«Non sono portato per il racconto autobiografico – ci spiega il professor Carlo Smuraglia nel suo studio a Milano –. Per me, parlare della Resistenza non è parlare della mia Resistenza. A me della Resistenza interessano, soprattutto, il contenuto, il significato, il processo formativo che è valso per me come per tanti, non a caso, da lì è maturata e nata la Costituzione».
Eppure ne avrebbe tante, da raccontare, Carlo Smuraglia. Classe 1923, a vent’anni da poco compiuti, dopo l’armistizio dell’8 settembre, interrompe gli studi di giurisprudenza a Pisa e si unisce ai partigiani. Nel ’44 si arruola come volontario nel nuovo esercito italiano e prosegue la guerra fino alla sconfitta delle forze nazifasciste, alla liberazione del 25 aprile 1945 e allo “scoppio” della pace. Si laurea nel 1946, si dedica all’insegnamento (all’Università di Milano), alla professione di avvocato e alla politica – come assessore provinciale, consigliere regionale e presidente del Consiglio regionale lombardo –, è membro del Consiglio superiore della magistratura e per tre volte del Parlamento. Nel 2011 è eletto presidente dell’Associazione nazionale partigiani italiani, carica che ricopre fino al 2017. Oggi ne è Presidente emerito. Ascoltarne racconti e riflessioni è un privilegio.
Perché unirsi all’esercito dopo la Resistenza?
Fu una lunga riflessione, ma lo ritenemmo giusto. Ritenevamo un gesto importante che i partigiani si unissero a quel che rimaneva dell’esercito italiano dopo l’8 settembre. L’idea sottostante era anche quella di innescare un lento processo di democratizzazione nell’esercito, anche solo per piccoli passi. Ad esempio un giorno fu chiesto, oltre all’istituzione di una commissione per la mensa – piccolo strumento di democrazia – anche la creazione di una “ora politica”, cioè di un momento in cui fossimo liberi di discutere tra di noi commilitoni sul futuro del Paese. Il generale ci pensò a lungo ma alla fine fece alcune concessioni. Purtroppo la vicenda dei partigiani volontari nell’ottava armata è troppo poco ricordata e conosciuta.
Quanto è importante conservare la memoria di quegli anni?
La memoria costituisce un elemento fondamentale della vita di una nazione. Una nazione vive sulla memoria collettiva, anche se non del tutto condivisa, e si regge sulla sua storia. La storia comporta molti significati, e il ricordo di cose avvenute rende avveduti, e quando si tratta di vicende negative, evita il rischio che si ripetano. Un famoso storico, una volta, disse che la storia si ripete difficilmente con le stesse modalità, ma è importante conoscerla per capire quando è tempo di mettere in azione gli antidoti contro le derive. Quando l’Italia fece la scelta di rendere il 25 aprile festa nazionale fu fatto un passo importante in questa direzione. Il 25 aprile si festeggia la Liberazione dell’Italia e la nascita dell’Italia democratica. Per questo è una festa che dovrebbe essere partecipata e riconosciuta da tutti. Quest’anno, in particolare, assume un carattere straordinario, a mio parere. Da un lato, dobbiamo continuare a ricordare che la Costituzione ha ancora bisogno di essere attuata, mentre si moltiplicano gli episodi in cui si manca di rispetto alla Costituzione stessa: penso all’abuso dei decreti legge, che sminuisce la centralità del Parlamento, o a quello dei voti di fiducia. La stessa idea di democrazia rappresentativa – irreversibile nel nostro ordinamento – viene messa in discussione da proposte di democrazia diretta che rischiano di minare la funzione parlamentare. Chi festeggia la Liberazione e la Resistenza il 25 aprile come preludio alla Costituzione deve sapere che di Costituzione c’è estremo bisogno proprio nei momenti di crisi, come quello in cui viviamo.
In secondo luogo, assistiamo a un violento rigurgito di fascismi, che dopo un relativo periodo di stasi sono ripresi in maniera rilevante. Ma non ci sono solo – e sono tante – le forme nostalgiche. Oggi questo fascismo si mescola al razzismo, e bisogna ricordarsi che le leggi razziali del ’38 non furono un “incidente” del fascismo, ma una sua connaturale espressione, e non solo verso la popolazione ebraica, se si pensa a quel che accadde nelle colonie. Gli atteggiamenti odierni verso i migranti sono, magari talvolta inconsapevolmente, fascisti. Perché il fascismo è la negazione dell’uguaglianza.
Stiamo sottovalutando la situazione?
