Bioresistenze è un progetto della Confederazione Italiana Agricoltori (Cia). Si tratta di un invito a concentrarsi sul patrimonio rappresentato da un certo tipo di agricoltura: quella che opera per i beni comuni, rispettosa dell’ambiente, del territorio e degli uomini che ci vivono e lavorano. Parte da qui la nostra intervista a Dino Scanavino, imprenditore vitivinicolo astigiano e Presidente della Confederazione italiana agricoltori.
Bioresistenza. Una parola che ne richiama altre. Tutte belle e importanti: legalità, ambiente, solidarietà, diritti, sviluppo sostenibile. E poi le parole che sono alla base della nostra Repubblica: antifascismo e Resistenza. Che legame c’è tra il mondo agricolo e la lotta di Liberazione?
Noi siamo partigiani perché perseguiamo un equilibrio tra la terra, l’uomo e l’imprenditore che opera e agisce in una logica di sviluppo sostenibile per il sistema e rispettoso dei cittadini che dei frutti della terra si nutrono. Partigiani perché crediamo che l’agricoltura non è solo una, pur fondamentale, attività economica ma anche presidio di legalità, pratica di solidarietà, passione e impegno per il bene di tutti. Si è partigiani perché ci si incarica di essere custodi e sentinelle del territorio. Custodi ma non con un approccio museale. Noi custodiamo il territorio modificandolo e usandolo ma sempre rispettosamente. Questa è la bioresistenza.
Un concetto non estendibile a tutta l’agricoltura…
Certa agricoltura è più invasiva. Non va demonizzata, ma va gradatamente riportata in un rapporto tra natura, agricoltura, uomo e impresa che sia sostenibile. Sostenibile in francese si dice durable. Durabile, destinato a persistere nel tempo.
La biodiversità è una particolarità del nostro Paese. La grande varietà delle colture italiane può rappresentare – se adeguatamente valorizzata – elemento di sviluppo dei territori? Come si muove la Cia da questo punto di vista?
Semplicemente cercando di legare la nostra produzione al brand territoriale. Brand territoriale per noi agricoltori è essenzialmente ciò che abbiamo: più di 500 varietà di olivo, oltre 400 varietà di vigneti. È un patrimonio che abbiamo solo in Italia. Pensi che in Spagna hanno appena 3 varietà di olive. Questa nostra biodiversità gestita, governata, incentivata ed innovata è l’elemento distintivo dell’agricoltura italiana. Che oggi noi valorizziamo ancora troppo poco.
Perché?
Perché non abbiamo costruito una rete di interlocutori che abbia la sensibilità sufficiente per riconoscere questo brand e farlo diventare un fatto esclusivo. Per dirla diversamente noi non possiamo produrre latte, dobbiamo produrre formaggi. Non possiamo produrre olive, dobbiamo produrre olio extra vergine d’oliva corradina, frantoio moraiolo, leccino… Attenzione però, innovazione e modernità vanno di pari passo. Perché quello che andava bene 50 anni fa oggi non è più adeguato ai tempi e ai gusti. Anche le piante non sono le stesse, sono state modificate, attraverso sapienti potature, innesti o incroci per rendere l’olivo – e non solo, pensiamo ai vitigni – consono ai gusti e più resistente ai virus.
Il Parlamento europeo ha approvato misure d’emergenza comunitarie per permettere l’importazione, per il 2016 e il 2017, di 70mila tonnellate di olio d’oliva extra vergine tunisino senza dazi. Si tratta di un pericolo per l’agricoltura italiana?
L’arrivo dell’olio tunisino non rappresenta un pericolo se siamo capaci di affermare il nostro modello. Lo è nel momento in cui noi al consumatore offriamo olio extra vergine tunisino – di ottima qualità, per carità – e non lo differenziamo però da quello italiano. Chiedere di essere differenti ma non far nulla per affermare la nostra diversità è un atto di debolezza. Verso il consumatore soprattutto, che deve poter riconoscere l’olio che sta acquistando. Quanto allo specifico della decisione del Parlamento europeo comprendiamo e condividiamo l’obiettivo di solidarietà dell’Europa nei confronti di Paesi in difficoltà socio-economiche tramite azioni commerciali di privilegio, ma non va dimenticato che non si può penalizzare l’agricoltura e, in particolare, le produzioni mediterranee.
La Cia è stata promotrice di un’iniziativa contro le contraffazioni e le sofisticazioni. Di che si tratta?
Un contrassegno, coniato dal Poligrafico e Zecca dello Stato, cingerà il collo delle bottiglie certificandone l’identità: solo olio ottenuto da olive italiane, trasformato in Italia e tracciato dalla pianta alla tavola. Così si potrà finalmente assestare un duro colpo a chi intende frodare i consumatori.
L’agricoltura esercita una forte attrazione. Molti giovani, tante donne, hanno deciso di tornare a lavorare la terra, ad impegnarsi nell’agricoltura e nel suo indotto. A questa voglia di agricoltura, che può creare nuova occupazione e sottrarre le terre all’abbandono, come si è risposto?
L’agricoltura rappresenta una risorsa strategica per la ripresa dell’economia. Anche con la crisi l’agricoltura ha garantito occupazione e produttività. Basti pensare che nel 2013 sulla scena agricola sono spuntate 11.485 nuove aziende, pari al 10 per cento delle imprese neonate in Italia, e che oltre il 17 per cento di questa nutrita pattuglia di “new entry” aveva un titolare di età inferiore ai 30 anni.
