L’Italia è antifascista? Lo abbiamo chiesto al magistrato Vincenzo Macrì lo scorso 4 febbraio durante l’incontro organizzato da Anpi, Auser, Arci, Cgil e Spi Cgil al teatro Metropolitano di Reggio Calabria. «L’impianto costituzionale è antifascista. L’Italia è una democrazia parlamentare presidiata da organi costituzionali di garanzia con sistemi di rappresentanza diretta, divisione dei poteri, magistratura libera e indipendente. Alcune leggi hanno dato attuazione alla XII disposizione transitoria e finale che vieta la riorganizzazione del disciolto partito fascista quali la legge Scelba, che pone le premesse penali dell’antifascismo, la ratifica avvenuta nel 1975 di una Convenzione dell’Onu che sanziona i reati per motivi razziali, etnici o religiosi, la legge Mancino del 1993. Nonostante un quadro legislativo completo c’è una difficoltà a tradurre queste norme in reali sentenze di condanna».
Macrì parla di “nuovo rigurgito” fascista perché la presenza dei fascisti non è mai venuta meno. «Dal 1944 al 1947 c’è stata in Italia una guerra silente, condotta da una coalizione di forze: il comando alleato, la Chiesa, i latifondisti, le forze dell’Esercito separatista siciliano, la mafia, i reduci della Rsi, che riuscirono a passare la linea gotica e presero parte a una serie di formazioni finalizzate a sabotare la presenza americana e soprattutto a combattere le forze social-comuniste e sindacali nel meridione, la massoneria e l’aristocrazia romana, che avevano interessi al Sud. Il Comando alleato aveva paura di perdere la Sicilia e l’Italia alle elezioni del dopoguerra: l’Italia era un Paese con una forte presenza comunista, che era stata protagonista della Resistenza e che avrebbe avuto una maggioranza elettorale dopo il conflitto. Perdere la Sicilia avrebbe significato perdere il controllo americano del Mediterraneo. In Sicilia c’era una motivazione in più: una vittoria social-comunista avrebbe comportato la vittoria delle lotte contadine finalizzate ad ottenere la riforma agraria».
Nel 1946, prima della entrata in vigore della Costituzione, la Sicilia diventa regione a Statuto speciale. «È la prima trattativa Stato-mafia – spiega Macrì – così come la strage di Portella della Ginestra il Primo maggio 1947 è il primo episodio della strategia della tensione. Negli anni queste forze rimasero in letargo anche perché in Italia, a differenza che in Germania, non ci fu una epurazione dei quadri amministrativi dello Stato fascista: questori, prefetti, procuratori generali, presidenti dei tribunali rimasero al loro posto fino agli anni Sessanta, esercitando un peso molto forte nell’amministrazione repubblicana. Lo stesso Togliatti, Ministro della Giustizia, firmò l’amnistia, nel tentativo di riconciliazione nazionale, che funzionò ma che si trascinava presenze di azione e cultura fascista. Non c’è stata una scomparsa del fascismo, ma una presenza costante che è costata all’Italia centinaia di morti nelle varie stragi. Oggi queste presenze riemergono perché si sono riproposte le condizioni».
Secondo Macrì le cause risalgono alla fine della Prima Repubblica, alla caduta del Muro di Berlino, alla fine dell’Impero Sovietico, all’entrata in campo di nuove forze politiche come la Lega e Forza Italia, alla globalizzazione, tutti elementi che hanno generato fenomeni di insicurezza diffusa e crisi economiche profonde. «La Lega crea un nemico e un’indignazione verso il nemico per avere una rendita politica. In un primo tempo i nemici sono i meridionali, poi gli zingari. La Lega presenta subito il suo volto di formazione di estrema destra». Il leghista Calderoli, infatti, ministro per la Semplificazione normativa col governo Berlusconi, sottoscrive un provvedimento che abroga tutte le leggi anteriori al 1970, escluse quelle di interesse nazionale. Viene così abrogato, “per errore”, un decreto legislativo del 1948 che vietava la formazione di associazioni paramilitari, nonostante la materia sia di interesse nazionale. «Non bisogna dimenticare – sottolinea Macrì – che in quel periodo era in corso a Verona il processo che vedeva imputati 36 esponenti della Guardia nazionale padana: grazie all’abrogazione del decreto gli imputati furono tutti assolti e venne meno un importante presidio antifascista contro la formazione di gruppi paramilitari».
