Sapendo quanto è stata rocambolesca la sua vita, fa una certa impressione frugare col proprio lo sguardo di un giovanissimo e forse ancora ingenuo Mario Rigoni Stern in posa tra l’erba in fiori di un campo del suo altipiano: è una delle tante immagini che puntellano il bel volume di Giuseppe Mendicino, uscito da poco per Laterza per festeggiare il centenario della nascita (Mario Rigoni Stern. Un ritratto, pp. 249, € 18), col quale l’autore non solo consegna una biografia puntuale e ricchissima di aneddoti dello scrittore di Asiago, ma anche una mappa per orientarci tra e con i suoi libri.
Se infatti affrontiamo la lettura della prima parte del volume con la stessa intelligente irrequietezza di chi segue una storia – a tratti difficile, a tratti malinconica – raccontata davanti al fuoco, le ultime ottanta pagine costituiscono una chiosa a quella vita degna di un romanzo d’avventura, un’appendice di altri cinque capitoli in cui Mendicino indaga trasversalmente i grandi temi della narrativa di Rigoni Stern: dal senso della natura a quello dell’amicizia, dal rapporto con i luoghi alla percezione dello scorrere del tempo, dal trascolorare delle stagioni all’amore per la montagna, dalla lotta per la libertà (prima di tutto individuale) alla necessità di condurre la propria esistenza nel segno dell’autenticità, del coraggio e della responsabilità.
Il suo libro è, prima ancora che una biografia, l’omaggio a un amico (o a un vecchio maestro). Come ha conosciuto Mario Rigoni Stern?
Io amo da sempre la letteratura, la storia e le montagne, quindi per me è stato naturale avvicinarmi ai suoi libri. Poi un giorno lessi una sua intervista, dove citava tra i suoi scrittori preferiti Ernest Hemingway e Joseph Conrad, che sono gli autori della mia giovinezza. E così mi decisi a chiamarlo, prendendo appuntamento con sua moglie Anna. Lui ha sempre avuto un forte senso dell’ospitalità, e mi accolse nel suo arboreto salvatico, il boschetto intorno casa con le due panche e il tavolo di legno. Iniziò così una bella amicizia.
Uomo di molte guerre, Rigoni Stern ebbe la propria educazione sentimentale tra libri e nevi. Quanto ha contato nella formazione del suo carattere di uomo, di soldato e di scrittore il rapporto con la montagna?
La montagna ha inciso profondamente, sia su Rigoni Stern sia sul suo amico Primo Levi. Porta ad amare la natura, la libertà, il silenzio, e anche il senso dell’avventura. Sia Rigoni sia Levi dissero che la resistenza, fisica e mentale, acquisita in montagna li aiutò a resistere alla prigionia nei lager tedeschi.
Montagne che, come le guerre, si sono portate via molti amici dello scrittore. Leggendo la sua biografia risulta evidente che quelle di Mario Rigoni Stern furono sempre amicizie forti, profonde, appassionate.
L’amicizia era per lui un valore fondamentale. I suoi migliori amici della vita militare ma anche Rino, il suo migliore amico della giovinezza ad Asiago, sono caduti in guerra. Non li dimenticherà mai. Inoltre, le lettere a Rino e ad Anna sono a volte dei veri e propri racconti, si nota già una certa abilità nel descrivere avvenimenti e paesaggi.
Il sergente Rigoni Stern ha combattuto sul fronte francese, in Albania e in quell’odissea di steppa e neve che fu la Russia, mostrandosi fino a un certo punto ignaro della reale tragedia in cui Mussolini stava trascinando l’Italia. Cosa gli fece aprire gli occhi?
Sulle Alpi occidentali e in Albania vide l’impreparazione e la retorica che avevano accompagnato quelle guerre di aggressione. In Russia vide la ferocia degli alleati tedeschi verso i soldati russi e soprattutto verso la popolazione inerme.
Seguirono, poi, il coraggio di dire no e la deportazione in Germania.
Nel settembre del 1943, dopo l’armistizio, lui e tanti altri giovani soldati vennero presi prigionieri e spediti in Germania. In ottobre venne chiesto loro se volevano arruolarsi nella Rsi di Mussolini. Mario Rigoni Stern e tanti altri dissero no: preferirono subire fame, freddo e umiliazioni piuttosto di tornare a combattere insieme ai tedeschi. Preferirono restare uomini liberi dietro il filo spinato.
E poi, “tornato a baita”, iniziò la carriera di scrittore. Fu facile per lui, autodidatta che adoperava il dialetto per esprimersi nel quotidiano, penetrare il mondo delle lettere?
Non è facile per nessuno. Lo stesso Primo Levi si vide rifiutare da Einaudi il dattiloscritto di Se questo è un uomo. Lui sapeva raccontare con concretezza e precisione, ma nelle sue pagine affiora anche la passione per la poesia, con esiti molto originali.
Leggendo le pagine che lei dedica alle travagliate vicende della pubblicazione del Sergente nella neve, sembra di cogliere a tratti una critica riguardo i suggerimenti avanzati da Vittorini, come se qua e là fosse andato perduto un tesoro. È così?
Vittorini ebbe il grande merito di capire subito il valore del testo di Rigoni, ma intervenne pesantemente eliminando dei passaggi, delle digressioni, che a suo avviso avrebbero potuto rallentare il flusso e la dinamicità degli avvenimenti narrati. Passaggi che avrei lasciato. Faccio un esempio: “C’era un lumino in ogni postazione e quando si chiudevano le feritoie si poteva leggere e scrivere. Alla notte, stanco di girare per i posti di vedetta, andavo in una postazione deserta. C’era tanto silenzio, tante stelle e tanto freddo. Tiravo giù il telo che faceva da porta, levavo dalla tasca un pacco di lettere celesti e leggevo. Avevo anche la Divina commedia, l’Orlando Furioso e un libriccino con poesie di Jacopone, Cavalcanti, Guinizzelli, Dante, Petrarca”.
Nonostante il successo, continuò a vivere nel suo altipiano, con le escursioni – in solitaria o con pochi amici fidati – e la caccia. Quest’ultimo è un tema oggi molto discusso.
Nella caccia bisogna prendere parte dell’interesse senza intaccare il capitale, seguire regole di lealtà e di conoscenza: rispettare i cicli di vita degli animali, lasciare l’auto sin dove arriva il postino e non oltre, avere il senso del limite. Non è un caso se nei più bei racconti di Rigoni dedicati agli animali, spesso questi si salvano: Segni sulla neve, Una lettera dall’Australia, Capriolo alla guerra e altri.
Forte del senso di libertà e coraggiosa responsabilità, Rigoni Stern a un certo punto seppe dire no al fascismo. Nel mondo di oggi a cosa si opporrebbe?
Al degrado civile, ambientale e culturale. Tre temi legati tra loro in modo indissolubile. Quando c’è ignoranza verso la natura e i rischi che corre, si lascia spazio al cemento, alla distruzione del paesaggio, a una devastazione irreversibile. Ripeteva spesso le parole di Giacomo Leopardi nel suo Zibaldone: “L’uomo che distrugge la natura taglia le radici del proprio futuro”. La libertà, secondo Rigoni, non deve mai essere disgiunta dal senso della responsabilità. Dobbiamo sempre porci il tema delle conseguenze delle nostre azioni, e anche delle nostre omissioni, del nostro silenzio davanti a ogni ingiustizia.
Giacomo Verri, scrittore
Pubblicato domenica 31 Ottobre 2021
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