Ferdinando Perissinotto, trevigiano, si laurea a Padova in filosofia; pubblica studi su Dufrenne e Levinas, conduce seminari su Husserl. Professore di filosofia e storia, insegna prima all’Istituto Stefanini a Mestre, poi al Liceo Cornaro di Padova, dove dal 2007 è anche vicepreside. Ha collaborato all’istituto di cultura Italo-tedesco. Ha scritto fra l’altro il saggio Macchine da guerra – Appunti per una fenomenologia delle guerre postmoderne.
Professore, secondo lei occorre reinventare le ragioni dell’insegnamento e dell’apprendimento della storia scolastica, anche partendo dall’idea che esso non sia necessario alla formazione della personalità, oppure la gran parte degli studenti di scuola superiore ha chiara l’importanza di questa disciplina?
La gran parte degli studenti non ha chiara l’importanza di questa disciplina. La gran parte degli studenti non ha chiara l’importanza di nessuna disciplina. A uno studente una disciplina può piacere, raro che sia la storia, può anche appassionare, rarissimo nel caso della storia, ma, per quanto mi è dato vedere, la maggior parte degli studenti vive il periodo del liceo come uno sconfinato e più o meno piacevole limbo dove si è tenuti a fare delle cose, come appunto studiare. E lo studio, nella maggior parte dei casi, è visto come qualcosa fine a se stesso. Non c’è, in genere, una proiezione verso un possibile impiego futuro delle nozioni apprese o delle fantomatiche competenze attivate. E non sarà certo l’alternanza scuola-lavoro a innescarla. Non c’è, in genere, una proiezione verso il futuro, se non forse per gli studenti di V (ma anche in questo caso si tratta di un futuro prossimo: la scelta universitaria). Non scopro niente di nuovo, immagino, se dico che questa generazione è stata defraudata del futuro. Questo non toglie che poi molti si impegnino nello studio e che talvolta provino anche un certo piacere nella scoperta, nella comprensione, nella risoluzione di un problema. Penso che per reinventare le ragioni dell’insegnamento e dell’apprendimento della storia (ma in fondo di qualsiasi altra disciplina) bisognerebbe proprio partire da qui. Inventarsi delle situazioni problematiche e dare loro degli strumenti per risolvere, o almeno, per affrontare questi problemi.
Il resto (la storia magistra vitae, la formazione della personalità, le radici, l’identità, gli strumenti per comprendere il passato che servono a decifrare il presente ecc.) verrà dopo, se verrà.
Il modello standard dell’insegnamento scolastico è fondato sulla terna lezione frontale-studio sul manuale-interrogazione, un modello in cui sono coinvolte sostanzialmente le abilità mnemoniche e di esposizione orale dello studente; quali pro e quali contro presenta tale situazione? La mediazione didattica potrebbe scalzare tale prassi, facendo scoprire della storia soprattutto la sua componente di ricerca? Se sì, come si potrebbe conciliare tale innovazione didattica con i vincoli imposti dal tempo, i programmi e “il congruo numero di valutazioni”?
I pro di questa terna sono semplicemente legati al fatto che, se il meccanismo funziona, e funziona se l’asticella è tenuta alta e la selezione è feroce, gli studenti che sopravvivono possono fare un buon colloquio (eufemismo ipocrita per dire interrogazione) all’esame di Stato. I contro equivalgono ai pro: serve solo a quello, in linea con la più schietta autoreferenzialità della scuola. Ma a parte alcune sparute ridotte, difese da qualche giapponese, da nessuna parte è più così. Bastano due semplici calcoli per capirlo: le ore complessive destinate alla storia nel triennio della scuola italiana sono ormai per tutte le scuole 66 all’anno. Il numero medio degli alunni per classe è di 25 studenti; considerando che un’interrogazione tipo dura, minimo, 15 minuti, che bisogna spiegare le valutazioni, dato che non si ha a che fare insomma con polli di batteria, è ragionevole pensare ad una media di 3 interrogazioni all’ora. Quindi 32/33 ore a quadrimestre. L’esatta metà del tempo scuola “teorico”. Un tempo inutile per il resto della classe che, scampato il pericolo, si dedica alle più disparate attività o si annoia.
