello che si vive nella strada.
In Italia le nuove iniziative in ambito culturale trovano attenzione e orecchie sensibili o, al contrario, tutto ciò che è nuovo fatica ad emergere?
Abbiamo una società di sintesi, abbiamo bisogno di qualcuno che ci spieghi le cose. Vale, ancora una volta, per la politica e la cultura. È difficile che la gente vada a sperimentare, a vedere una compagnia giovane. Ci vuole il nome sul cartellone, il nome famoso che conosci. È molto triste: non vai più a vedere Shakespeare, vai a vedere chi fa Shakespeare. Rompere questa roba è faticosissimo. A ciò aggiungi che nel nostro Paese più che altrove c’è la tendenza a separare gli ambiti, per cui c’è l’attore o il regista che fa il genere classico e quello che fa commedia. Una cristallizzazione dei ruoli che impoverisce l’offerta culturale.
Una cristallizzazione che non ti appartiene. Passi da Virzì alla von Trotta, dalla commedia al teatro di impegno civile…
Vedi, il punto è che mi piace raccontare cose complesse e anche difficili senza filtri e preconcetti, se possibile con leggerezza. Non sempre ho fatto cose belle, può succedere nel nostro mestiere. Oggi, anche grazie a quello che mi ha dato la televisione, sono libera di ritagliarmi uno spazio per fare quello che mi piace. Ho raccontato il mondo femminile che non è fatto solo di vittime ma di donne che riescono, che combattono e ce la fanno; mi sono occupata di legalità con un lavoro sui testimoni di giustizia. In questo momento sto lavorando ad un progetto bellissimo col Teatro d’Amburgo e quello di Castelnuovo di Berardenga, vicino Siena, uno spettacolo sulla seconda immigrazione degli anni 50, quando tanti italiani andavano a lavorare alla Volkswagen. È la storia di due sorelle che si ritrovano davanti al padre morto e scoprono che aveva due famiglie, una in Italia l’altra in Germania.
Sempre con una compagnia tedesca hai partecipato ad Albicocche rosse, uno spettacolo che sta molto a cuore all’ANPI. Ce ne puoi parlare?
Si tratta di un progetto che ha visto convolti il St. Pauli Theater Hamburg e il Teatro Alfieri di Castelnuovo Berardenga ed è stato realizzato con il patrocinio della Regione Toscana e dell’ambasciata tedesca, con un sostegno del ministero degli affari esteri tedesco, in cooperazione con il Goethe di Roma. Messo in scena da attori tedeschi e italiani ha offerto un importante contributo alla rielaborazione del periodo dell’occupazione tedesca dell’Italia. È stata una forma di teatro-documentario molto coinvolgente e assolutamente nuova.
In autunno gli italiani dovranno esprimersi con un referendum sulle riforme costituzionali che, tra l’altro, hanno portato alla fine del bicameralismo perfetto. Come valuti questa riforma?
Tutto sembra apparentemente chiaro, ma in realtà è tutto molto criptico; la gente non capisce dove si voglia andare a parare e, nel frastuono della propaganda, è privata di una informazione trasparente. La Costituzione non si tocca in questo modo! Non dico che non si possa migliorare e modificare, ci mancherebbe, ma lo si deve fare per noi cittadini e assieme a noi, perché la Costituzione ci tutela, ci indica la strada. Quando cadde Berlusconi nel mio paesino nel Mugello i vecchietti facevano festa. Questo per dirti che il nostro Paese ha tante persone belle, che credono nella partecipazione. Che vogliono poter dire la loro. Altra cosa che davvero non capisco è la polemica di Renzi con i sindacati. Con tutti gli errori che il sindacato può aver commesso, comunque non puoi non tenerne conto. I sindacati sono un presidio importante, difendono non solo i salari ma la democrazia sui luoghi di lavoro. Non va bene la concertazione? Bene, allora il governo dica in che modo intende confrontarsi.
Sei un personaggio dello spettacolo, dimmi la verità, ti hanno mai chiesto di candidarti?
Sì me l’hanno chiesto. Non ti dirò però chi. Sappi solo che ho rifiutato l’offerta. Fare politica è un’arte e un mestiere difficile. Custodire il benessere degli altri, di una città o di uno Stato, è una cosa importante, richiede impegno e conoscenze che io non ho. Che lo abbiano chiesto a me vuol dire che nella politica c’è qualcosa che non va. Lo confesso, mi sento sfocata, faccio fatica a capire cosa succede intorno a me. E credo che questa strana e sgradevole sensazione sia anche di molti italiani che non hanno le risposte che si aspettano dalla politica.
Più la politica è distante dalla gente, più parla il linguaggio della demagogia, più l’antipolitica conquista spazi e territori.
A volte mi capita di sentire le persone che dicono: “mandiamoli tutti a casa”. Ecco, io più semplicemente penso che non è vero che sono tutti uguali. Si tratta solo di scegliere i migliori. Comincio pure ad essere allergica a quelli che reclamano le brave persone: “È una brava persona, non ha mai rubato”. E diamine, ha fatto il suo! Vorrei una brava persona che sa anche fare politica. Per me, che molte rudezze del mio modo di vedere e di essere le ho rivisitate e lasciate alle spalle, essere di sinistra vuol dire interessarsi degli altri, pensare come economicamente e culturalmente farlo. E, ancora, riconoscere le ragioni dello stare insieme. Chiedo troppo?
Pubblicato venerdì 22 Aprile 2016
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