Tornando all’inizio della nostra chiacchierata la resistenza è un concetto complesso perché è fatto di tante componenti. I giovani che decidono di insediarsi in agricoltura di fatto sono dei resistenti perché resistono a una vita più comoda e omologata. Noi facciamo troppo poco per incentivare questi giovani. Abbiamo bisogno di persone preparate nelle discipline più diverse che si insedino nelle aree rurali e pretendano – anche con l’irruenza tipica della gioventù – di essere ascoltate e considerate, in quanto imprenditori e cittadini. E come Confederazione nello stesso tempo dobbiamo essere capaci di fare pressione sulla politica perché questi concetti siano metabolizzati. La politica deve capire che l’agricoltura non solo crea ricchezza ma non produce problemi. Dirò di più, i problemi li risolve. Il Pil dell’agricoltura non si può calcolare. O meglio dentro dovremmo metterci i vantaggi ambientali, l’assorbimento dell’anidride carbonica. Chi li calcola questi benefici?
Alla “Cop21” di Parigi dello scorso anno, sul contrasto ai cambiamenti climatici, l’Italia ha riconosciuto per bocca del ministro dell’Ambiente Galletti il contributo dell’agricoltura per la riduzione dei gas serra.
Riconoscere la funzione primaria che svolgono i terreni agricoli, i pascoli e i boschi, è una atto importante. Che richiede atti e fatti concreti da parte della politica. Primo fra tutti l’approvazione della legge che dice stop al consumo di suolo. Perché – non bastasse il riscaldamento globale e l’incremento dei fenomeni meteorologici estremi che provocano dissesto idrogeologico – in Italia assistiamo ad una incontrollata cementificazione dei terreni, l’inquinamento e la perdita di sostanza organica del suolo. Oggi si stima che oltre il 20% della superficie nazionale è a rischio di desertificazione.
Ad un sondaggio pubblicato sul sito della Cia alla domanda: “qual è il problema più grande per l’agricoltura?” il 45% ha risposto il peso della burocrazia.
In Italia c’è quasi un approccio perverso nel complicare la vita alle persone. E sugli agricoltori questo accanimento è incredibile. In questi giorni abbiamo l’esigenza di assicurare le colture contro le calamità naturali. Ebbene dallo scorso anno l’azienda deve fare il Pai, il Piano assicurativo individuale. Solo che i dati che l’agricoltore ha e il sistema operativo del Pai non si incrociano. Dopo giorni di pena abbiamo chiesto al ministro di posticipare il Pai di tre mesi e di farci presentare intanto le assicurazioni. In questa confusione e in una stagione anticipata in termini meteorologici abbiamo assicurato un terzo del valore delle colture rispetto a quello che avevamo assicurato lo scorso anno. Siamo a rischio di perdere raccolti e risarcimenti per colpa della burocrazia. E questo è solo un esempio. Abbiamo un sistema impazzito, fatto di sovrastrutture che pagano se stesse e niente altro. Basti pensare ai Consorzi agrari, un’idrovora che ha succhiato letteralmente risorse pubbliche e private. Puntualmente, ogni volta che si mette mano alla Legge di Stabilità, giungono notizie di colpi di mano diretti a infilare nel disegno di legge all’esame un emendamento volto a recuperare il tesoretto della Federconsorzi di 400 e più milioni di euro. Rifinanziare Federconsorzi – un morto tenuto in vita per scopi poco nobili e pochissimo trasparenti – sarebbe scandaloso.
A proposito di burocrazia qual è il vostro giudizio sull’Associazione italiana allevatori?
L’Aia ormai è un ente che aumenta la burocrazia e appesantisce il sistema. Il tutto, in una fase già di per sé difficile e delicata per gli allevatori italiani. Serve un cambio di passo, con una struttura snella che possa favorire la ripresa del settore. Fortunatamente, il nuovo quadro comunitario unito alla delega al Parlamento per la riforma del sistema allevatoriale, lasciano prefigurare all’orizzonte una concreta opportunità di semplificazione.
La legge 109 sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alle organizzazioni mafiose ha compiuto venti anni. Cosa ha significato quella norma per il mondo agricolo. E qual è il bilancio?
La 109 è stata una grande legge. Come Confederazione Italiana Agricoltori siamo stati coinvolti sin dall’inizio in questo percorso di legalità, perché in questi anni molte aziende confiscate alla criminalità organizzata sono andate ad aziende nostre socie. Con Libera di don Ciotti abbiamo una interlocuzione costante e quotidiana. Questa legge è stata un provvedimento di altissimo valore, una grande intuizione. Lo dico senza facili ottimismi. Il cammino non è stato facile. Le cooperative che hanno coltivato le terre confiscate alla mafia e alla camorra hanno avuto le vessazioni più terribili: raccolti incendiati, animali uccisi, trattori rubati, minacce. Debbo poi rilevare con amarezza che a volte non c’è stata da parte delle autorità la necessaria consapevolezza della sfida in atto. Alcune cooperative che avevano avuto le terre sono andate a loro volta in default e le terre rivedute all’asta sono tornare in mani mafiose. Una cosa inconcepibile, che denuncia quanto meno, una disattenzione dello Stato. Il malaffare, la malavita, il caporalato, in alcune aree del Paese – e non solo al Sud, ché anzi la mafia più virulenta si trova al Nord – la fanno ancora da padroni. La 109 è una legge importante, ma guai ad abbassare la guardia perché la lotta alla mafia è ancora tutta in salita.
Giampiero Cazzato, giornalista professionista, ha lavorato a Liberazione e alla Rinascita della Sinistra; oggi collabora col Venerdì di Repubblica
Pubblicato lunedì 21 Marzo 2016
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