Oggi il nemico della Lega sono gli immigrati. «La Lega ha generato una campagna di odio che ha avvelenato l’Italia e che ha fatto presa per una coincidenza: il fenomeno migratorio da un lato e il terrorismo islamico dall’altro, associati in un unico problema con una risposta politica».
Macrì parla di un pericoloso ritorno ai nazionalismi, soprattutto nei Paesi balcanici, dove si registrano forti presenze di gruppi di destra collegati fra loro in una internazionale nera molto pericolosa. «Il nazionalismo sfocia sempre nell’autoritarismo, nel totalitarismo e nella dittatura, porta alla chiusura delle frontiere, all’autarchia, a guerre doganali che spesso hanno determinato guerre vere. Per l’Italia sarebbe la rovina economica: per questo dobbiamo cercare di rafforzare l’Unione europea». Vincenzo Macrì, esperto nei rapporti tra ‘ndrangheta, destra eversiva e politica, grazie al suo lavoro nella Direzione Nazionale Antimafia, aggiunge: «In Italia le forze di destra hanno sempre avuto come alleata la mafia. Le mafie sono ideologicamente di destra e questo deve farci preoccupare molto di più. In Italia c’è l’abitudine molto pericolosa, quella del riduzionismo, che fa definire episodi razzisti e fascisti come episodi isolati, ragazzate, opera di squilibrati. La storia non si chiude mai, non conosce cesure nette o soluzioni di continuità. Resta sommersa ma non scompare mai. E può tornare in qualsiasi momento, quando si creano le condizioni. Bisogna conoscere il passato per agire nel presente». E il neo rigurgito fascista, di cui parla Macrì, va di pari passo con la disaffezione verso la politica e la deriva populista.
Vincenzo Macrì è entrato in magistratura nel 1970. È stato pretore mandamentale, quindi componente della sezione penale del Tribunale di Reggio Calabria, giudice istruttore per circa dieci anni, giudice per le indagini preliminari e presidente del Tribunale per le misure di prevenzione dal 1982 al 1985, periodo nel quale è entrata in vigore la legge Rognoni-LaTorre. In quel periodo il Tribunale per le misure di prevenzione ha emesso provvedimenti di confisca nei confronti delle più importanti cosche della provincia di Reggio Calabria, contribuendo, anche sul piano teorico, a formare la prima giurisprudenza in materia. E’ passato quindi alla Procura Generale presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria quale sostituto. Dal 1993 ha fatto parte dei 20 magistrati componenti della Direzione Nazionale Antimafia con sede in Roma, sino al 2010, prima in qualità di sostituto e, da ultimo, come procuratore aggiunto. In tale periodo è stato coordinatore, in tempi diversi, dei dipartimenti ‘ndrangheta, Cosa Nostra, Sacra corona unita. Si è occupato della legislazione e dell’applicazione del regime dell’art. 41 bis O.P., di ecomafie, di infiltrazioni mafiose in agricoltura. È stato applicato alle DDA di Reggio Calabria e Bologna. Presso la DDA di Reggio Calabria si è occupato del processo “Olimpia”, il più importante processo sulla ‘ndrangheta calabrese, ed in particolare sui rapporti tra ‘ndrangheta, destra eversiva, politica. Dal 12 agosto 2010 è stato Procuratore Generale presso la Corte d’Appello delle Marche. (Da TRAME.4)
Pubblicato lunedì 16 Aprile 2018
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