Quando pensiamo alla nascita del fascismo e del nazismo, ciò che ci colpisce, fra le varie cause, sono le condizioni sociali difficili, la disoccupazione, lo stato di incertezza delle istituzioni. Anche oggi nelle istituzioni non c’è sempre la necessaria consapevolezza. Penso alle parole del presidente del Parlamento europeo su Mussolini, e al caso del nostro ministro dell’Interno che parla di “libertà di pensiero” in merito a una manifestazione decisamente nostalgica, trascurando il fatto che abbiamo una Costituzione nettamente antifascista, nel senso che nei principi e nei valori è esattamente il contrario del fascismo, dal primo all’ultimo articolo. L’inadeguatezza delle istituzioni è ancora più chiara se si dà un’occhiata a quel che accade sul web, dove la “galassia nera” dice di tutto senza che vengano presi provvedimenti: un fenomeno gravissimo il cui potenziale diffusivo è straordinario e dunque richiederebbe una risposta adeguata da parte delle istituzioni.
Là dove mancano le istituzioni, vediamo però le persone scendere in piazza.
La nascita di iniziative spontanee è un fatto positivo. Penso ad esempio alla manifestazione del 2 marzo a Milano. La volontà popolare si manifesta in tanti modi – ma anche in maniera ambivalente, come nel caso dei gilet gialli. Penso anche a quella giovane ragazza, Greta, che col suo semplice sciopero ha contribuito a un movimento planetario. Credo che ci si debba riappropriare della parola “popolo”, scritta in Costituzione. Al popolo “appartiene”, di diritto, la sovranità. Che non viene “conferita” ma va esercitata. Solo in questo modo la sovranità corrisponde al senso di appartenenza originario. Ma attenzione: questo non vuole dire che il popolo ha sempre ragione, come qualcuno sostiene, magari per “difendersi” dalla giustizia adducendo come argomento “decisivo”, il numero di voti ricevuti. Il popolo manifesta la sua volontà attraverso le forme della democrazia rappresentativa, e non è detto che queste debbano prevaricare o essere preminenti rispetto a tutte le altre forme di garanzia che il sistema democratico predispone e prevede – come ad esempio l’indipendenza della magistratura. Oggi si insiste molto sul referendum propositivo – non previsto dal nostro ordinamento –, e addirittura una delle prime proposte non prevedeva neppure un quorum. In realtà, la Costituzione prevede anche alcune forme di democrazia diretta: basterebbe farle funzionare e non occorrerebbe altro.
Con l’Anpi lavorate molto nelle scuole.
Abbiamo un protocollo di intesa col ministero dell’Istruzione: andiamo nelle scuole a fare una cosa che non si fa quasi più, ovvero parlare di Costituzione, cittadinanza attiva. Abbiamo promosso un concorso il cui tema è la Costituzione. L’articolo 9 della legge Scelba (la 645 del 1952, che introdusse, tra l’altro, il reato di apologia del fascismo, ndr) impegnava la Repubblica a spiegare agli studenti che cosa è stato il fascismo. È un articolo del tutto disatteso. Non solo: nelle scuole svaniscono le ore di educazione civica. Ma la scuola non è solo destinata a fornire nozioni, semmai deve formare “cittadini”, e in questa direzione va il nostro impegno.
Chi sono oggi i resistenti?
Oggi ciò che conta veramente è la partecipazione. C’è troppa indifferenza, troppa rassegnazione, troppi che dicono che non c’è nulla da fare. Una delle risposte che si sentono spesso alla domanda “Come va?” è “Bene, compatibilmente”. Ecco, contro quel “compatibilmente” facciamo troppo poco. Abbiamo bisogno di partecipazione, reazione e indignazione. Confido molto anche nelle forme spontanee, ma spero sempre che tanti, che oggi tacciono, quasi rassegnati, escano dal silenzio e si adoperino per il riscatto in tutte le forme che la democrazia prevede e tutela. Non arrendersi mai: questo dovrebbe essere il senso della partecipazione e della volontà di realizzare un futuro migliore. Il problema, comunque, è soprattutto quello di cambiare la mentalità che si è infilata nella testa di molte persone, spesso preda delle paure e degli egoismi. Ripartiamo dall’articolo 2 della Costituzione, che sancisce che la solidarietà è un dovere “imprescindibile” di tutti i cittadini.
Pietro Raitano, direttore di Altreconomia
Per gentile concessione di Altreconomia. L’intervista è uscita sul numero 214 (aprile 2019) della rivista.
Pubblicato martedì 23 Aprile 2019
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/interviste/la-nuova-resistenza/