Già negli anni 80 la panacea sembrava essere la sostituzione dello studio manualistico con la ricerca storica: lo sperimentai al liceo Stefanini di Mestre. Una delle prime maxi-sperimentazioni fiorite negli anni ’70, che aveva con Gennaro Cuciniello e un gruppo di docenti molto affiatato e motivato ripensato l’insegnamento liceale ricostruendolo attorno alla ricerca storica. Per mandare avanti tutto questo complesso meccanismo, programmare e coordinare i lavori, erano previste cattedre di 18 ore, articolate su 14 ore in classe e 4 ore settimanali di programmazione. L’esperimento naufragò agli inizi degli anni 90, falcidiato dai tagli «razionalizzanti», ma anche da polemiche e lacerazioni interne. Veniva obiettato che puntare l’accento quasi esclusivamente su pluridisciplinarietà e ricerca, senza le premesse di solide basi disciplinari e quadri di riferimento chiari, creava da una parte una cultura intesa come melting pot di fattori interscambiabili, dall’altro esperti ricercatori sulle lotte operaie a Marghera o sulle stragi naziste durante la ritirata in Veneto, che però magari non sapevano costruire una linea del tempo coerente fra ‘800 e ‘900. In soldoni la coperta è sempre troppo corta. E poi fare ricerca, magari in archivi di Stato e tra faldoni polverosi, può essere anche molto noioso. Niente che dia “immediata soddisfazione”. Come diceva Gramsci: lo studio è anche fatica e noia e non ci sono scorciatoie. Sgombrato il campo da fraintendimenti non è che non ci si debba provare. L’importante è cercare di avere obiettivi semplici e chiari. Non dobbiamo formare futuri storici, ma offrire una ricostruzione generale ma, per quanto possibile, fondata dei principali processi storici di un’epoca; dobbiamo far capire che la storia non è semplice narrazione, ma anche costruzione del fatto storico e interpretazione critica di fonti e che l’interpretazione dipende anche e soprattutto dalla prospettiva storica in cui è gettata. Efficace può essere predisporre, per alcuni snodi significativi del percorso di studio, del materiale, anche opportunamente semplificato, e far fare delle operazioni agli studenti.
Guardiamo dei quadri di Vermeer e scopriamoci dentro delle cose: dei piatti colorati, delle cartine geografiche, delle bilance per monete d’oro e d’argento, incrociamo queste informazioni con alcuni dati sulla importazione nelle Fiandre di porcellana dalla Cina nel ‘600, sulla produzione d’argento nelle miniere di Potosì in Perù, proviamo a fare delle ipotesi sul circuito dei traffici nel XVII secolo e sui primi esperimenti di globalizzazione. Anche questo porta via molto più tempo di una lezione frontale che avrebbe ridotto tutto in venti minuti. C’è però la speranza che, costruendo la conoscenza, qualcosa si fissi di più. Il tempo si può recuperare con altre strategie, per esempio la flipped classroom: supplendo alla lezione frontale e guidando gli studenti allo studio manualistico a casa con materiale audiovisivo e dedicando il tempo scolastico al lavoro sui testi e le fonti, il tutto con un discreto successo. Almeno fin quando i ragazzi non si rendono conto che così si lavora di più. Ma allora si ritorna al vecchio Gramsci!
Sempre a proposito di vincoli e limiti di tempo, è recente la proposta del ministro Giannini di ridurre la durata degli studi superiori da cinque a quattro anni senza però toccare i programmi (partirà una sperimentazione dall’anno prossimo, su 60 classi prime): cosa succederà? È una proposta da respingere o l’occasione per ripensare la didattica tradizionale, specialmente quella della storia?
Non so se si può dire in un’intervista ma… una puttanata. Sarebbe solo un patetico inseguimento del mantra in voga «ce lo chiede l’Europa», se non avesse l’unica finalità di tagliare, senza colpo ferire, di un quinto le spese per la scuola superiore (del resto è questo il motivo per cui si invoca, il più delle volte, il mantra). Ben inteso: non è un dogma indiscutibile che il liceo debba durare 5 anni e gli studenti italiani terminare il ciclo di scuola superiore a 19 anni. Solo che ripensare questo modello implica una riflessione complessiva sui cicli di studio, sul rapporto fra scuola dell’obbligo e studio superiore, sulla relazione fra formazione culturale e indirizzo professionale: tutto quello che si doveva fare e non si è fatto ai tempi della riforma Gelmini (la peggior calamità abbattutasi sulla scuola italiana negli ultimi decenni, soprattutto perché è stata un’enorme occasione persa). A confronto la tanto vituperata Buona Scuola di Renzi è un sassolino nella scarpa. Posso anche essere d’accordo che gli obiettivi di un liceo italiano siano troppo ambiziosi e vasti. Ma per cambiare questo stato di cose sarebbe allora necessaria una riflessione (mai fatta) sui saperi fondamentali, non azzerare con un colpo di spugna un anno di studio. Che è come dire che fino ad oggi si è buttato un anno di tempo.
Da qualche anno a scuola si parla sempre meno di conoscenze e sempre più di competenze: quali sono quelle che la storia costruisce e sviluppa nello studente e attraverso quali metodologie si possono ottenere al meglio?
Diffido del lessico delle “competenze” che, mutuato da una psico-pedagogia comportamentista, tende a trasferire sul sistema scolastico le esigenze del mercato, volte a rendere più fungibili i sistemi formativi tradizionali per produrre un “personale” capace di adeguarsi, anche caratterialmente, alle capriole delle non più nuove dinamiche post-fordiste dell’accumulazione flessibile. Se per rapporto fra conoscenze e competenze si intende invece che lo studio non deve essere semplicemente libresco, ma deve dotare gli studenti di strumenti concettuali capaci di far loro, non solo comprendere la realtà circostante, ma anche di intervenire operativamente su di essa, la novità risale a Vittorino da Feltre! Il problema è che il possesso di conoscenze si può misurare molto più facilmente che la capacità di applicarle in nuovi contesti: le artefatte e spesso ridicole prove di realtà sono lì a dimostrarlo. E allora ancora occorre proporre agli studenti problemi e non soluzioni.
Al quinto anno gli studenti dovrebbero poter confrontarsi con la storia del Novecento. Sappiamo che spesso, invece, si arriva a stento al secondo dopoguerra: come ovviare a questo ritardo cronico?
Magari non cominciando la V dal Risorgimento Italiano o da “cenni sulla Rivoluzione francese”! Tuttavia in questi ultimi anni sono stati fatti passi avanti: è abbastanza comune che i percorsi di studio affrontino temi come la decolonizzazione, la guerra fredda, la costruzione della Repubblica dagli anni della ricostruzione, dal boom economico al profilarsi del primo centro-sinistra, la contestazione globale del ’68, con percorsi ad hoc, sulla stagione del terrorismo o sulla fine dell’Unione Sovietica. Il problema è come si affrontano questi temi. Lo studio della storia del ‘900 rimane rigorosamente “totalisticocentrico”, incentrato cioè sullo snodo cruciale della “seconda guerra dei trent’anni europea”, tutto quello che viene prima è una preparazione, quello che viene dopo un’appendice. Bisognerebbe cambiare paradigma, o integrarlo. Personalmente ritengo fondamentale il passaggio fra gli anni 70 e gli anni 80, ossia il successo del modello neo-liberista dell’accumulazione flessibile. Nel lungo periodo il passaggio dal ciclo liberista, già inquietato dal dirigismo economico dei governi di guerra a quello keynesiano fino al ritorno e alla riaffermazione del neo-liberismo, con la conseguente crisi della forma stato e della cittadinanza ad esso annessa.
Quale spazio e peso ha la Resistenza italiana nei manuali scolastici di storia e in che luce viene generalmente presentata? Lei, personalmente, come la propone?
I manuali possono essere su questo tema più o meno decorosi, sono sicuramente migliorati, ma non è questo il problema. Per assurdo è molto più difficile trattare la Resistenza oggi che 20 anni fa, quando era ridotta nei libri di studio ad una scheda, spesso malfatta, ma quando ancora si avvertiva qualche riverbero del confronto politico fra destra e sinistra e delle grandi ideologie del ‘900. L’appiattimento attuale, che corrisponde non a caso allo smarrimento del senso storico, ha consegnato il passato della lotta di Resistenza a un ammasso gelatinoso dove senso e valori si dissolvono. Il risultato è che parlare di Liberazione dal nazifascismo lascia indifferenti molti ragazzi. Questo fatto non sarebbe, paradossalmente, di per se stesso un male, anzi permetterebbe di trattare l’argomento con maggior oggettività, ma il rischio è che si venga a creare una sfasatura fra l’enfasi in un qualche modo “istituzionale” con cui un docente con la mia formazione può affrontare l’argomento e la risposta piatta degli studenti. Spesso perciò gioco sporco, cercando di coinvolgerli in prima persona. Leggendo ad esempio, come introduzione all’argomento, le lettere dei giovani partigiani condannati a morte o le testimonianze riportate da Claudio Pavone sulle motivazioni soggettive della scelta per la Resistenza e chiedendo loro cosa li potrebbe portare a scelte così radicali. Se c’è qualcosa nella loro esistenza per cui vale la pena compiere scelte così radicali. Non è detto che funzioni, la massima di Calamandrei per cui la libertà è come l’aria, la cui presenza si avverte solo quando viene a mancare, è sempre attuale, ma quanto meno c’è la possibilità che si venga a creare uno spazio di discussione all’interno del quale rivitalizzare la questione. Certo la Resistenza costituisce un tipico esempio di quanto potrebbe essere utile un approccio multidisciplinare. Forse solo l’intreccio fra letteratura, storia, cinema può cercare di dare spessore e senso allo studio dei ragazzi. Ritorna perciò il problema della programmazione che non è un semplice problema di tempi ma di scelte strategiche e di valore della formazione.
Il 2016 è stato l’anno del cosiddetto “concorsone” che ha selezionato e porterà, nei prossimi tre anni, molti nuovi docenti nelle aule. Chi è, secondo lei, il docente ideale di storia?
Sono per una politica dei “cento fiori”, più che per la definizione di un’idea platonica del docente ideale. Forse la cosa essenziale è che sia, senza retorica, lui per primo, almeno lui, appassionato della disciplina. I ragazzi questo lo percepiscono a pelle, magari considerano di conseguenza il docente una persona bizzarra, ma il più delle volte però, nonostante questo o proprio per questo, lo stimano e sono disposti a mettersi in gioco. Che si lamenti il meno possibile, anzi che non si lamenti per nulla dell’inefficienza della struttura, dell’ignoranza degli studenti, della decadenza dei tempi e del destino cinico e baro. Che continui a leggere e studiare come se fosse al primo anno di università e investa i suoi studenti con proposte di lettura di saggi, di romanzi, di ascolto di musiche, di visione di film. Che sia il più possibile trasparente e onesto. In fin dei conti io continuo a pensarla come quel personaggio di Woody Allen che spiegava in un film a sua nipote: «While we’re waiting for a cab I’ll give you your lesson for today. Don’t listen to what your teachers tell ya, you know. Don’t pay attention. Just, just see what they look like and that’s how you’ll know what life is really gonna be like».
Pubblicato venerdì 2 Dicembre 2016
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